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PAOLO FARINELLA, prete – SanTorpete, Genova

Il passaggio dalla predicazione di Gesù ai vangeli scritti fu il seguente: Gesù predica, gli apostoli predicano, in qualche ambiente inizia la raccolta di scritti con liste indipendenti di parabole, miracoli, insegnamenti morali, detti diversi, sentenze su varie circostanze, ecc. Tutto ciò era finalizzato ad usi diversi come la memorizzazione, la catechesi in occasione di circostanze differenti della vita, il confronto della vita dei primi cristiani con la vita del Signore. Bisognava cominciare a porsi la domanda: il Maestro durante la sua vita terrena in analoghe situazioni come la persecuzione, il martirio, la prova, come si comportava? Quando fu tradotto davanti ai tribunali (giudaico e romano) quale fu il suo atteggiamento? Bisogna imparare da lui e comportarsi come lui.

DOMENICA 12a TEMPO ORDINARIO-A – 21-06-2020

Ger 20,10-13; Sal 69/68,8-10.14.17.33-35; Rm 5,12-15; Mt 10,26-33

La domenica 12a del tempo ordinario-A ci pone di fronte a un aspetto importante della vita cristiana: il rapporto tra profezia e storia. Da una parte c’è il profeta Geremìa, uomo dall’animo sensibile, che Dio chiama per un compito contro natura come è annunciare disastri e castighi al popolo infedele; egli, infatti, deve fare violenza a se stesso per essere fedele a Dio, che è esigente. Dall’altra la maggioranza del popolo prova fastidio di fronte alle parole del profeta perché richiamano alla responsabilità morale, di cui il popolo farebbe volentieri a meno.

Ancora una volta, il profeta si distacca, differenziandosi, dalla funzione del sacerdote. Il popolo, infatti, non vuole profeti, ma sacerdoti disposti a sfornare riti propiziatori e atti di culto con cui dominare comportamenti e coscienze. Nella storia biblica:

i profeti hanno sempre aiutato e spronato il popolo a camminare verso la consapevolezza del proprio agire etico, interiorizzando le ragioni della fedeltà a Dio;

            i sacerdoti, al contrario, molto spesso hanno fatto traviare il popolo dall’alleanza.

Il profeta è schiavo della Parola,

            il sacerdote è gestore del rito.

Il profeta si appella alla responsabilità e alla scelta del cuore,

            il sacerdote alla tradizione e alla ripetitività dei gesti.

Il profeta sveglia l’etica della responsabilità,

            il sacerdote alimenta il bisogno esteriore di appartenenza e d’identità.

Il profeta travalica il tempo,

            il sacerdote è legato e chiuso nel recinto dello spazio e del tempo sacri, prigioniero dei riti.

Le due figure emblematiche sono Mosè e il fratello Arònne. Il primo porta la Parola sulle tavole di pietra che non esita a rompere di fronte all’adulterazione della fede (cf Es 19-20, passim e Es 32,19-20); il secondo, dopo averlo provocato, rafforza senza contrastarlo il processo di idolatria del popolo che giunge a sostituire la non visibilità del Dio della Parola con una immagine fisica, palpabile e sperimentabile, un vitello d’oro, espressione della volontà del popolo, compromessa dal sacerdote, di possedere Dio (cf Es 32,7-10.15-20. 21-25).

Il popolo religioso che si è fatto un «dio a propria immagine e somiglianza» non ha bisogno di profeti, anzi li percepisce come ostacolo e cerca, quindi, di ucciderli, come accade a Geremìa nella 1a lettura. In un regime di religione e di cristianità, che si vuole di nuovo costituire, anche oggi, non c’è posto per la profezia.

La storia della Chiesa ha una costante secolare: tutti i profeti sono «uccisi» in vita dalla gerarchia pro tempore, e quasi tutti vengono ricuperati «post mortem», integrati, riabilitati, ormai innocui, perché svuotati del senso dirompente che avevano in vita.

La visita di Papa Francesco, il giorno 26 giugno 2017, alle tombe di don Primo Mazzolari a Bozzolo (MN) e di don Lorenzo Milani a Barbiana (FI), ne sono una prova esplicita. Per sua stessa ammissione il Papa restituì onore e dignità a due preti che additò come modelli di ecclesialità, «preti non clericali», incarnati secondo il vangelo nel loro tempo (Omelia alla Messa del mattino in Santa Marta [Vaticano], il giorno 23 giugno 2017) e che furono massacrati dalla gerarchia del loro tempo. Sulla tomba di don Lorenzo Milani disse davanti agli antichi ragazzi, superstiti, della Scuola di Barbiana: «Pregate per me perché anche io sappia prendere esempio da questo bravo prete». Il bravo prete è don Lorenzo Milani.

Ai carnefici, la gerarchia del tempo che li torturò sistematicamente in nome dell’opportunismo, Papa Francesco concede un’attenuante che prende in prestito da Paolo VI, il quale da arcivescovo di Milano, contro il parere di tutti i vescovi lombardi, volle don Primo Mazzolari predicatore ufficiale della Missione cittadina del 1957 a Milano. Lo stesso arcivescovo Montini, successivamente, gli proibì di predicare fuori i confini della sua parrocchia, salvo, dopo morto, dire di lui: «Camminava avanti con un passo troppo lungo e spesso noi non gli si poteva tener dietro! E così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. È il destino dei profeti» (Saluto ai pellegrini di Bozzolo e Cicognara in Vaticano, 1 maggio 1970).

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Cinque anni dopo Laudato Si’– dalla Comunità di Taizè

Cinque anni fa, Papa Francesco pubblicava la sua enciclica Laudato Si’ con la quale rivolgeva “un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta”. Poi aggiungeva: “Abbiamo bisogno di un confronto che ci unisca tutti, perché la sfida ambientale che viviamo, e le sue radici umane, ci riguardano e ci toccano tutti” [1].

Questo invito è più urgente oggi che mai. E la crisi creata dalla pandemia di Covid-19 evidenzia bruscamente quanto sia vulnerabile la nostra casa comune.

Allo stesso tempo, l’improvviso isolamento di metà della popolazione umana e le drastiche decisioni in materia di salute prese in molti paesi hanno anche dimostrato che una risposta politica, sociale ed economica era ancora possibile data la gravità dei problemi. Molte voci chiedono che la vita delle nostre società non riprenda semplicemente il suo corso normale, ma che approfittiamo di questo momento per interrogarci in profondità.

Con coloro che condividono la fede in Dio, ci rivolgiamo a lui nella preghiera e supplica. Ma ho la convinzione interiore che in questo momento di prova anche Dio ci supplichi: Svegliatevi! È perché ci ama che ci parla. Non vorrebbe forse dirci: vedete quanto dipendete gli uni dagli altri, tra persone vicine, ma anche tra paesi e popoli. Vedete quanto avete bisogno della fratellanza umana. Scoprite quanto è necessario prendersi cura della creazione per il vostro futuro comune. Sì, svegliamoci!

 Mentre il ritmo frenetico delle nostre società si è improvvisamente quasi fermato, ora è il rischio di un caos sociale che minaccia. E coloro che ne verranno colpiti saranno in primo luogo i più poveri, che si tratti di paesi o persone. Con loro, sapremo costruire nuove solidarietà riscoprendo il valore dell’aiuto reciproco come tante persone l’hanno praticato nelle ultime settimane?

 Poiché il collasso della biodiversità peggiora ineluttabilmente e l’emergenza climatica preme sull’umanità, gli scienziati e la giovane generazione c’invitano a scuoterci. L’infinito sfruttamento di risorse limitate non è più possibile. Diventeremo sempre più consapevoli che con tutti gli esseri viventi “siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale” [2] ?

A Taizé, siamo impressionati nel vedere l’impegno di così tanti giovani per la salvaguardia del pianeta. A questi giovani vorrei dire: non perdete coraggio di fronte alla lentezza e alle esitazioni che constatate. Con quelli della mia generazione, dovremmo chiedervi perdono per aver trascurato così tanto questa responsabilità. Il consumismo ha occupato troppo spazio, come se la felicità si riducesse a quello. Avete ragione a incitarci a cambiare il nostro stile di vita in modo che diventi più sobrio e più centrato sull’essenziale [3].

Ciò che mi dà speranza è vedere emergere alla base molteplici iniziative, fatte di impegni molto concreti che, senza fornire risposte sistemiche, manifestano il desiderio di agire senza il quale nulla sarà possibile. E queste iniziative mi sembrano avere sempre più impatto politico [4].

Per i credenti si aggiunge un’ulteriore responsabilità: il pianeta è un dono che Dio ci affida [5], la preoccupazione per la Creazione è parte integrante della nostra fede. Di fronte a queste sfide ambientali, una testimonianza comune delle confessioni cristiane [6], e anche delle diverse religioni diventa ancora più importante – insieme a tutti coloro che trovano la motivazione per il loro impegno altrove rispetto alla fede.

All’indomani della crisi pandemica, c’è da temere che le disuguaglianze aumentino ulteriormente e che la ripresa economica abbia luogo senza tenere sufficientemente conto dell’emergenza climatica. Ma abbiamo anche l’immensa opportunità d’interrogarci sul futuro che vogliamo. Saremo in grado di cogliere questo momento?

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venerdì 15 maggio 2020

IN QUEL TEMPO  Raniero La Valle

In quel tempo c’era stato un editto del governo per il quale nessuno si doveva baciare, certe regioni avevano mandato i malati fuori dai loro ospedali e i morti spedito ad altri cimiteri e c’era stato anche un concordatino tra Stato e Chiesa, a prova del fatto che nessuno voleva limitare la libertà di culto. Esso dettava minuziose norme sulla celebrazione delle messe: queste, come era noto ai contraenti, sono il modo simbolico (e per i teologi anche reale) in cui viene rappresentata quella cena in cui il Signore Gesù spezzò il pane lo scambiò con i suoi discepoli e lavò loro i piedi. Ma con le regole di oggi e perché il simbolo mantenga la sua verosimiglianza con l’evento, occorrerebbe  che Gesù avesse parlato attraverso la mascherina, avesse spezzato il pane con i guanti, lo avesse non dato nelle mani ma fatto balzare nei piatti dei Dodici, si fosse dimenticato di versare il vino, avesse lavato i piedi agli apostoli stando a distanza magari con una lunga spugna o, ancor meglio, non glieli avesse lavati affatto. E quanto a Leonardo da Vinci avrebbe dovuto dipingere una tavola di tredici metri uno per commensale o più se alla cena fosse stato ammesso qualche altro ospite contato.

Basta questo per dire come quello dovesse essere un tempo del tutto straordinario e anzi di profondissima crisi. In effetti c’era, rubando per sé tutta la scena, la crisi sanitaria suscitata dalla pandemia

Ma c’era anche la crisi del denaro creduto onnipotente, ma prigioniero per altri scopi che non quello del bene comune e di altre persone che non quelle che con la fatica e il lavoro lo moltiplicavano sulla terra. 

E c’era una crisi nella Chiesa, perché non si era mai visto un Vangelo svelato ogni mattina al mondo da Santa Marta, un Vangelo che si pensava già saputo e risaputo e che invece giungeva come nuovo, come uno scoop…. 

Ma forse era anche il tempo di un’altra cronologia, il tempo atteso, quello promesso in cui tutto sarebbe cambiato, un principio di vita nuova, non più circoscritto al tempio di Gerusalemme, né trattenuto nelle sue mura, né imprigionato dal suo muro post-umano e dai mille altri muri di separazione sparsi nel mondo. Il tempo è questo.

Se dunque si incrociavano due tempi, quello atteso e quello della crisi, anche i segni del tempo apparivano contrastanti, segni di tormenta e segni di aurora.

E per affrontare questo tempo ci voleva una Chiesa profondamente rinnovata, quale mai era stata pensata dopo il tempo delle origini. Essa era cresciuta e aveva preso la fisionomia attuale in un’altra epoca, detta di “cristianità” che ormai era finita…. 

La riforma di cui essa aveva bisogno andava ben oltre il matrimonio dei preti e i ministeri femminili…

Ma in quello stato di cose la Chiesa questo non lo poteva fare. A compiere l’opera doveva essere il pontificato e la Chiesa di Francesco, in continuità col Concilio. Ma papa Francesco, mentre realizzava la riforma più radicale: la riscoperta trasfigurante della persona del Padre, ha spiegato da Santa Marta che dentro questa crisi, non era possibile fare i cambiamenti che pure si vorrebbero. Come dice un proverbio della sua Argentina: “quando passi un fiume non cambiare cavallo”: in tempi di pace si possono fare miracoli, come dicono gli Atti degli Apostoli, ma quando c’è la crisi …non bisogna sfidarla con la necessaria discontinuità….. Ma chi doveva e poteva farlo? Era il mondo che doveva farlo, lui era il soggetto della liberazione, l’umanità tutta intera, il popolo di Dio nella sua dimensione più ampia che abbraccia tutta la Terra…. 

È il vasto popolo del mondo che non ha un suo nome che lo distingua, come è dei Greci o degli Spagnoli, perché il suo nome sarebbe quello di Dio, ma il nome di Dio non è esprimibile in termini umani. Perciò i musulmani invocano i 99 bei nomi di Dio, ma non giungono all’ultimo, perciò nell’ebraismo esso è nascosto nel tetragramma sacro, perciò nel cristianesimo non c’è altro nome al di sopra del nome di Gesù, perché il nome di Dio è il suo stesso essere, “Io sono”. 

Perciò non si può nominare il nome di Dio invano, perché nessuno possa appropriarsene per distinguersi gli uni dagli altri. Non si può spartire. Si può essere buddisti, confuciani, animisti, maomettani, anche cristiani, ma col nome di Dio nessuno si può far differenziare. La tunica non si divide.

Ma in che modo il popolo di Dio, che è l’umanità tutta intera, poteva e può farsi protagonista dell’avvento del tempo nuovo? La formula è semplice: convertitevi e credete al Vangelo, è l’invito rivolto da Gesù alle folle all’inizio della sua predicazione.  

Papa Bergoglio predica il vangelo di Gesù, ossia il vangelo sul Padre; vorrebbe dire le parole corse sulla strada di Emmaus, quando era Gesù a spiegare le Scritture ai discepoli. E nel far questo nello stesso tempo indica e promuove la restaurazione del mondo….

Raniero La Valle


Pasqua con i tuoi…

riflessione del biblista Maggi, su una Settimana Santa diversa dalle altre

di Alberto Maggi | 06.04.2020

Come spiega il biblista Alberto Maggi su ilLibraio.it, “forse sono proprio le situazioni di emergenza, quelle che fanno risaltare quel che c’era già, ma non gli si faceva caso, e si può provare a leggere la buona notizia di Gesù sperimentandola veramente come tale“. 

La riflessione su una Pasqua diversa dalle altre, segnata dall’emergenza covid-19: “La fede nella risurrezione non ha come fondamento un annuncio, ma l’esperienza dell’incontro con il Risorto. La morte di Cristo non ha posto fine alla sua missione, al contrario...”

La tradizione popolare ha coniato il detto Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi. La festività di dicembre si trascorreva con i famigliari, mentre la Pasqua, già nella buona stagione, con amici e conoscenti, magari fuori di casa. Tutto questo prima della pandemia che obbliga a vivere e celebrare la Pasqua 2020 rigorosamente in famiglia, chiusi in casa, lasciando fuori della porta, a distanza di sicurezza, gli amici e i conoscenti, e anche le tradizionali importanti celebrazioni liturgiche che hanno scandito nei secoli il triduo pasquale, dalla celebrazione della Cena del Signore, il giovedì santo, alla celebrazione della Passione il venerdì, e infine la luminosa veglia pasquale del sabato santo, con l’esplosione di luce e di gioia che ha il culmine nella Pasqua del Signore.

Di fronte a questa inaspettata emergenza, sono molti, laici e religiosi, che si sono sentiti completamente disorientati spiazzati, e le reazioni sono le più disparate e fantasiose. Ma, afferma la saggezza popolare, non sempre il male viene per nuocere, e si può provare a vivere in modo alternativo anche la Pasqua del Signore, e non per questo sarà meno ricca e fruttuosa. Forse sono proprio le situazioni di emergenza quelle che fanno risaltare quel che c’era già, ma non gli si faceva caso, e si può provare a leggere la buona notizia di Gesù sperimentandola veramente come tale. 

Può essere interessante vedere come nel Vangelo di Marco, considerato il più antico, sia stata vissuta la Risurrezione del Cristo, e come questa possa aiutare a vivere situazioni difficili senza lasciarsi sopraffare da ansia e mestizia.

Gesù, tanto osannato dalle folle al suo ingresso a Gerusalemme, è ormai solo nel Getsemani. Sì, gli sono accanto alcuni discepoli, ma dormono, indifferenti al suo dramma. E Gesù chiede al Padre di allontanare da lui la prova che l’aspetta: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!” (Mc 14,36). 

Ma il Padre non risponde a questo grido accorato del figlio. Quel che doveva dirgli, l’aveva già detto al momento del battesimo e confermato sul monte della trasfigurazione: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Mc 1,11; 9,7). Gesù è il figlio amato, la realizzazione del progetto del Padre sull’umanità, un uomo con la condizione divina. Gesù è il capolavoro del Creatore, “immagine del Dio invisibile. Primogenito di tutta la creazione” (Col 1,15). Non deve temere, perché è “prezioso ai suoi occhi” (Is 43,4) e il Padre sempre si prenderà cura di lui in ogni situazione, qualunque essa sia.

E Gesù comprende. Non si sottrae, non fugge, non si mette in salvo, ma va incontro al suo destino: “Alzatevi, andiamo!” (Mc 14,42). Dall’esperienza di Gesù, l’evangelista comprende che Dio non muta il corso degli eventi, ma comunica agli uomini la sua stessa forza per viverli, affrontarli e superarli. Il Padre di Gesù non è il Dio che ferma il sole (Gs 10,13), ma Colui che comunica la sua stessa energia d’amore ai suoi e ne fa la “luce del mondo” (Mt 5,14).

Ma questa luce che è Gesù, ed è in lui (Gv 8,12), sembra ormai spenta e spazzata via dagli eventi. Catturato, insultato, sputacchiato, schiaffeggiato, percosso, flagellato, incoronato di spine, Gesù è stato crocifisso nel patibolo degli infami (“maledetto chi è appeso al legno”, Gal 3,13; Dt 21,23). Non c’è nessuna luce sul Golgota, ma solo fitte tenebre che si estendono “su tutta la terra” (Mc 14,33). La sconfitta del preteso Messia è anche il fallimento di quel Dio che Gesù chiamava suo Padre, che ora mostra di essere incapace di salvare il suo figliolo amato (“Ha salvato altri, non può salvare se stesso!”, Mc 15,31).

È la parola fine. Il Golgota è deserto, i cadaveri dei giustiziati sono stati seppelliti, non c’è più nessuno. Scomparsi i passanti che insultavano Gesù, i sommi sacerdoti che con gli scribi lo deridevano soddisfatti. I discepoli, non ne parliamo. Si erano dichiarati spavaldamente disposti a morire per Gesù… per poi darsela a gambe all’arrivo dei soldati (“Tutti, abbandonatolo, fuggirono!”, Mc 14,50).

Ma non tutti hanno lasciato Gesù. Il coraggio che i discepoli hanno dimostrato non avere, è visibile nella scelta di tre donne, Maria di Magdala, Maria madre di Joses, e Salome. Le sole testimoni degli eventi (Mc 14,40.47). Sono queste le discepole che, passato il sabato, vanno al sepolcro “al levare del sole” (Mc 16,2). È spuntato il giorno del Signore annunciato dai profeti, quello in cui la luce dissiperà definitivamente le tenebre (Zc 14,6-7), e la morte non interromperà più la vita dell’individuo ma la proietterà verso orizzonti sconfinati.

Una grave preoccupazione accomuna e angoscia però le donne: chi rotolerà via la pesantissima pietra posta all’ingresso del sepolcro? (Mc 15,3). Ma la luce di questo nuovo giorno illumina finalmente anche le donne, e quando queste cominciano ad alzare lo sguardo, cioè a non guardare più se stesse, ma a ampliare il loro orizzonte, si accorgono che il motivo della loro preoccupazione era inesistente: la pietra, che pur era “molto grande”, non chiudeva più il sepolcro.

E le sorprese non sono finite: Gesù non è nella tomba. Il luogo della morte non può trattenere colui che è il Vivente. Non aveva forse egli detto che Dio “non è Dio dei morti, ma dei viventi” ? (Mc 12,27), un Dio che non risuscita i morti, ma concede ai vivi la sua stessa vita, una vita che non viene interrotta dalla morte. La tomba di Gesù non è neanche il luogo per i suoi discepoli, e le donne sono cacciate dal misterioso giovane con la veste bianca, con un ordine imperativo: “Andate!” (Mc 16,7)Ora che le discepole hanno fatto l’esperienza che Gesù è vivo, non possono più restare nel sepolcro, ma andare dai vivi. Il giovane comanda infatti le donne di andare dai discepoli, ma non le incarica di annunciare quel che hanno visto, bensì di salire in Galilea “là lo vedrete” (Mc 16,7). La fede nella risurrezione non ha come fondamento un annuncio, ma l’esperienza dell’incontro con il Risorto. La morte di Gesù non ha posto fine alla sua missione, al contrario. Gesù iniziò in Galilea la sua attività, e in Galilea ora i discepoli la devono continuare e prolungare. 

E il vangelo di Marco termina con l’assicurazione che “Il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano” (Mc 16,20). Può essere questo l’augurio per la Pasqua con la pandemia: Il Risorto non si trova solo nei templi, nei riti, nelle liturgie, ma ovunque gli uomini vivono, praticano e proclamano la sua buona notizia.

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La donna e il tempio – Gv 4,5-42

Vittorio Mencucci 07/02/2020

Stupendo e incantevole il dialogo tra Gesù e la samaritana, una donna bella e spigliata che più laica di così non si poteva pensare, eppure Gesù mostra verso di lei un pathos sorprendente. Sembra che Gesù senta il bisogno di confidarsi e di sentirsi capito e affettuosamente accettato da quella donna.

 Punto di partenza è l’acqua del pozzo e la sete per la calura del mezzogiorno, poi ci si eleva a quell’acqua che nel cuore diventa fonte zampillante per la vita eterna, mentre lo sconosciuto di altra etnia rivela cosa c’è nella vita della donna. Il richiamo vago del messia provoca la risposta accorata e confidente: Sono io che ti parlo. La donna, anche se nessuno l’ha mandata, sente il bisogno di annunciare alla città l’esperienza straordinaria di quell’incontro. 

Tutto questo anche oggi scatenerebbe una grande polemica di togati conservatori. Per chi conosce la storia fa soffrire lo stridente contrasto tra lo stile di Gesù cortese e affascinato di fronte alle donne e la pratica secolare di tutti i membri della Chiesa, nessuno escluso, sino al Concilio Vaticano II. 

Non riporto le frasi di questi santi padri che al tempo erano segno di austera saggezza e ora fanno solo vergogna. Evidente l’immaturità psicologica di chi non sa dominare il proprio istinto di fronte a una donna, la usa come oggetto, ma vive la sessualità come cosa peccaminosa e si sente in colpa. 

Anche oggi, se pur si è capovolto il tono del linguaggio, ben poco è mutato nella prassi. Il dialogo tra Gesù e la Samaritana annuncia un problema più alto e grande, tanto che diventa l’orizzonte in cui il dialogo si colloca e acquista senso: la fine della religione del tempio. È la donna che lo provoca, anche se probabilmente nel tempio non c’era mai entrata, né le importava granché. 

I veri adoratori adoreranno il padre, non su questo monte, né a Gerusalemme, ma in spirito e verità. Quando Gesù muore, il velo del tempio si squarcia in due da cima a fondo: è finita la religione del tempio e del sistema del sacro in generale, i riti, le gerarchie, l’etica della sottomissione, i pesanti fardelli sulle spalle della gente. Il tempio è il prototipo del sacro applicato a una realtà sensibile, ma il tempio (fanum), come il sacro, genera il profanum che equivale al dualismo puro/impuro. 

Non è pensabile che il profano si sottragga al potere della casta sacerdotale, deve essere ricondotto alla sottomissione. Il tempio, come ogni sacro, impone molti divieti e richiede dei doveri: nel tempio non si può svolgere nessuna attività umana, al tempio l’uomo deve portare i suoi doni. Il Dio del tempio esige dei riti e promulga leggi da osservare. Il sacro oggettivato comporta un’etica eteronoma.

Il cristianesimo non è una religione costituita dalle strutture, ma è fede in Cristo, Dio fatto uomo. La sua persona e la sua parola sono il punto di riferimento per dar senso alla vita. Imitare Cristo vuol dire tradurre il valore della sua presenza e della sua parola nella realtà in cui siamo chiamati a vivere e con il linguaggio proprio del nostro tempo. 

Con una persona si dialoga e si cresce assieme, ci si apre a un orizzonte infinito. Proprio questa capacità di aprirsi all’infinito è il vero sacro che annuncia la presenza di Dio e apre l’orizzonte a ogni progetto personale, senza nulla imporre. 

Nella quotidianità della Chiesa c’è un’inflazione del sacro, aggettivo qualitativo di ogni cosa, manca quel sacro infinito che genera stupore. Pone il problema del senso di vivere e sollecita un progetto etico di libertà commisurato al momento storico.   

Vittorio Mencucci prete della diocesi di Senigallia, parroco di S. Giovanni Battista di Scapezzano (An), teologo di frontiera. Il suo ultimo libro, di cui è coautore con  Luigi Gianantoni, è Ripensare la fede nella fedeltà a Cristo e al proprio tempo (Il pozzo di Giacobbe ed., in vendita presso Adista)  

Fragilità e potere

Ivano Pioli – Melegnano 04/03/2020, 

«Il clima di grande allarme sociale, d’insicurezza e d’ansia che rischia di diffondersi è anche il frutto di uno sguardo sulla vita che vorrebbe avere tutto sotto controllo, che fa fatica ad accettare la condizione umana fragile e vulnerabile e che, in fondo, ha cancellato Dio dall’orizzonte dell’esistenza. Pensavamo di poter controllare tutto, ma la realtà è più grande di noi e forse dobbiamo imparare a unire al giusto e appassionato impegno per vincere il male e le malattie, l’affidamento al vero Signore del mondo, creatore e Padre, nel gesto umile e intelligente della preghiera: “I conti sull’uomo, senza Dio, non tornano, e i conti sul mondo, su tutto il vasto universo, senza di Lui non tornano” (Benedetto XVI)».

Di fronte a questa riflessione del vescovo di Pavia, mi sorgono spontanee un paio di domande. Se facessimo meno fatica ad accettare la nostra fragilità, questa situazione ci spaventerebbe meno? No proprio perché la consapevolezza di essere fragili non è un aiuto più di quanto non lo sia il volerlo negare. E quanto potrebbe realmente aiutarci “l’affidamento al vero signore del mondo“? Molto se questo significa mettere una pietra tombale sulla nostra razionalità, se smettiamo di guardarci intorno e pensiamo che, malgrado tutto il male che ci circonda, c’è un Dio che ci ama e che, bene o male, ci tirerà fuori dai guai; poco o niente se, appunto, ci guardiamo intorno con un minimo di razionalità, comprendendo che chi non ci ha evitato questo problema non lo risolverà certo al nostro posto, rispondendo a preghiere e sacrifici. 

Non si risolvono i problemi con affermazioni lapidarie che pretendono di spiegare tutto e che invece andrebbero spiegate razionalmente. Può darsi che i conti senza Dio non tornino; ma è ancor più difficile farli tornare se mettiamo insieme la nostra fragilità e l’imperfezione della creazione con un Dio che dovrebbe amarci come un padre. In realtà, suggerire l’affidamento a Dio, in questa situazione, dà molto l’idea di voler tirare l’acqua al proprio mulino, di essere pronti ad utilizzare strumentalmente qualunque argomento per proporre o imporre il proprio punto di vista

Per secoli ci siamo affidati a preghiere e litanie per esorcizzare la paura degli eventi naturali, delle malattie e di tutto ciò che ci faceva toccare con mano la nostra fragilità. Oggi per molti, fortunatamente, non è più così; non siamo più cattivi o più indifferenti, ma semplicemente più consapevoli che Dio non è lì pronto ad intervenire nella storia umana. Ma sempre a stimolarci a fare noi quanto le circostanze ci affidano.

venerdì 6 marzo 2020   IL VIRUS AMMONISCE LA TERRA – RANIERO LA VALLE

Il segno dei tempi più inquietante e invasivo di questi tempi dolenti è che il governo ha proibito i baci. Povero san Bernardo con i suoi nove sermoni sul bacio! E il Cantico dei Cantici!

Dall’emergenza virus che ha colpito il mondo e affligge l’Italia dobbiamo tuttavia ricavare, insieme al lutto, moniti e conferme che sarebbe colpevole ignorare.

La prima conferma è che ormai, al di là di tutte le preziose diversità di nazioni, di stirpi, di Stati, di colore, di cultura, di religione, di lingua e di sesso, c’è un solo popolo della Terra, c’è l’evidenza di una sua unità di origine e di destino, c’è la sua soggettività o persona collettiva che è in gioco. Abbiamo toccato con mano quanto già aveva detto san Giovanni Crisostomo e proclamato il Concilio Vaticano II: “Chi sta in Roma sa che gli  Indi sono sue membra”. Questa unità, rifiutata e stracciata da tutti i poteri del mondo, ora bussa alla nostra porta e non ci sono muri, apartheid, riserve indiane e frontiere o porti chiusi che tengano. Il confine non è la propria immagine, come pretende la selfie, è globale. Una grande lezione.

La seconda è il nesso inscindibile che stringe gli esseri umani alla natura; le donne, certo, prima di tutto, che sono grembo della vita, ma anche gli uomini: un nesso con tutta la natura vivente, quella visibile e quella invisibile, anche più invisibile del pulviscolo dell’aria; per questo si parla di ecologia integrale. Dicono che il virus sia passato dagli animali all’uomo, saltando da una specie all’altra, che ora anche le malattie, grazie alla globalizzazione, non conoscono frontiere tra gli animali e l’uomo, tra l’una e l’altra specie. Ciò vuol dire che deve essere la cultura, ben più che la natura, a presiedere al nostro rapporto con gli animali, a definire ciò che ad essi ci accomuna (come canta il Cantico delle creature) ma anche ciò che infinitamente da loro ci distingue, quella scintilla dell’umano,  quello scambio ineffabile che ci fa confinare con Dio,  che fa l’inestimabile differenza  umana, che nessuna intelligenza artificiale potrà eguagliare. In questa differenza alberga anche il diritto.

La terza è che il nostro vero problema, la vera posta in gioco, quella che pur sembra la più difficile, non è la sicurezza, ma la salvezza. La salvezza della Terra, che la storia continui, che l’umanità sussista, senza l’alibi dell’escaton, della fine annunciata, delle apocalissi che si autorealizzano.  La sicurezza, per quanto la promettano, non è alla nostra portata. Ci danno più armi, e più licenza di usarne, e ci si uccide di più. Ci tolgono i profughi dalle anagrafi, e ne fanno dispersi e disperati nelle città. La destra americana si inventò una straordinaria “Strategia della sicurezza nazionale” e anche della sicurezza del mondo, promettendo di estirpare gli “Stati canaglia” (in inglese “rogue States“, cioè “zizzania”) e ha devastato tutto il Medio Oriente, funestato l’America Latina e messo a rischio i popoli tutti.. Mettono in quarantena quell’unico passeggero transitato per Singapore, allargano le zone rosse, le chiudono al traffico, ma il virus fa la sua corsa, mentre le guerre  mettono in movimento esodi di massa, e la Turchia minaccia l’Europa scatenandole contro i profughi come un’arma. La sicurezza è un mito, è la promessa non mantenuta, la salvezza è invece  il compito nostro e insieme il dono che ci è stato promesso, e proprio lei è alla nostra portata, se a imitazione di Dio l’assumiamo come salvezza di tutti, nessuno escluso, se giochiamo su di essa tutte le nostre risorse.

La quarta conferma è che la vera unità dell’Europa e del mondo, fallita nel Novecento quando se ne era avuta la migliore possibilità, e fu messa invece in mano al denaro, la dobbiamo fare ora; a questo non servono reucci, dittatorelli e altri presunti sovrani e sovranisti; gli antichi dicevano che era il diritto a dover essere re, il “nomos basiléus”, come sappiamo da Pindaro. Ebbene, prendiamolo sul serio, sapendo che il diritto non è più la legge del più forte, l’inflessibile legge del padre, ma è il diritto del debole, è anche il diritto di Antigone e di Carola Rackete,  e deve prendere oggi le forme di un costituzionalismo mondiale, fino all’ “utopia” realistica che abbiamo avanzato, di una Costituzione della Terra, non solo norme ma anche istituti e autorità di garanzia che realizzino ciò che promettono, diritti e beni comuni per l’umanità tutta intera, dalla sanità al sapere, al lavoro, alla pace.

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Lidia Maggi “Benigni e il Cantico dei Cantici”

Come la relazione amorosa tra i due giovani amanti mostra che l'amore può abbattere i muri del patriarcato per dare corpo a relazioni libere, paritetiche. 
Una riflessione della biblista Lidia Maggi sulla scelta di Roberto Benigni di portare il Cantico dei cantici a Sanremo

Roma, 7 febbraio 2020 – A Sanremo, al festival della canzone italiana, Benigni osa presentare la canzone più bella identificandola in quel capolavoro delle Scritture ebraico-cristiane che è il Cantico dei cantici. Ed è notevole che questo testo sia stato declamato all’Ariston, in un teatro e non in una chiesa o in una sinagoga. Un riconoscimento al carattere culturale e non solo religioso della Bibbia, vero proprio codice del nostro occidente, ovvero testo decisivo per leggere anche gli altri capolavori artistici della nostra civiltà.

Interessante anche il fatto che Benigni si sia avvalso di una traduzione letterale, citando vari esegeti. Non si è limitato a recitare il Cantico; lo ha introdotto, mostrando di essersi messo in ascolto della tradizione interpretativa, da Rabbi Achivà fino al recupero attuale del significato letterale, non allegorico del testo.

Il Cantico ci interroga su tutti quei modi di dire la fede che hanno separato il corpo dall’anima, lo spirito dalla materia. E lo fa mettendo al centro i corpi, abitati dal desiderio, chiamati ad amarsi. La relazione amorosa tra i due giovani amanti mostra che l’amore può abbattere i muri del patriarcato per dare corpo a relazioni libere, paritetiche. E’ proprio in una simile relazione amorosa che si sperimenta la sacralità della vita. Mi sembra questa la sintesi del messaggio di Benigni: ascoltare il Cantico più bello significa riscoprire che l’amore può ritornare ad essere una grammatica fondamentale per vivere la vita nella sua pienezza.

L’attore Benigni ha presentato la sua performance come un trailer finalizzato a stimolare la visione del film: un modo originale per invitare a leggere personalmente il testo, per riscoprire quel capolavoro della letteratura custodito nel Libro della vita.

Chi, come noi, da anni, lavora nel tentativo di dare voce al Libro assente, non può che giudicare positivamente l’operazione fatta da Benigni .

La quale non si riduce ad una lettura laica, che si limita a riaffermare la sacralità dell’erotismo. Dietro quel monologo si nasconde anche una provocazione teologica: proprio come nel Cantico, dove il nome di Dio non viene mai menzionato, chi legge è provocato a scorgervi un modo sorprendente di pensare al divino.

Il fatto che il Cantici dei cantici si trovi nella Bibbia non ci richiama soltanto alla necessità di interrogarci sul modo moralistico con cui il mondo religioso ha guardato alle relazioni amorose. Quel testo poetico osa mostrarci immagini inedite di Dio. L’amore di due giovani amanti clandestini, che si amano fuori dai vincoli matrimoniali, diventa anche il luogo dove si rivela lo sguardo di un Dio che ama fuori dai rapporti “canonici” in cui rischiamo di imbrigliarlo.

Dio si nasconde nelle effusioni amorose degli amanti. Si rivela assetato di baci e di abbracci. È un Dio che, a tratti, assume la voce di una ragazza audace e spregiudicata nelle proposte amorose; ma anche quella di un ragazzotto timido e reticente sopraffatto dall’esuberanza della sua amata.

Non possiamo che essere grati a Benigni per il suo prezioso monologo e per l’invito rivolto dal palco dell’Ariston a riprendere in mano la Scrittura e a leggere con gli occhiali della poesia biblica la vita, le relazioni e la fede.

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Messianismo della potenza o messianismo della croce?

 1° marzo 2020, I DOMENICA DI QUARESIMA; Gen 2,7-9; 3,1-7 Sal 50; Rm 5,12-19; Mt 4,1-11

Vittorio Mencucci 24/01/2020, 19:57

Tratto da: Adista Notizie n° 4 del 01/02/2020

Sarebbe un’imperdonabile ingenuità, che tutto impiccolisce e rende meschino, interpretare la tentazione di Gesù sulla falsa riga delle nostre tentazioni, per ricavarne una immediata applicazione moralistica.

La tentazione di Gesù riguarda la prospettiva globale della sua missione. Infatti si colloca all’inizio della vita pubblica, subito dopo il battesimo, che per tutti comporta la scelta dell’orientamento etico da dare alla propria vita.

Gesù non ha questo problema, lui è il senso di tutte le cose, ma deve scegliere che indirizzo dare alla propria missione.

Di fronte a sé ha due proposte: il messianismo della potenza, secondo le secolari attese del popolo, che si rifà alla figura del re Davide, oppure il messianismo della croce, assente nella cultura del tempo, che si rifà alla figura del Servo di Jahvé descritta dal profeta Isaia.

Il re Davide rappresenta il momento più glorioso della storia del popolo ebreo. Ha unificato la Palestina sottomettendo il regno del Nord e con le sue conquiste si è spinto sino all’attuale Siria. Anche dal punto di vista religioso è una figura estremamente significativa: riorganizza la vita religiosa del suo popolo, prepara i materiali per la costruzione del tempio che suo figlio Salomone realizzerà, compone i salmi che saranno la preghiera ufficiale del popolo ebraico e della comunità cristiana.

Per il popolo ebraico il messia avrebbe dovuto riportare la nazione allo splendore dei tempi di Davide, con la spada dell’onnipotenza divina. Questa speranza di rinascita nazionale e religiosa si fa più forte nei periodi di dominazione straniera. Ai tempi di Gesù la Palestina era dominata dall’impero romano e il popolo attendeva un messia liberatore. Gesù reputa questa proposta di messianismo trionfante una tentazione satanica,..

Più tardi, a Pietro che non vuole accettare la prospettiva della croce, subito dopo averlo proclamato “roccia” su cui edificare la Chiesa (Mt 16,18), grida con forza: Va indietro, satana! Tu non pensi secondo i disegni di Dio (Mt 16,23). L’alternativa è netta: o la croce o satana.

Il potere, pur necessario per l’organizzazione politica e sociale di un popolo, nella prospettiva religiosa è deleterio: può organizzare la magnificenza del culto e imporre la sottomissione esteriore, ma non può aprire il cuore alla prospettiva dell’amore, senza la quale non c’è scelta di fede.

Per troppo tempo la Chiesa ha percorso questa strada. Il servo di Jahvé descritto dal profeta Isaia è l’uomo del dolore. La sua sofferenza e la sua morte portano salvezza non solo al popolo ebraico, ma a tutta l’umanità. Questa è la prospettiva del messianismo della croce, che al tempo più nessuno ricordava: questa è la scelta di Gesù.

La croce è l’espressione più alta dell’amore misericordioso di Dio verso l’umanità. Inchiodato sulla croce, reso impotente, condividendo la sorte di tanti uomini schiacciati dal peso della violenza e dell’ingiustizia, lascia a ciascuno di noi la libertà di accettarlo o rifiutarlo: è un riconoscimento di dignità così sublime che ci dà la possibilità di vivere con Lui un rapporto non di sudditanza, ma di dialogo e d’amore.

Tutto il vangelo può essere interpretato come scontro tra il messianismo della potenza, voluto dal popolo e persino dai suoi discepoli, e il messianismo della croce scelto da Gesù. Nel momento della passione tutti lo abbandoneranno.

La Chiesa non può percorrere altra via che annunciare il mistero della croce come espressione dell’amore di Dio, non con i mezzi del potere, ma nel rispetto della libertà dell’uomo.

La via della croce comporta la condivisione della condizione degli ultimi, lo schierarsi dalla loro parte, non perché siano migliori o abbiano ragione, ma perché sono ultimi e perché non è accettabile che rimangano in quella condizione disumana.   

Vittorio Mencucci prete della diocesi di Senigallia, parroco di S. Giovanni Battista di Scapezzano (An), teologo di frontiera. Il suo ultimo libro, di cui è coautore con  Luigi Gianantoni, è Ripensare la fede nella fedeltà a Cristo e al proprio tempo (Il pozzo di Giacobbe ed., in vendita presso Adista

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venerdì 31 gennaio 2020

CHE COSA DOBBIAMO RICORDARE

Raniero La Valle

La settimana attraversata dalla giornata della memoria e dal rinnovato nostro “mai più!”, è stata densa di eventi che appaiono come altrettanti segni dei tempi per dirci che cosa, anche di oggi, dovremo ricordare. Eventi già in anticipo giudicati dalla Parola.

Il primo segno, ma solo in quanto a noi più vicino, è che i potenti sono deposti dai loro troni (“deposuit potentes de sede”, Luca, 1,52).

La sconfitta di Salvini era una sconfitta annunciata, perché non si vince con l’arroganza e non si governa con la spietatezza, e questo era chiaro fin da quando il leghista era al governo, e una nostra “newsletter” già l’aveva registrato il 18 luglio 2018, un anno avanti la caduta, alle prime chiusure dei porti in faccia agli immigrati: “Salvini è già sconfitto. L’Italia non è abbastanza crudele”, avevamo scritto.  

Ma anche i 5 Stelle hanno qualcosa da ricordare, perché loro, nati per spazzare via “la casta”, con l’antipolitica, “né di destra né di sinistra”, sono giunti a rimanere quasi solo una casta in Parlamento, senza più un popolo che li voti.

Ma i potenti possono produrre danni inenarrabili prima di cadere. E questo è l’altro segno dei tempi che ha fatto irruzione nella nostra storia con la decisione di Trump e di Netanyahu di procedere all’annessione ad Israele dei Territori Occupati, comprando i Palestinesi per denaro e chiamando questa tentata corruzione “piano di pace” (come avevano denunciato i profeti: “hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali”, Amos, 2, 6). Così due capi politici precari, mentre il potere sfugge loro di mano, pretendono di fissare per sempre il destino di una città e di una terra dove si gioca l’eterno. Trump e Netanyahu sono accusati di crimini gravissimi: l’americano di intelligenza con il nemico russo (ai tempi del maccartismo più ancora che come un crimine sarebbe stato bollato come un sacrilegio, un patricidio), l’israeliano di corruzione, frode e abuso d’ufficio.

Viene da qui il loro comune interesse a porsi sopra ogni giustizia, a gettare sul tavolo i numeri del loro consenso per restare al potere, facendone pagare il prezzo a un popolo negato, scartato, prima ancora che oppresso. Così si sono organizzati i due incriminati, si sono fatti complici, in una sorta di inedita loro “criminalità organizzata”.

L’altro segno dei tempi è la malattia che viene dalla Cina. Essa dice quanto siamo fragili ed esposti noi che pretendiamo di dominare la terra e gli spazi, e come tutto sia unito, e come il nostro destino si giochi nella carne, non a caso scelta da Dio a sua dimora terrena. E se davvero il contagio viene da un serpente contaminato da un uccello ed è passato all’uomo in un mercato del pesce, ecco un segno potente di questa comunicazione nella carne di tutti i viventi sulla terra, e come sia vero che se una farfalla perde le ali a Tokio o ad Hiroshima, un uragano si scatena in America. E si svela una più globale e stringente verità di una parola che risuonò al Concilio Vaticano II” “Chi sta a Roma sa che gli Indi sono sue membra” (Lumen Gentiun, n. 13, citando san Giovanni Crisostomo).

Sono questi segni dei tempi che ci ammoniscono su che cosa dobbiamo ricordare: che l’umanità è una, che il suo destino è comune, e che tutta la creazione soffre con lei. Il pensiero di essere divisi, dialettici, di stare nel conflitto, ogni Stato con la sua Costituzione che ne proclama la dignità e il dover essere, ma anche con le sue armi pronte allo sterminio, appartiene ormai a una fase infantile della storia dell’umanità.

L’ideologia del “prima noi” (prima gli ariani, prima i tedeschi, prima l’Occidente, prima gli italiani, che poi vuol dire “solo noi”) è la ricetta della distruzione e della fine.

Ci dobbiamo ricordare che c’è un’altra possibilità, c’è il gesto unico, che ciascuno può fare, che salva tutti, che ci è stato rivelato un giorno e che è per sempre: quello dello straniero, del Samaritano, del nemico, che riconosce e prende con sé come suo prossimo il totalmente altro da sé, il Giudeo aggredito e lasciato morente sulla strada di Gerico. In Palestina.

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Gesù, l’ebreo figlio di Dio

ANNO A, 19 gennaio 2020 – Gv 1,29-34

Alessandro Esposito 13/12/2019
Tratto da: Adista Notizie n° 44 del 21/12/2019

Risulta evidente sin dal suo inizio il fatto che il Quarto Vangelo sia sensibilmente intriso di elementi che denotano una profonda conoscenza delle tradizioni culturali e religiose ebraiche. Prova ne è, per l’appunto, l’utilizzo dell’immagine dell’agnello (v. 29) per identificare Gesù quale messia d’Israele. Essa, infatti, racchiude in sé tanto il simbolo della redenzione pasquale (cfr. il testo di Esodo 12,1-28, cui tale tradizione rimonta), sia la concezione dell’unto quale servo sofferente, di cui parla la tradizione riconducibile al «Secondo Isaia» (cfr. Is 52,13 – 53,12).

Chiunque sia il redattore del testo del Quarto Vangelo, costui denota comunque una conoscenza piuttosto dettagliata ed una capacità d’interpretazione assai profonda della tradizione culturale e religiosa del popolo d’Israele. Secondo la tradizione del Deutero-Isaia, il messia promesso ad Israele e (attraverso Israele) alle genti, non è una figura gloriosa: è, al contrario, un uomo sconfitto e umiliato, che paga da innocente il fio di un’ingiustizia subita e messa in atto dai potenti (in senso tanto politico quanto religioso). Il Gesù del Quarto Vangelo, così come quello dei sinottici, possiede proprio queste caratteristiche.

Il nostro versetto aggiunge che questo messia è «colui che porta il peccato del mondo»: espressione tanto pregnante quanto abissale. Il riferimento che appare è al peccato, significativamente al singolare nel nostro brano. In particolare, nel Quarto Vangelo, tale peccato è ravvisabile, più ancora che nel non riconoscere Gesù come messia, nel metterlo a morte: dare la morte all’innocente è, secondo il vangelo giovanneo, il peccato per antonomasia, quello che i potenti commettono nei confronti di coloro che opprimono.

Più avanti, al v. 30, il Battista adempie alla sua funzione di testimone nel conferire a Gesù una precedenza che è addirittura temporale: chi lo segue, in verità lo ha preceduto. In tal modo il Quarto Vangelo intende sottolineare alcuni aspetti della relazione che lega Giovanni il Battista a Gesù. Tale relazione ha, con ogni probabilità, creato un certo imbarazzo in seno alle comunità cristiane primitive: ne recano un chiaro segno i testi della tradizione canonica, nei quali il rapporto tra Gesù e il Battista viene costantemente ridefinito nella direzione di una chiara «precedenza» e «preminenza» del primo rispetto al secondo.

Immediatamente dopo (v. 31) troviamo un riferimento esplicito ad Israele: è al suo popolo, anzitutto, che Gesù viene inviato dal Padre. Questo per sfatare il pregiudizio secondo cui il Quarto Vangelo sia uno scritto anti-ebraico: nulla di più falso. Il vangelo giovanneo è un testo profondamente ebraico che, però, affonda le proprie radici in un ebraismo eterodosso, non allineato rispetto alle direttive tracciate dal giudaismo sacerdotale del tempio.

I versetti da 32 a 34 narrano l’episodio relativo al battesimo di Gesù in maniera del tutto singolare: in tale racconto Gesù sembra non ricevere in alcun modo il battesimo che Giovanni amministrava presso il fiume Giordano; l’unico evento menzionato dal testo è quello che narra la discesa dello Spirito sotto forma di colomba. In sostanza nel Quarto Vangelo Gesù sembra ricevere il battesimo direttamente da Dio; il ruolo svolto da Giovanni è esclusivamente quello del testimone.

Le ultime parole pronunciate dal Battista nel nostro brano rappresentano il culmine di una confessione di fede che, sebbene qui venga effettuata da lui, in realtà è quella richiesta ai membri della comunità giovannea: «Questi è il figlio di Dio» (Gv 1,34). L’articolo determinativo utilizzato dal redattore del testo non lascia adito a dubbi: l’espressione è utilizzata in senso messianico, anche perché in tutto il contesto precedente è questa la prospettiva in cui sembrano muoversi le affermazioni fatte dal Battista.   

                                                                          Alessandro Esposito, pastore valdese

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12 gennaio 2020, BATTESIMO DEL SIGNORE; Mt 3,13-17

Chi è il figlio amato?

Alessandro Esposito 07/12/2019, 01:11

Questa descrizione della scena non la riscontriamo negli altri vangeli. Ci si imbatte nella significativa obiezione che il Battista rivolge al nazareno: «Come mai ti disponi a ricevere dalle mie mani quel battesimo che, al contrario, dovrei essere io a ricevere dalle tue?»…..

Il cristianesimo delle origini ha palesato in maniera sostanzialmente unanime un’evidente difficoltà nell’affrontare la questione relativa al fatto che, con ogni probabilità, Gesù fu inizialmente un discepolo del Battista: risultava oltremodo problematico, difatti, riconoscere che il messia avesse avuto un maestro. Nell’ottica di Gesù, per quanto ci è dato di poter intuire, la questione non comportava alcuno scandalo: molte sono difatti le pagine dei vangeli che rivelano la sua propensione ad assumere l’atteggiamento di chi ha molto da apprendere, anche nell’ambito della fede, attraverso un percorso fatto di incontri, dialoghi, ripensamenti, ampliamenti di vedute e di sensibilità. Gesù cresce con le sue interlocutrici e i suoi interlocutori: il suo modo di percepire Dio si trasforma costantemente e si arricchisce delle sfumature che le relazioni sanno conferire a ogni spirito che si mantenga aperto e in ricerca.

Il dialogo tra Gesù e il Battista è figlio dell’inquietudine che attraversava la comunità seguita da Matteo, in seno alla quale la centralità della figura del messia e maestro doveva essere ribadita.

Appare estremamente significativa la risposta che Gesù fornisce al Battista, nella quale figura uno dei termini ricorrenti e nevralgici del vangelo di Matteo: quella giustizia che rappresenterà, come già era stato per i profeti, il centro del vangelo che annuncia l’avvento del Regno di Dio e del Dio del Regno: Dio e giustizia, intesa come realizzazione e difesa del diritto delle emarginate e dei diseredati, sono realtà che non possono essere scisse l’una dall’altra, poiché è proprio la giustizia a rappresentare Dio – e così spesso offuscato – riflesso del volto di Dio.

Segue la scena finale: lo stesso volto di Dio viene a rifrangersi in quello del maestro di Nazareth, che al diritto calpestato degli ultimi e delle escluse dedicherà la sua vita, prima ancora che l’annuncio.

La scena possiede due connotati: uno visivo, l’altro uditivo. Quel che più conta sono le parole che vengono pronunciate e che noi, comunità in ascolto, apprendiamo pur senza averle potute udire: Gesù di Nazareth è per Dio il figlio amato: Gesù è l’amato per il fatto semplice e concreto di compiere la volontà del Padre che, una volta ancora, è volontà di giustizia.

L’essere figlio, pertanto – come lo stesso Gesù ricorderà più avanti (cfr. Mt 12,50) – non è caratteristica esclusiva del messia, ma è la condizione alla quale può prendere parte ogni donna e ogni uomo che metta in pratica la volontà di Dio……

Alessandro Esposito è pastore valdese

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La scelta di Miriam, la forza di Iosef

Erri De Luca

L’autore di «In nome della madre» riflette sul mistero della maternità e sul messaggio di Maria per le donne di oggi, migranti e lavoratrici

L’Osservatore Romano del 23 Novembre 2019

La maternità è l’origine, la formazione di un corpo dentro un grembo chiuso e poi la sua sorgente all’aria aperta. È il mistero della vita di ognuno che rinnova la nostra specie sulla terra.

Il mistero di Miriam è speciale per le modalità. Già altre volte nella Scrittura sacra un messaggero della divinità aveva annunciato nascite a grembi di donna. A Sara moglie di Abramo, alla madre di Sansone: ma i figli destinati erano di seme paterno.

A Miriam si annuncia un figlio che non è del suo legittimo, Iosef, Giuseppe. È annuncio di gravidanza fuorilegge. Miriam lo sa e accetta subito e ugualmente. Si mette al di fuori della legge, per la quale lei è un’adultera flagrante. La sanzione è la lapidazione, il primo sasso spetta al suo sposo tradito.

Non succede, perché Iosef accetta di sposarla così com’è, incinta non di lui. Conviene immaginarselo giovane e innamorato: nessun Vangelo fa sapere che è anziano, vecchio, come risulta invece da ogni immagine di quella famiglia. Il suo nome, Iosef in ebraico significa: Colui che aggiunge. Lo dimostra coi fatti. Aggiunge la sua fede seconda, lui non ha visto messaggeri, ma crede alla versione dei fatti della ragazza amata. È la più strana spiegazione di una gravidanza, la più inverosimile. Però lui crede lo stesso, non per ingenuità né per credulità, ma per la superiore forza dell’amore. Ha un vantaggio: ascolta la versione di Miriam direttamente da lei che lo guarda dritto negli occhi. La verità è spesso inverosimile, sconvolgente, insopportabile, scandalosa. Il primo uomo che osò dire della terra che girava intorno al sole, fu condannato a morte per blasfemia in Atene. Qui, accanto a Miriam, Iosef supera ogni ostacolo e aderisce alla verità per virtù del suo amore per lei.

Si aggiunge come sposo-secondo della sua ragazza, salvandola dai sassi della legge.

Si aggiunge come padre-secondo facendo un gesto anch’esso scandaloso: iscrive quel figlio a suo nome, quel figlio pubblicamente non suo.

Gesù/Ieshu sta in fondo all’elenco di nomi con cui si apre il Vangelo di Matteo, che inizia con Abramo e passa per Davide, perché ce lo ha messo Iosef, che lo precede, Iosef che è legittimo discendente di quella dinastia. Il ragazzo Iosef, sposo della ragazza Miriam, si aggiunge a questa storia e le permette di portare frutto. Lui e Miriam insieme sono il mistero e la sua soluzione.

* * *

I profeti sono presi alla sprovvista dalla voce divina che irrompe nelle loro vite. Alcuni vacillano. Mosè obietta di essere balbuziente, Isaia di essere impuro di labbra per poter pronunciare il messaggio, Geremia di essere troppo giovane per poter essere ascoltato, Giona addirittura scappa nella direzione opposta. Poi dovranno piegarsi alla volontà che li ha voluti e scelti.

Miriam, ragazza, non ha nessuna esitazione di fronte all’annuncio, lo accoglie subito e il suo spontaneo consenso la fa «piena di grazia», investita cioè dall’energia divina che la rende invulnerabile ai dubbi, alle preoccupazioni per la legge infranta e l’opinione scandalizzata della gente.

Miriam poi viaggia incinta e prossima al parto, e in principio di inverno, lungo piste fangose dalla Galilea del nord alla Giudea del sud, poi partorisce da sola in un riparo di fortuna senza assistenza di levatrici. La sua grazia non è un portamento da sfilate in passerella, ma forza di combattimento. La sua calma determinazione, il suo affido totale alla parola che l’ha messa incinta, è il suo salvacondotto. È lei, quella parola, che protegge Miriam, Iosef e la creatura in grembo nelle avversità e nello sbaraglio.

* * *

Sono stato a bordo di una nave salvataggio di Medici senza frontiere nel Mediterraneo centrale. Ho visto salire a bordo per una scala di corda delle donne con figli in braccio. L’istinto di protezione materno nella nostra specie mammifera è il più potente istinto naturale. Allora: cosa era più forte, superiore a quell’istinto, che faceva salire quelle donne su fragili canotti salpati a mosca cieca in una notte, col rischio alto e atroce di naufragio? Quale forza le spingeva a mettere in pericolo, in azzardo la vita della loro creatura? Ho avuto la risposta da un verso di Virgilio, nell’Eneide. Alla regina di Libia, Didone, che ascolta il suo racconto, Enea dice: «La sola salvezza per i vinti è non sperare in alcuna salvezza».

Sembra un paradosso, è invece la formula che spiega i viaggi delle donne e dei loro figli, e i loro naufragi, nelle notti, nelle nebbie e i loro urti contro l’iceberg del respingimento.

Non sperare in alcuna salvezza: la disperazione è la forza motrice che afferra una madre e la scaraventa al largo con suo figlio in braccio. Sono state queste madri che mi hanno spiegato cosa siano i viaggi che sfiorano gli abissi e bussano ai miracoli. Sono loro, le madri la prua dei canotti e delle imbarcazioni di fortuna che hanno per rotta in cielo l’ultima stella del Carro dell’Orsa Minore, fanalino che indica il nord. Chi dubita della ragione, delle cause di questi viaggi, chieda a una di queste madri e saprà da loro che sono inesorabili. Non sono passeggeri clandestini, sono destini.

Oggi molte ragazze, donne, si trovano a esser madri senza essere in due, che non è il risultato di uno più uno, ma l’alleanza di base della vita, che moltiplica le forze, non le somma. Siamo in un’epoca che va sterilizzando le nascite, siamo il paese più anziano del mondo per età media, dopo il Giappone. Oggi la maternità riguarda la società non più soltanto l’individuo. Le madri vanno aiutate con servizi e agevolazioni, asili nido, incentivi. La maternità non deve comportare aggravi di spesa e perdita di lavoro. Deve tornare a essere una benedizione.

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Mt 24,37-44   Ernesto Balducci: da “Il Vangelo della pace” vol. 3 anno C

Il regno di Dio spesso noi lo sogniamo in tutta la sua compiuta perfezione, ma allora esso stimola quello che gli psicologi chiamano il desiderio infantile dell’onnipotenza. Le fiabe, delizia della nostra infanzia, ci davano appagamento perché esse assicuravano la corrispondenza fra l’avvenimento e il desiderio.

Non possiamo vivere la fede con la logica della favola; non possiamo fare della fede una specie di sollecitazione del desiderio infantile dell’onnipotenza. Il regno di Dio è un germoglio di giustizia, un germoglio che va fatto crescere. Non è l’appagamento del desiderio che ci viene promesso; ci viene promessa l’efficacia della responsabilità. La giustizia non è impossibile, trasformare questo mondo secondo giustizia non è impossibile: è importante tenerlo presente.

Questa è già un’affermazione che urta contro l’opinione di tanti cristiani, che a partire dal concetto che il mondo è nel peccato e che per ciò non si può affatto cambiare, giustificano l’esistente. Usciti dalla suggestione dell’onnipotenza puramente immaginaria come quella delle favole, noi entriamo nell’età adulta della responsabilità.

Io so che devo farmi responsabile della giustizia perché fiorisca in questa terra. Questa scelta non mi porta via dalla traiettoria della promessa di Dio, mi ci mette dentro: questa è una prima certezza di fondo.

Quante volte, mentre manifestiamo la passione per la giustizia o per la pace, ci vengono fatte obiezioni del genere: voi pregate poco, pregate di più! È un modo di utilizzare la preghiera come alibi, come rifugio infantile. Si prega sì, ma con lo zaino sulle spalle; si prega con la spada dell’impegno in mano. La preghiera è nel ritmo della vita, è l’accettazione con tutto il cuore della prospettiva del regno; dobbiamo pregare non fuggendo per la verticale dove poi ci impigliamo nelle nuvole dell’immaginazione facendoci un Dio che ci dia consolazione perché rassomiglia a noi, ma ponendoci dinanzi alla prospettiva dell’impossibile diventato possibile.

L’altro compito è quello indicato dalla Scrittura. «State attenti che i vostri cuori non appesantiscano in dissipazioni». Erano tempi, quelli, in cui la dissipazione poteva essere provocata soltanto dalla sregolatezza dei sensi, del resto non ignota nemmeno ai tempi nostri.

Ma che ne sapevano allora delle dissipazioni a cui siamo sottoposti? Noi che siamo delle coscienze sommerse ogni giorno da oceani di informazioni dissipanti? Noi che ci facciamo l’immagine dl mondo dalla prima facciata del giornale che leggiamo? Noi siamo dissipati, perché le verità vere, quelle decisive, nessuno ce le dice. Siamo – per riprendere un’immagine abusata, forse un po’ retorica – come i famosi viaggiatori del Titanic nel 1912 che danzavano, ballavano, brindavano mentre il transatlantico era vicino all’iceberg dell’urto. Siamo dissipati, ci occupiamo immensamente di frivolezze ed eludiamo i pericoli essenziali. Quello delle armi, ad esempio. Se noi ci stiamo armando, nel tempo stesso in cui facciamo i bilanci per rubare i soldi in tasca ai poveri, siamo dissipati e siamo fuori della verità.

La dissipazione… ci serve per rimanere tranquilli nella falsità, con la bussola dell’opinione sulla stella polare del potere. Dice la Scrittura: «in quel momento vi piomberà addosso all’improvviso – come sono terribilmente vere queste parole nell’era atomica! – come un laccio si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia della terra».

È una possibilità, tutti lo riconoscono, ma è una possibilità che non deve essere pensata e deve esser detta con cautela: su ventiquattro ore di trasmissione appena mezzo minuto, in modo che la verità sia detta, ma non funzioni!

Il nostro compito è di lottare contro la dissipazione, di spezzare tutte le cortine della mala informazione che mirano a tenerci lontano dalla verità che riguarda il futuro della terra che ci è affidata.

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IL FILO – NAPOLI

  • L’Avvento non è tempo di tristezza, ma di gioia. Questo tempo liturgico invita a celebrare l’attesa del Figlio dell’uomo, alimenta la speranza in Colui che Dio manda a salvare l’umanità.

È il “Messia”, il “Cristo” che viene a noi nel Figlio dell’uomo, nel mistero della carne, ossia nel mistero della storia. Viene a noi nel mistero dell’eucaristia: qui i cristiani possono riconoscere il Signore che viene nella loro vita, personalmente e come comunità, il Signore che pianta la sua tenda in mezzo a noi, e che ci educa, di domenica in domenica, ad un atteggiamento di accoglienza.

Inizia un nuovo anno liturgico, carico di una grazia particolare che educa il desiderio dei credenti che devono sapere che non vanno verso la fine, ma verso il principio di una nuova epoca, in cui si andrà realizzando l’umanità nuova.

I seguaci di Gesù (= i fedeli) giungeranno alla piena maturità e salvezza affrontando la persecuzione e l’odio, e dando la vita senza scoraggiarsi né per la malvagità del mondo, né per la defezione degli altri. L’epoca che ha inizio con la distruzione di Gerusalemme vedrà la successiva caduta di altri sistemi oppressori, ma questo significherà il trionfo del Figlio dell’uomo.

Come la prima distruzione fu effetto del rifiuto del Regno di Dio, come è proposto da Gesù e come dovrebbe essere vissuto, da noi e dal mondo intero, così la caduta degli altri sistemi sarà effetto della scelta della via della violenza (27,20s). Ma l’opera dei discepoli di Gesù andrà producendo comunque la maturazione dell’umanità.

 

 

 

 

 

 

 

Associazione “il filo” – Lc 18,1-8

«Lungo il cammino verso Gerusalemme, anche lui [v. trad. letterale] (Gesù) attraversava la Samaria e la Galilea» (v. 11).

È importante ricordare il tema che sta trattando Luca: Gli insegnamenti di Gesù per una piena adesione a Lui (come anticamente Mosè e Giosuè si impegnarono con il popolo per indirizzarlo verso una piena adesione a Dio).

Cambia lo scenario: è la “Samaria” (regione intermedia), terra disgraziata e per niente stimata dai Giudei, a comparire per prima sotto la luce dei riflettori.

È strano che un evangelista, conoscitore dei luoghi di cui parla e in cui vive, citi la Samaria e la Galilea al contrario, invece che seguire l’ordine geografico consueto: Galilea e Samaria. L’azione si svolge in un villaggio al confine tra Galilea e Samaria e Luca ha un intento preciso: vuole porre in primo piano la Samaria; che brillerà di luce propria nel personaggio del samaritano, l’unico a tornare indietro, a glorificare Dio “a gran voce” e a dare piena adesione a Gesù.

È solo l’anticipo di ciò che Luca dirà abbondantemente, a proposito della Samaria, nel prosieguo della sua opera, negli Atti (cfr. At 8,4ss), dove esalterà la Samaria per come accoglierà il Vangelo e l’azione degli Apostoli, rappresentati da Filippo.

Dopo la Samaria nomina “la Galilea” (regione del nord) nel cammino/traversata intrapresa da Gesù verso “Gerusalemme” (capitale della Giudea, regione del Sud, indicata con il nome sacro, in rappresentanza dell’istituzione politica e religiosa dei Giudei.

Gesù intraprende ora l’ultima “traversata” nell’ambito del “viaggio” che lo porterà al cuore della terra promessa; “Gerusalemme”/il Tempio. Gesù vi si dirige per confrontarsi con l’istituzione giudaica e denunciare le deviazioni di ordine teologico e nell’ambito della giustizia sociale .

La traversata, secondo il testo, è iniziata da Gesù solo: «… Gesù attraversava la Samaria e la Galilea». Evidentemente si tratta di un artificio letterario. Luca vuole concentrare l’attenzione sulla persona di Gesù. Una funzione simile a quella delle luci su un palco.

I discepoli che lo accompagnavano durante il viaggio, si sono defilati; dove stanno? Il fatto curioso è che (17,20ss) verranno ricordati a fianco dei farisei; entrambi i gruppi si trovano nello stesso “villaggio” dei “lebbrosi uomini”, perché non c’è cambio di scena.

Sorprende che i “lebbrosi uomini”, figura degli emarginati da parte della teocrazia di Israele, non vivano fuori dal “villaggio”; e da lì “gli vennero incontro” e “si fermarono a distanza” delimitando scrupolosamente la sfera della vita, in cui si muove Gesù, dalla loro vita, piena di impurità e di morte.

In quanto abitanti di quel “villaggio” i discepoli ne condividono la mentalità: in contrapposizione alla “città”, il “villaggio” nel linguaggio figurato degli evangelisti, è la roccaforte dell’ideologia nazionalista e fanatica di Israele.

Forse non aderiscono né all’ortodossia giudaica né a Gesù.

Infine, il termine “villaggio” è preceduto da un aggettivo indefinito (o anche talvolta articolo indeterminativo), tipico modo per conferire rappresentatività ad una realtà o ad un personaggio singolo o collettivo.

La «lebbra» è intimamente relazionata con questo “villaggio” indeterminato nel quale Gesù “entra” e dal quale li invita a uscire (v. 14) e, al ritorno del samaritano (v. 15), a lasciarlo definitivamente (v. 19).

Più avanti Luca ci farà conoscere la diversa condizione dei dieci “lebbrosi uomini” (un altro artificio letterario). Così, dell’unico che torna, puntualizzerà: “Era un samaritano” (v. 16); e più avanti: “Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?” (v. 18). Questo significa che gli altri nove erano “Galilei” (il “villaggio” si trova “tra la Samaria e la Galilea”!).

Questi “lebbrosi uomini”, invece di gridare, come da statuto (Lv 13,45-46), “Impuro ! Impuro!”, gridano “Abbi pietà di noi!”. Riconoscono in Gesù un capo dal potere taumaturgico, mostrando così una certa adesione, ma non è ancora un’adesione vera e piena.

Il grido che rivolgono a Gesù è molto rivelatore: «Gesù, capo (maestro) abbi pietà di noi!» il termine «capo» viene usato solo da Luca per sei volte: 5,5; 8,24.45; 9,33.49 e qui). L’impurità li ha colpiti perché condividono la mentalità che domina nel villaggio, e che ne sono liberati quando lo lasciano.

Dire di un “samaritano” che è un “lebbroso” non stupisce minimamente: per i Giudei, dirlo di un “galileo” significa che, per il suo cattivo comportamento, è rimasto moralmente macchiato e impuro agli occhi degli stretti osservanti. D’altra parte, il gruppo formato dai dieci uomini lebbrosi è un gruppo misto (9 galilei + 1 samaritano), uniti dalla stessa “sorte”, quella di essere “lebbrosi” agli occhi dell’istituzione religiosa… e anche agli occhi di Gesù (Luca da uno sfondo storico e da una reale malattia fisica, dai molti significati, ricava la catechesi che a lui interessa).

Dal momento in cui tutti loro accettano di sottostare alle regole del giogo dell’istituzione giudaica («andate a presentarvi ai sacerdoti», come prescriveva la Legge), non sono più emarginati («e mentre essi andavano, furono purificati», v. 14); dal momento in cui Gesù li mette in grado di farlo, essi si dirigono verso l’istituzione religiosa che sta tanto a cuore per la loro situazione.

I nove “Galilei” continuano il cammino verso Gerusalemme, per “presentarsi ai sacerdoti”; l’istituzione giudaica aprirà loro di nuovo le porte e li riaccoglierà nel popolo di Israele. Gesù li rinfranca perché essi liberamente vadano dove li sospinge il loro cuore, il loro intimo desiderio.

Il “samaritano”, invece “tornò indietro…”: si è tolto di dosso un’emarginazione, quella morale, ma gli rimane quella etnica. Si rende conto che Gesù è l’unico che lo può liberare definitivamente da ogni macchia o impurità legale. Questo samaritano si avvia a dare piena adesione solo a Gesù, ha fede in Lui.

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p. Ernesto Balducci, Lc 17,5-10

Una ragione della debolezza della nostra fede è la smentita dei fatti. Le cose vanno, nella nostra vita, privata e pubblica, in modo diverso da come ci è stato promesso.

Sono venti secoli che parliamo della pace di Cristo, ma la pace non c’è. Sono venti secoli che proclamiamo le beatitudini, ma i poveri non sono beati, i pacifici non sono per niente beati, i perseguitati continuano ad essere perseguitati.

La realtà è opaca, contraddice alle nostre certezze. E la fede appare inutile, non muove nemmeno un sasso, non modifica nulla, non muove le montagne e non sradica i gelsi. È una certezza inutile – dicono alcuni – è consolatoria, che apre spazi accanto alla realtà, spazi in cui uno si rifugia, ignorando la realtà. È su questa linea che, a mia esperienza, si sviluppano e prendono concretezza le obiezioni contro la fede.

Del resto anche a livello della cultura maggiore, quella scritta sui libri, è proprio questa l’obiezione di fondo contro la fede. Il credente sa che non ha da opporre prove che siano dello stesso ordine delle obiezioni…..

Del resto le parole che avete ascoltato del profeta Abacuc si riferiscono al settimo secolo avanti Cristo. «Perché mi fai vedere iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti rapine e violenze e ci sono liti e si muovono contese ». Da allora sono passati ventisette secoli e la scadenza di Dio non è avvenuta.

Innanzi tutto non ogni fede è fede. Noi siamo così abituati a collocare e a diluire la specifica fede cristiana dentro la generica fede delle religioni (o della religione) o anche la semplice fede di ordine morale e psicologico, da dimenticare poi che la fede cristiana ha come suo oggetto proprio l’impegno che Dio ha preso – qui la cosa è ribadita in modo estremamente antropomorfico e realistico. Egli ha fissato una scadenza, anzi, dice al profeta: « Scrivila sulla tavoletta, questa promessa, per non dimenticartene ».

La mia fede non è la fede « in Dio», ma la fede «nel Dio che» mi ha assicurato che questo mondo di violenze, di rapine, di oppressione e di disumanità finirà; e se la fine indugia, devo attenderla perché verrà, non tarderà. Quindi, per una autenticità della mia fede, io devo stare attento a non seguire i semplici moti psicologici della religiosità naturale, come se essi fossero attinenti al Dio di Gesù Cristo, al Dio della promessa. C’è una religione che sfugge, che aliena.

Ma il Dio in cui credo è un Dio che ha stretto un nodo così profondo e inscindibile con la mia preoccupazione dentro la storia, con i miei scandali di fronte ai fatti, che è in questo luogo che io devo credere, cioè a questo livello, non mettendomi fuori dalla oppressione e dimenticandomene negli eremi della contemplazione, nelle più pure oasi spirituali dove si canta « amore» e ci sembra di amare, si canta « pace» e ci sembra di essere in pace.

Si crede in Dio guardando la cronaca dei delitti, anche dei delitti di questi giorni. Si parla di Dio col giornale sotto gli occhi perché è questo il mondo su cui Dio si è impegnato. È su questo mondo che Dio ha firmato la cambiale col profeta Abacuc e con tutti i profeti….

La fede passa attraverso lo scandalo…. Questo scandalo lo viviamo anche oggi, anzi è più complicato. Non possiamo dire che i credenti sono dalla parte della non violenza mentre i cattivi sono i violenti. Non si capisce più nulla. Non sappiamo dove sono le meccaniche della violenza. A volte pare che ne siano coinvolti anche i luoghi sacri.

Non possiamo scansare lo scandalo. Abitare dentro lo scandalo significa abitare nel luogo in cui Dio ci ha dato appuntamento. Fuori non c’è. E aver fede significa allora essere certi che questo scandalo finirà. Non solo essere certi, che è un fatto soggettivo, ma vivere di questa certezza, impegnarsi lungo questa certezza….

La violenza non è solo quella che insanguina le piazze. Oggi lo sappiamo meglio di ieri. È quella che si organizza a volte nascostamente dietro le ombre della legalità. L’impero romano era violenza e il messaggio evangelico era direttamente volto a colpire nel cuore l’ideologia che lo reggeva. Ecco perché era giusto che andassero in prigione e morissero martiri gli annunciatori della non violenza totale, perché parlare di Gesù, principe della pace, condannato e crocifisso dai violenti significava aprire una pagina segreta dinanzi agli occhi degli uomini.

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La “rivoluzione” religiosa di Gesù

– ANNO C, 22 settembre 2019, XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO;

Matteo Am 8,4-7; Sal 112; 1Tm 2,1-8; Lc 16,1-13

Mennini 26/07/2019, 23:44

Tratto da: Adista Notizie n° 29 del 03/08/2019

Quando da bambino ascoltavo questa parabola, coglievo sempre una nota di imbarazzo e disorientamento in chi cercava di spiegarla, poiché si partiva sempre dalla premessa che l’intenzione di Gesù non era quella di lodare la disonestà dell’amministratore. Mi rendo conto di aver ascoltato talmente tante volte questo ritornello, che non ho in realtà mai interiorizzato una lettura positiva di questo brano e che mi è chiaro solo quello che Gesù “non” voleva dire.

Rileggendolo oggi, mi pare che la cosa più significativa sia la sua collocazione nel vangelo di Luca. Viene subito dopo la parabola del padre misericordioso in cui si racconta la storia del figlio che aveva sperperato la sua parte di eredità in un paese lontano e poi aveva deciso di tornare.

I due testi sono profondamente collegati e vanno fatti risuonare l’uno dentro l’altro per poter entrare dentro l’insegnamento di Gesù.

L’amministratore sta al suo padrone, come il figlio prodigo sta a suo padre: uno schema arcaico, che ci parla delle nostre relazioni fondamentali e delle grandi domande che attraversano la nostra vita.

Che senso ha la mia storia?

Sono capace di donare la vita così come l’ho ricevuta?

Che esperienza faccio dell’accoglienza?

Come reagisco davanti ai momenti di crisi?

Carlo Maria Martini ha scritto che la ricchezza, il potere e la sicurezza sono solo espedienti contro l’angoscia: entrambi questi brani raccontano storie in cui la ricchezza divide e allontana (si pensi anche al figlio maggiore che protesta per la festa organizzata per il ritorno del fratello) proprio nel momento in cui il possederla sembrava aver dato le risposte che si stavano cercando.

Nessuno dei due figli sembra aver compreso la lezione del padre misericordioso che aveva voluto “dividere le proprie sostanze”, mentre l’amministratore sembra proprio essere il tassello mancante, che aggiunge qualcosa alla reazione inadeguata dei due figli. È «scaltro» scrive Luca, è uno che ha imparato dall’esperienza: non brucia i suoi averi e ciò che possiede, non cerca un espediente contro l’angoscia derivata dal suo licenziamento, si chiede cosa è in grado di fare e comprende che, paradossalmente, solo la perdita di potere lo salverà.

E, dunque, con-dona, divide, ricontratta i crediti che aveva gestito fino a quel momento, usa furbizia verso i debitori sapendo che, aiutando loro, salverà sé stesso. Si trova davanti a un bivio: cercare di salvare le ricchezze accumulate o salvare sé stesso.

È qui che Gesù, con questo ciclo di parabole, vuole portare i suoi ascoltatori, fra i quali, dice il Vangelo, vi sono molti farisei, attaccati al denaro, che «si facevano beffe di lui»; ed è qui che il cristiano di oggi sa di essere radicalmente interpellato. Mentre insegna che Dio e la ricchezza non possono essere serviti insieme, che si escludono, Gesù sta camminando verso Gerusalemme, si sta dirigendo al cuore dell’istituzione religiosa, si rivolge a coloro che ufficialmente sono incaricati di amministrare il sacro, li chiama disonesti, ma indica loro una via d’uscita possibile per salvarsi: i poveri.

Servirà ascoltare la parabola subito successiva, quella di Lazzaro e il ricco, per comprendere come “gli amici” che l’amministratore si procura con la “ricchezza disonesta” affinché lo accolgano “nelle dimore eterne” sono proprio gli scartati, gli oppressi, coloro che l’istituzione religiosa contribuisce spesso a emarginare e a rendere inadeguati.

La logica di Gesù, allora, capovolge le logiche di una religione intesa ed esibita come applicazione di precetti e norme: la disonestà dell’amministratore è la figura di una religione come riduzione del debito, come accoglienza del povero Lazzaro, come abbraccio del figlio che si era perso.  

Matteo Mennini è docente di Storia del cristianesimo all’Università Roma 3 

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08.09.19 – J.M. CASTILLO per Lc 14,25-33 

  1. Come è logico, l’affermazione posta dai vangeli in bocca a Gesù – secondo la quale dobbiamo “odiare” il padre, la madre, la moglie ed i figli, i fratelli e le sorelle e persino noi stessi – così come risuona, è una barbarie di cui non ci si capacita umanamente.

Il verbo miséo, che significa letteralmente “odiare”, “disprezzare”, “sottovalutare” (H. Giesen, J. B. Bauer, H. Seebass). Ma come si può accettare una simile atrocità?

  1. Se il dilemma è scegliere tra l’”amore” a Dio e l’”odio” Alle persone più amate e anche noi stessi, non resta altra via d’uscita che questa: crediamo in un Dio (Gesù) che, per amarlo, non abbiamo altra soluzione che odiare quello che è più umano, ossia Dio e l’umano sono incompatibili.

Ci si può capacitare di tale conclusione? Non resta altra soluzione che accettare queste due convinzioni:

1) Dio in Gesù si è incarnato nell’umano, cioè si è umanizzato pienamente.

2) Noi siamo umani. Ma portiamo iscritta nella nostra umanità la disumanizzazione.

Per questo le nostre relazioni con gli altri, incluse le relazioni di parentela, molte volte sono così inumane.

Per questo il dilemma posto da Gesù non è il dilemma “amore-odio”, ma la contrapposizione tra l’”umano” e l’”inumano”. Perché sappiamo bene che molte volte negli amori più umani c’è molta inumanità. Questo capita frequentemente nelle relazioni familiari: padri autoritari, madri castranti, fratelli egoisti… Seguire Gesù è superare le manifestazioni dell’inumano.


Domenica 2 settembre 2019: padre J.M. Castillo offre sinteticamente alcune riflessioni che incidono direttamente sulla possibilità di comprensione del vangelo di Luca 14.

  1. L’atto di mangiare in comune – il simposio nelle culture antiche – aveva un’importanza che oggi in buona parte si è persa. Il pranzo condiviso era un avvenimento di integrazione sociale, in maniera che l’aspetto principale non era il sacro ed il profano del banchetto, ma la sua funzione integrante nella società antica, nella quale si combinava l’esperienza della mensa condivisa come atto di integrazione nella società ed anche di partecipazione ad un avvenimento sacro (D. E. Smith).

La categoria sociale di ognuno dei commensali si rispecchiava nell’atteggiamento e nel posto che occupava nel banchetto. Fino al punto che le persone di livello sociale superiore mangiavano sdraiati su divani e gli schiavi e i poveri mangiavano in piedi o a terra (Joan B. Burton). E consideriamo che «la maggioranza della gente che viveva nell’Impero romano era povera» (Robert C. Knapp).

  1. Da questo si capisce l’importanza che nei vangeli hanno i pranzi di Gesù con ogni genere di persone e si capisce anche l’attenzione che vi ha posto Gesù. Per questo Gesù non tollerava le pretese di importanza e di onore che mostravano i farisei nel voler essere sempre i primi. Essi si consideravano i primi nell’«ambito del religioso» e si impegnavano nel sottolineare questo allo stesso modo nell’«ambito del secolare».

  2. Il progetto di Gesù è stato di farla finita con una società diseguale. E per questo ha capito chiaramente che la cosa più efficace era tagliare alla radice con la stratificazione di «eletti» e «plebei» che si è sempre fatta. Da questo deriva l’impegno di Gesù per mettere «gli ultimi» al posto dei «primi». Ed al contrario.

E c’è tanto altro da dire quando si tratta delle categorie sociali di ricchi e poveri. Quello che Gesù vuole è che il nostro atteggiamento sia quello di mettere al posto principale gli ultimi ed i poveri. Se facciamo questo, stiamo facendo un passo decisivo per il raggiungimento di una società egualitaria, nella quale tutti siamo fratelli, umani, buona gente. Il resto sono inganni e frottole.

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Paolo FARINELLA, prete: alcune considerazioni a margine di Lc 14,1.7-14, 1 settembre 2019

Il termine «umiltà», nella Bibbia ebraica, appartiene alla famiglia dei vocaboli della relazione perché deriva dalla radice «‘anâ» che ha il senso di rispondere / testimoniare / parlare / gridare.

Dallo stesso termine deriva la parola «povero» per cui umile e povero nella Bibbia sono sinonimi. Possiamo dire che l’umile è il «povero nello spirito», dichiarato «beato» dal Signore Gesù (cf Mt 5,3); egli è colui cioè che vive per e nella presenza dello Spirito del Signore.

Povero è chi non ha posizioni da difendere, ma sa di dipendere da altri. Il povero/umile tende le mani e la sua vita dipende dall’amore accogliente dell’altro.

Gesù propone se stesso come mite e umile (Mt 11,29; 21,5) e chiede ai suoi discepoli di imitarlo (cf 2Cor 10,1; Gal 5,23; Tt 3,2; 1Pt 3,16) perché essi siano nel mondo le orme stesse del suo passaggio.

La persona umile è vera perché si accetta nella sua pienezza di armonia umana: nei suoi limiti e fragilità, nei suoi pregi e qualità.

Al tempo di Gesù, il banchetto era ciò che per noi oggi è una conferenza o tavola rotonda: l’onore dei primi posti era un tema di discussione ricorrente e ricercato in questo genere di letteratura conviviale.

Gesù offre la sua visione di vita dal punto di vista di Dio: Dio non ripudia nessuno perché tutti vi hanno accesso, per questo bisogna imparare a imitarlo sulla terra invitando coloro che non possono ricambiare, cioè i poveri. Il banchetto eucaristico offre un Pane che è spezzato proprio perché possa essere condiviso con chi pensa di non averne diritto: lui è venuto per i peccatori, non per i giusti (Lc 5,32).

La povertà è una violenza che alcuni individui esercitano su altri individui senza averne diritto, per cui si può dire che la povertà è un’ingiustizia radicale che deve essere abolita. Ciò vale a livello individuale, ma anche a livello di gruppi e di popoli, come anche a livello mondiale. La povertà che attanaglia due terzi dell’umanità è un’umiliazione imposta da un sistema economico peccaminoso che si chiama capitalismo, perché la povertà è un insulto alla dignità della persona umana. L’esistenza dei poveri è il segno che il mondo è dominato dall’idolatria di «mamona iniquitatis» (cf Lc 16, 9.13).

I cristiani che seguono Gesù scelgono la povertà come stile di vita non per amore della miseria, ma come segno sacramentale di come sia possibile vivere senza eccessi, senza sprechi, liberi da bisogni, pure legittimi, per dare spazio di vita a chi non ha nemmeno l’indispensabile per sopravvivere. I poveri «a causa del vangelo» affermano che non può esserci giustizia finché nel mondo vi sarà disuguaglianza. Se tutti sono figli di Dio, tutti hanno diritto di sedere alla stessa mensa, di condividere la stessa fraternità e di partecipare alla stessa paternità.

La povertà, come scelta di vita e metodo di esistenza, deve e può essere scelta solo liberamente, perché esprime la vera immagine di Dio che da ricco si fece povero per arricchire tutti noi (cf Fil 2,5-8; 2Cor 8,9).

Un cristiano «ricco» è una contraddizione in essere: nessuno può essere ricco se vive del proprio lavoro per soddisfare le proprie necessità primarie; se uno è ricco vuol dire che ha accumulato rubando, frodando o esercitando lavori disonesti o utilizzando mezzi ignominiosi. Ogni individuo ha gli stessi bisogni degli altri: una volta sazio, il resto trasborda e tracima oscenamente solo per il gusto di «possesso».

Paradigmatica a questo riguardo è la vicenda del notabile ricco che, messo di fronte alla sua responsabilità di essere causa della povertà degli altri, fugge anche da se stesso: «divenne assai triste perché era molto ricco» (Lc 18,18-23, qui 23; cf anche Mc 10,17-22, spec. v. 22).

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Una sequela impegnativa

Luigi Adami e Paolo Bertezzolo 06/07/2019

Gesù fa un’affermazione paradossale: non sono venuto a portare pace sulla terra ma divisione. Si risentono, in queste parole, quelle pronunciate da Simeone nel giorno della presentazione di Gesù al tempio. Ce le ricorda lo stesso Luca: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele, come segno di contraddizione!».

La storia del cristianesimo è ricca di “prove” di questa affermazione. Chi ha seguito il messaggio di Gesù ispirando ad esso la propria vita, ha suscitato spesso contrasti e opposizioni anche violente. Come Geremia nel primo brano letto, è stato emarginato, perseguitato, anche messo a morte. I martiri, testimoni nonviolenti dell’amore del Padre di Gesù, e di Gesù stesso, costellano l’intera storia del cristianesimo, e fino ad oggi.

Le sofferenze che hanno subìto testimoniano che il messaggio di Cristo non è “rassicurante”, identitario, al servizio di un “ordine costituito”, di una “civiltà”, di una “società”, di una “cultura”. Esattamente il contrario di quello che è avvenuto per lunghissimo tempo, a partire dalla “svolta costantiniana” del IV secolo. Non si tratta di convinzioni “superate”.

In Italia in questi ultimi anni è riapparsa, sul piano politico, una forma ben più modesta di tale “utilizzazione ideologica” e strumentale del cristianesimo nelle posizioni della Lega Nord di Bossi e, in modo ancora più “plateale” e inquietante, nelle parole e nei gesti di Salvini.

La “divisione”, la “spada” di cui parla Gesù, “il fuoco sulla terra” che egli è venuto a gettare, sono l’effetto del suo sconvolgente annuncio del Regno, per il quale lui per primo ha pagato. Si è sottoposto alla croce, disprezzando il disonore, dice la lettera agli Ebrei che prosegue con un “rimprovero” ai suoi seguaci: «Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato».

Non è comodo seguire Gesù. E l’aspetto più drammatico, forse, è che il “sangue” (non sempre in senso letterale, ma certo in modo non meno doloroso) è stato sparso, e ancora purtroppo accade, per responsabilità di chi sostiene di condividere la stessa fede: magari dagli stessi “capi”. Sono i “capi” che chiedono di mettere a morte Geremia «poiché non cerca il benessere del popolo, ma il male». Per la stessa ragione sono i capi, sacerdoti scribi e farisei, che fanno mettere a morte Gesù. Vengono in mente le parole ancora “sanguinanti” con cui David Turoldo ricorda, dopo molti anni, il suo allontanamento da Nomadelfia per disposizione dell’autorità ecclesiastica. Egli afferma di aver vissuto in quella occasione la più grande crisi della sua vita, perché era «proprio la Chiesa a impedirti di vivere il Vangelo».

Eppure il dono messianico per eccellenza, come nota più volte Luca, è invece la pace….

Luigi Adami e Paolo Bertezzolo Adami è parroco di San Zeno di Colognola ai Colli (VR); Bertezzolo è saggista, già insegnante di Storia e Filosofia, dirigente scolastico e deputato nell’XI legislatura. Coautori del libro La fede nuda. Dialogo sul credere e il dubitare, Gabrielli Editori 2019

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J.M. Castillo per Domenica XVIII Tempo Ordinario, 04.08.19

P. Castillo ha la capacità di attualizzare con poche espressioni il significato del tratto del Vangelo che ci è proposto (Lc 12,13-21):

  1. É comunemente accettato che sia stata la cupidigia il fattore scatenante della crisi economica mondiale dalla quale dicono che stiamo uscendo, ma che in realtà continua a produrre il fenomeno criminale della concentrazione del capitale nelle mani dei più ricchi, mentre la gran massa della popolazione mondiale ogni giorno che passa soffre sempre più. La crisi che ha lasciato milioni di lavoratori disoccupati e innumerevoli famiglie senza casa, senza mezzi di sussistenza e sull’orlo della disperazione totale. Mentre i ridotti settori meglio collocati nella scala del potere capitalista hanno aumentato vertiginosamente i loro profitti.

La distanza tra i più ricchi ed i più poveri è diventata molto più grande e scandalosa. Ecco la grande canagliata che si sta mantenendo e fomentando. Inoltre, nelle Facoltà Universitarie di Scienze Economiche questo crimine mondiale si giustifica dicendo agli alunni che i più ricchi sono i più intelligenti. La grande menzogna sulla quale si sostiene il sistema, tra le altre menzogne che rafforzano quest’inganno criminale.

  1. L’argomento di Gesù contro la cupidigia è forte e semplice: la cupidigia per il denaro è irrazionale, spinge a prendere le decisioni più assurde, acceca i cupidi fino al punto che non vedono la cosa più evidente: cioè, che il capitale da loro accumulato non assicura loro nulla e non può garantire loro che vivranno domani o che il successo economico durerà più di ventiquattr’ore. Tenendo conto, inoltre, che per una cosa così incerta ed instabile sono innumerevoli quelli che sono disposti a distruggere la vita di milioni di creature e restano non solo tranquilli, ma anche orgogliosi di se stessi. È l’irrazionalità totale.

  2. E non dovremmo mai dimenticare che cupidi lo siamo tutti. Dalla cupidigia non si sfugge, perché deriva dal “desiderio”. Ed il desiderio è il meccanismo innato che ci accompagna sempre, che ci mobilita, certo, per i buoni, per essere creativi ed efficaci, ma anche per appropriarci della roba altrui, inducendoci a «rubare» (sic) «con buona coscienza» o, almeno, con argomenti che tentano di giustificare le canagliate più sporche che, a volte, facciamo come la cosa più naturale del mondo. E disgraziatamente tutto ciò oggi è all’ordine del giorno.

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Una riflessione che potrebbe invitare al cammino.

RATIONE SERVITUTIS?

Una poesia di Anonima dice:

Io  sono quella che cantano i poeti… io sono parlata ma non parlo, sono scritta ma non scrivo, io sono dipinta, ritratta, scolpita, il pennello e lo scalpello mi sono estranei. Nessuno ascolta le mie grida silenziose….Io sono quella che non ha linguaggio, non ha volto, non  esiste… la donna”.

Si può ancora pensare  al soggetto ecclesiale secondo una linea di distinzione tra maschile e femminile? No, non si può. Un’esclusione delle donne dai ministeri nella Chiesa basata sulla sola differenza di genere non è più concepibile a questo punto della cultura, dell’antropologia e della storia.

Lo è stato per secoli, fino ad ora, fino alla Lettera apostolica di Giovanni Paolo II “sull’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini” che dava la questione per decisa “in modo definitivo” (ma senza alcun crisma di autorità infallibile) con l’argomento che così avrebbe stabilito Cristo stesso “chiamando solo uomini come suoi apostoli”, e  agendo “in un modo del tutto libero e sovrano”, che era come dire senza che umanamente se ne possa rendere ragione, cosa di per sé incompatibile con tutta la pedagogia di Gesù.

In realtà i teologi, per fare stare in piedi la dottrina, hanno cercato di darne ragione, ognuno con la cultura del suo tempo, fino all’argomento novecentesco che  Gesù era maschio, il sacerdote è lui, e così devono esserlo tutti gli altri.

Ma prima di questo, essi  hanno insegnato per secoli – come ci ha ricordato Giovanni Cereti, l’animatore della “Fraternità degli anawim” – che le donne non potevano essere ordinate preti “ratione servitutis”, a causa della condizione di servitù.  Ossia, non erano libere. E tre erano le categorie escluse dal sacerdozio per questo motivo: gli schiavi, gli Indios e le donne. La ragione era che non avevano il “dominium  sui”, la proprietà cioè di sé e delle proprie azioni, in cui, secondo gli scolastici, consisteva la libertà.

Oggi nessuno più dice che gli schiavi non possono diventare preti, perché la schiavitù è felicemente abolita; di preti e vescovi indigeni ce ne sono tanti, anche se le difficoltà rimanevano spesso. Solo per le donne, e solo “perché donne”, la discriminazione è rimasta. Né se ne può uscire con l’espediente del ripristino delle donne diacone, in funzione del prete, o a compensare la mancanza di clero. Il vero problema sono i ministeri nella Chiesa, ivi compreso il sacerdozio alle donne, e non come imitazione del maschio, ma come capacità originaria divinamente fondata. 

E ci sono due buone ragioni citate da Papa Francesco: la prima è che, anche a voler introdurre questa novità nella Chiesa, la sua scelta è di cambiare la Chiesa non per decreto, ma con la Parola; e la Parola nella Chiesa è performativa, cioè opera ciò che dice, se non resta isolata ed è seminata nel fecondo terreno della collegialità.

La seconda è che il papa è un uomo, e le donne devono rassegnarsi ad essere pensate non solo come esse pensano se stesse, ma come sono pensate dagli uomini.  Non, naturalmente, da quelli che le uccidono e vogliono farle da padroni, ma da quelli che le amano, ciò che non è un fatto di sentimento, ma di antropologia. E, almeno finora, nell’immaginario maschile “la donna”, anche quella più vincolata alla terra, “ai nutrimenti terrestri”, ha una sua potenza, un suo fascino ideale, come il divino, che è molto raccontato, ma anche apofatico, che non si può dire.

Come ha detto papa Francesco parlando un giorno della Genesi, Adamo, prima di vedere la donna, “l’ha sognata”, diversa da tutto il resto. Ciò non dovrebbe essere peraltro solo a riguardo della donna, ma di tutti gli esseri umani, perché in tutti gli esseri umani bisognerebbe saper vedere il divino, riconoscere l’arcano che è in loro, capire cosa significa per tutti essere “figlio e figlia di Dio”. Ma forse ciò riesce meglio agli uomini nel pensare le donne, come dicono i miti e le culture che nella donna hanno intravisto il divino, da Venere alla donna biblica destinata a schiacciare la testa del serpente, dalla bella Sulammita del Cantico dei Cantici, il cui amore è “fiamma di Jahvé, alla “Celeste Aida, forma divina” che cantiamo nei nostri teatri.

C’è una potenza delle donne che forse nemmeno il femminismo è riuscito finora del tutto a pensare. Ma certo qui è la storia che si deve dipanare.

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La compassione perduta 

di Enzo Bianchi 

Chi stiamo diventando? 

Per anni ho insistito preoccupato sui piccoli passi quotidiani verso la barbarie: ormai vi siamo immersi, così che sentimenti ed emozioni di cui un tempo ci si vergognava, almeno in pubblico, ora sono esibiti come trofei di guerra. Specularmente, atteggiamenti di solidarietà, condivisione, bontà, compassione vengono sfigurati e irrisi…..

Ora che da oltre mezzo secolo le nostre società e le legislazioni degli Stati hanno bandito questo concetto di «giusta vendetta», ecco che vediamo ogni giorno affermarsi un tacito proclama: «La compassione è morta». 

Sembra morto quel sentimento per cui, raggiunti dalla sofferenza di un altro, ci facciamo carico del suo dolore, fino a sentirlo con lui come nostro: il dolore dell’altro diventa il mio dolore.

Compatire è essenzialmente “soffrire insieme“: qualità umanissima che non è mai stato facile vivere in profondità, ma che oggi viene sbeffeggiata come buonismo …..

Abbiamo paradossalmente difficoltà a diventare prossimi dell’altro: diventiamo con facilità prossimi virtualmente, e moltiplichiamo la nostra prossimità virtuale con contatti “liquidi”, inversamente proporzionali alle relazioni concrete, “solide”.  E così la morte della prossimità è vissuta come negazione o “morte del prossimo”.

Negli ultimi anni, in Italia come in molti paesi dell’Occidente, la situazione è ulteriormente precipitata: ci si vanta della spietatezza verso i più deboli, siano essi i poveri “di casa nostra”, gli immigrati o gli appartenenti a determinate etnie. La solidarietà, lo storico “mutuo soccorso“, il sostenersi tra esseri umani segnati dalla sofferenza, il “patire insieme” si è tramutato – dapprima nel linguaggio e poi nei comportamenti – in una ricerca ossessiva dello “star bene da soli“, senza gli altri, anzi, contro di loro.

Se questo però è tragicamente il quadro prevalente, quello che si impone nei ragionamenti urlati di certa politica come dei mass media, non dobbiamo rassegnarci a trasformare questa deleteria tendenza maggioritaria in un sentimento universale.

È necessario uno sforzo di autentica resistenza non solo per sostenere in prima persona l’etica della compassione, ma anche per saper discernere, riconoscere, dare voce a chi la solidarietà verso i proprio fratelli e sorelle in umanità non ha mai smesso di mostrarla e continua a farlo nel silenzio di tanti o addirittura nel dileggio dei molti.

L’essere umano può sempre aprire le proprie viscere per soffrire e gioire con l’altro, per vivere autenticamente: la compassione muore dove noi la uccidiamo giorno dopo giorno, ma la dignità umana è viva là dove anche una sola persona riconosce il proprio simile nella sofferenza, si china su di lui, lo abbraccia e, così facendo, lo salva.

(Fonte: “La Repubblica” del 10.07.2019)

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d. Paolo FARINELLA

07 07 2019

Il tentativo costante della «gerarchia» di accreditarsi come unica ed esclusiva garante dell’autenticità della missione, facendo così scadere il «popolo di Dio» (concilio Vaticano II, Lumen Gentium, cap. II) a mero esecutore o prolungamento, dove necessario, del ministero ordinato, è un tentativo di poca fede perché frutto di prevaricazione e di abuso di potere. Nella Chiesa l’«autorità-exusìa» è di Cristo, e ogni battezzato la testimonia in forza del proprio Battesimo e della vocazione ricevuta, attraverso il ministero del servizio della gerarchia, il ministero della testimonianza, l’esercizio della profezia e degli altri ministeri che sono sempre, tutti, sussidiari e mai esclusivi.

La Chiesa non è la gerarchia, ma questa è «nella» Chiesa: se si pone sopra di essa, è fuori posto e fonte di disordine giuridico e morale, come hanno dimostrato gli scandali e le corruttele che hanno segnato i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, fino al punto da obbligare quest’ultimo alle dimissioni da Papa (28 Febbraio 2013).

Nei tempi di decadenza, come lo sono tutte le conclusioni di lunghi periodi storici (un secolo, un millennio, un concilio, ecc.): la soluzione più facile per governare una Chiesa che sfugge di mano è quella di affermare il principio di autorità e mettere in sordina l’ecclesiologia del popolo di Dio. La scorciatoia però è un’illusione, perché nessuna autorità è autorevole senza un popolo che la riconosca. Una gerarchia senza popolo è come un pastore senza gregge. Compito della gerarchia nella Chiesa non è comandare, ma mediare tra le diverse forme di ecclesialità, coordinare le differenze, unire i diversi, difendere e garantire le diversità, ragionare sui motivi, far convergere i fini, armonizzare pastorali differenti in contesti non omogenei.

Tutto ciò quasi sempre non accade, perché ogni singolo vescovo – con illuminate eccezioni –, una volta calzata la mitria, agghindatosi di rosso e inanellato l’anello «poderoso», perde la testa e identifica la Chiesa con sé: il suo pensiero è il pensiero della Chiesa, il suo stile pastorale/padronale è lo stile ecclesiale, le sue idee sono le uniche cui tutti devono adattarsi. È avvenuta una trasformazione: colui che fu chiamato per essere servo, si tra-veste da pastore, nascondendo la propria natura di lupo rapace (cf Mt 7,15-20). Un incubo.

Il pastore per definizione deve essere «strabico» perché deve essere fedele alla Parola di Dio, ma anche alla fatica non solo del popolo di Dio nel suo complesso, ma anche a quella di ciascun figlio e figlia di Dio. Né più né meno al pari di Mosè, che ebbe un occhio per Dio e uno per il popolo, in parti esattamente uguali. Mosè non si schierò nemmeno con Dio perché, se lo avesse fatto, avrebbe tradito il suo popolo: per questo rimase «nel mezzo» e alla fine «costrinse Dio» dal suo proposito di distruzione e aiuto il popolo a superare il tradimento (cf Es 32,7-14). Egli, da servo e profeta preferì stare tra l’incudine e il martello, piuttosto che cercare la propria vanagloria e il proprio interesse.

Il compito della madre che consola il figlio, allattandolo al suo seno, di cui parla la 1a lettura, è simbolismo audace: Dio è paragonato a una donna, per di più madre che nutre! Forse qui si supera la categoria del simbolismo e si definisce una nuova identità di Dio, che si deve manifestare in modo particolare attraverso il servizio di coloro che esercitano l’autorità: dovranno consolare, allattare, prendersi cura e non scoraggiare mai. Un’autorità che si circonda solo di «omologhi», di fotocopie, di persone genuflesse senza pensiero, emarginando uomini e donne con pensieri liberi, ma non per questo meno cattolici, è una gerarchia che si crede «padrona» della Chiesa, non una madre che accompagna, ubbidendo alla missione di crescita dei figli.

Il criterio, la chiave di volta del nuovo volto dell’autorità, è suggerito da Paolo nella 2a lettura: è «il vanto della croce», perché compito dell’autorità non è sfoggiare vestiti sgargianti che soddisfano il peccato di vanagloria (cf Mt 6,2.5.16), ma è essere crocifissa sull’altare del servizio fino a dare la vita per ciascuna persona nella prospettiva di Dio (cf Gv 15,13), il quale non sceglie a maggioranze variabili o a interessi incrociati, ma in forza della sua natura di «madre irreversibile» (cf Is 29,15), inchiodata per scelta e per amore alla croce gioiosa dell’amore a ogni costo, del perdono sempre, della disponibilità senza condizioni2. Nel vangelo Gesù non propo-ne una migliore organizzazione né ordina di creare strutture raffinate di marketing di fronte a una messe sterminata e anche rigogliosa, non organizza una campagna pubblicitaria per abbindolare e corrompere, per manipolare e catturare. Gesù impone la preghiera (cf Lc 10,2) e mette in atto due cose semplici, insieme all’affermazione di un principio.

La prima cosa semplice è che Dio sceglie in vista della missione (cf Lc 10,1); nessuno è scelto o chiamato per se stesso, ma sempre per andare verso qualcun altro: in campo etico-sociale si chiama «Bene comune», che dovrebbe essere il cuore e la stella polare della «Dottrina sociale della Chiesa»3. Qui è la chiave per combattere il clericalismo che è flagello della Chiesa, quando smarrisce la propria natura missionaria: il clericalismo, infatti, è l’uso della Chiesa, dei sacramenti e della religione al fine di mantenere un potere temporale nelle mani di una casta ecclesiastica che scende a qualsiasi compromesso, anche corruttivo, con il potere politico (spesso attraverso qualche politico compiacente) per imporre alla società civile la propria visione di mondo e di Chiesa.

Un clero che nutre se stesso, ponendosi al centro dell’ecclesialità e rinnegando la maternità di Dio, impedisce al popolo di camminare verso Dio e si impone come «il» fine della vita ecclesiale: «Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito» (Lc 11,52).

La seconda cosa semplice è che Gesù, come abbiamo sopra accennato, impone (il testo usa l’imperativo aoristo del verbo «dèomai – io chiedo/supplico») la preghiera: «Pregate il Signore della messe» (Lc 10,2), quasi a mettere in evidenza che il risultato della missione non è di competenza dell’inviato che deve limitarsi ad andare, annunciare e tornare. Non esercita un potere, porta un messaggio. I calcoli e le conclusioni li tirerà un altro (cf 1Cor 3,5-9). La religione delle statistiche e delle percentuali, dei numeri e della massa «è servita»: non serve a nulla, se non per la propria vanagloria.

Pregare vuol dire illimpidire sempre la propria coscienza per aver finalmente chiaro che la Chiesa, la missione, il vangelo, i sacramenti non sono proprietà di qualcuno, ma sono opera di Dio da custodire e utilizzare secondo il cuore di Dio e non secondo i propri capricci e la propria grettezza.

Il missionario non ha un modello di Chiesa da esportare, non possiede un prototipo da piazzare, deve solo «pregare», cioè perdere tempo in modo strabico per coloro che ama: Dio e il popolo. Pregando deve andare a portare la pace, la guarigione, la consolazione di Dio.

Il cristiano missionario non è un ingenuo perché sa di essere un agnello in mezzo a lupi: per questo cammina vigile nel mondo, con lo spirito di discernimento, per non lasciarsi intrappolare nelle reti dei potenti che vorranno catturarlo per farne un loro complice in forza delle parole di Paolo: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1Ts 5,21). Il mondo esige una religione genuflessa o funzionale al mantenimento dell’ordine, perché i lupi per depredare il gregge hanno bisogno di non essere disturbati e una Chiesa profetica è nemica, mentre il clericalismo, che si annida nella Chiesa istituzionale, è un potente alleato, il cane da guardia che addormenta le coscienze e apre le porte dell’ovile ai lupi rapaci con cui dividere le prede4.

Il Vangelo è antitetico al potere, qualsiasi potere. Il cristiano non è un ingenuo, perché egli sa di essere perdente sul piano del mondo, e proprio per questo è totalmente libero dallo spirito del mondo (cf Gv 17,9.11.15-16) e dall’ossessione del potere (Mc 10,40-45). Per questo egli si sente servo della Parola e non ha mai paura di parlare. Estraneo al mondo, è invincibile nell’amore a perdere, testimone visibile del Padre che è Madre.

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SOLENNITÀ DI PENTECOSTE – SAN TORPETE, GE

EUCARISTIA DEL GIORNO – ANNO C – 09-06-2019

A-B-C (1a lett. e salmo): At 2,1-11; Sal 104/103,1ab.24ac.29bc.30.31.34; Rm 8,8-17; Gv 14,15-16.23b-26

Oggi non celebriamo solo un evento passato, ma mentre facciamo «memoriale» di due momenti storici, l’esodo e la morte di Gesù, li riviviamo sperimentandoli perché lo Spirito Santo è presente «oggi» nella Chiesa e nel mondo e alimenta la fede, sostiene la speranza, forgia la libertà. Pentecoste è oggi.

Pentecoste è nome greco pentēkostês/pentêkonta e significa «cinquantina», cioè cinquanta giorni dopo la Pasqua. Nella liturgia cristiana è la seconda solennità più importante dell’anno, dopo la Pasqua, di cui chiude il ciclo: i cinquanta giorni, infatti, si contano a partire da Pasqua. Come il numero «40» nella Bibbia è il numero dell’attesa e della preparazione1, la «cinquantina» che intercorre tra Pasqua e Pentecoste è il tempo della formazione, il tempo cioè in cui Gesù risorto familiarizza con i suoi discepoli nel suo nuovo stato: essi non possono più vederlo fisicamente, ma ne sperimentano la presenza e Gesù li istruisce sulla missione che li aspetta nella trama della storia.

1 Sul simbolismo del numero «40» vedi l’introduzione alla liturgia del «Mercoledì delle ceneri A-B-C».

2 Le altre due sono: Pesàh–la Pasqua e Sukkôt–Le Capanne (durante questa festa Gesù entrò in Gerusalemme a dor-so di un asino tra rami di palme e ulivi [Lc 19,28-40 e parr.]; a questa stessa festa i Sinottici collegano anche la trasfigura-zione sul Tàbor [cf Lc 9, 28b-36 e parr.]).

3 Gli autori della Bibbia greca, la LXX, tradussero correttamente il senso ebraico della festa, come si è attestato nel dopo esilio e come si è tramandato fino ai nostri giorni: «Pentēkostês – cinquanta giorni» (dopo Pasqua).

Nota esegetico-liturgica. La Pentecòste cristiana è la ripresa e la trasposizione adattata della festa ebraica di «Shavuôt» ossia la festa delle «settimane», di origine biblica e nata in epoca seminomade come festa agricola. Nel post esilio, durante la riforma di Giosia del 621, fu associata all’evento del Sìnai, cioè alla festa fondativa della nascita di Israèle come popolo, attraverso il «dono della Toràh» (ebr.: Yom mattàn Toràh). È una delle tre feste bibliche di pellegrinaggio annuale a Gerusalemme che tutti gli ebrei, dall’età di 13 anni, devono compiere per adempiere la Toràh2. «Shavuôt» è una festa di origine biblica e ha diversi nomi, secondo il punto di vista che si vuole sottolineare:

1. Se si considera la distanza cronologica dalla Pasqua, si chiama «Shavuôt – (Festa) delle settimane», perché la Bibbia (cf Es 34,22; Lv 23,15-16; Dt 16,9-10) ne prescrive la celebrazione dopo che siano trascorse «sette settimane», contando a partire dalla sera del giorno di Pasqua/Pesàch (= 7×7 settimane, cioè 50 giorni).

2. Se si considera «Festa della mietitura il tempo stagionale in cui si celebra, si chiama – Hag ha-Katsìr Festa delle messi; cf Es 23,16). Ancora al tempo di Gesù, in questo giorno si portava al tempio l’offerta della primizia dell’orzo.

3. Se si considera il contenuto esplicitato nell’atto cultuale dell’offerta delle primizie, si chiama «Yom ha-Bikkurīm (Giorno [dell’offerta] delle primizie»; cf Nm 28,26)3.

4. Il Talmud la chiama anche Atsèret che significa Assemblea solenne (cf Lv 23,36; Nm 29,35; Dt 16,8). Dopo l’esilio però prese il significato di «conclusione della festa», perché Shavuôt fu considerata la festa conclusiva della Pasqua.

All’inizio del cristianesimo, nella Palestina del sec. I, i cristiani celebravano la Pasqua della morte e risurrezione del Signore Gesù all’interno della Pasqua ebraica, ma essi ritenevano che la Toràh fosse compiuta e attualizzata nell’insegnamento e nella persona del Messia, per cui celebravano la «nuova Pentecoste» come dono dello Spirito del Messia Gesù, effuso come avevano predetto i profeti. La separazione, anche fisica, tra Giudaìsmo e Cristianesimo nascente, sia prima sia specialmente dopo il 70 d.C. e definitivamente dopo l’editto dell’imperatore Adriano (76–138 d.C.) che nel 135 espulse tutti gli Ebrei da Gerusalemme e dalla Palestina, fecero il resto. Nel secolo IV si cominciarono a distinguere le feste della Resurrezione, della Ascensione e di Pentecoste, facendone celebrazioni separate. Alla Pentecoste si diede la stessa importanza della Pasqua tanto che in questo giorno si amministrava anche il battesimo. Si inserì pure la veglia notturna simile per solennità a quella pasquale di cui seguiva lo schema: in alcune chiese si aggiungeva anche la benedizione e l’esposizione del cero con il canto dell’Exultet. Di questa tradizione oggi resta la Messa della Vigilia con una ricchezza di letture e testi, che purtroppo nessuno più celebra. Lentamente, come per la Pasqua, si sviluppò anche l’Ottava di Pentecoste che divenne stabile già nel sec. V con Leone Magno (?–461). Durante i secoli X e XI, durante la festa di Pentecoste erano consacrati i Re di Francia. Tra la fine del secolo XI e l’inizio del secolo XII rinasce una particolare devozione allo Spirito Santo.

Nella festa liturgica di «Pentecòste», tutto si svolge nel segno del «Paràclito», il personaggio nuovo del «dopo Pasqua», di cui accenneremo nell’omelia. Gesù risorto è libero dal condizionamento del tempo, dello spazio e della vista e ora vive e agisce attraverso il suo Spirito che lascia agli apostoli come sua eredità, guida e compimento. Il «Paràclito» è lo Spirito di Gesù risorto, quello che egli «consegnò» simbolicamente a tutta l’umanità al momento della morte, quando «reclinato il capo, consegnò lo Spirito» alla Madre (una donna) e al discepolo che egli amava (un uomo), che stanno ai piedi della croce in rappresentanza della nuova umanità. Un uomo e una donna (Àdam ed Eva) stavano nel giardino di Èden per rubare la «conoscenza del bene e del male» Gen 2,9; 3,6-7), ai piedi della croce, un uomo e una donna, il discepolo e la Madre, invece «ricevono lo Spirito» (Gv 19,30).

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Teologia della liberazione

di Gianfranco Ravasi

da “Il Sole 24 Ore” del 19 maggio 2019

Cinquant’anni fa, nel 1969, a Montevideo veniva pubblicato un volume intitolato Hacia una teología de la liberación (Verso una teologia della liberazione). Autore era un ancor giovane teologo, Gustavo Gutierrez, nato nel 1928 a Lima, con studi di medicina nella sua città natale, di filosofia e psicologia a Lovanio e studi di teologia a Lione. In quel titolo risuonava il sintagma «teologia della liberazione» che sarebbe diventato un vessillo sventolato in tutta l’America Latina e una sorta di incubo invece in certi ambiti ecclesiali, a partire dalla Curia romana. Due anni dopo, nel 1971, a Lima appariva un suo testo programmatico dal titolo lapidario Teologia della liberazione (tradotto in italiano l’anno successivo dalla Queriniana di Brescia), scandito da una prospettiva dirompente rispetto alla riflessione dominante di allora. Diverso, infatti, era il contesto, diversi gli interlocutori, diverso il metodo, diverso l’impianto tematico.

Per il mondo occidentale di matrice europea la sfida che apriva sfide brucianti era la secolarizzazione, la non credenza. Per l’orizzonte latino-americano era la non-umanità, ossia il povero, l’oppresso, lo sfruttato. Il quadro religioso non era messo in crisi da un assalto intellettuale e teorico, bensì da una società disumana che infrangeva il canone cristiano della dignità personale e della carità. Si comprende, così, la ormai celebre e fin abusata formula coniata nella conferenza dell’episcopato latino-americano tenutasi in Messico a Puebla nel 1979, dieci anni dopo il primo saggio di Gutierrez: «l’opzione preferenziale per i poveri».

La teologia della liberazione riceveva, così, un avallo ecclesiale che, però, non avrebbe compresso la sua vitalità fremente che spinse alcuni esponenti a ricorrere a strumenti esterni, come lanalisi marxista della storia, oppure la teoria socio-politica della dipendenza strutturale dei paesi latinoamericani dall’imperialismo statunitense, o anche le pulsioni rivoluzionarie che si agitavano nel continente. L’asse si spostava, così, sempre più su istanze sociali configurando una sorta di escatologia terrena, creando reazioni da parte delle istituzioni centrali della S. Sede.

Si ebbe, allora, una prima Istruzione su alcuni aspetti della teologia della liberazione, emessa nel 1984 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede che marcava le cadute ideologiche di certe impostazioni militanti del movimento. In realtà e Gutierrez ne è un esempio erano molti anche gli aspetti positivi, a partire proprio dal concetto di libertà che non può essere considerato solo in astratto, ma nel suo esercizio concreto all’interno dei processi storici e socio-culturali, trasformandosi così in «liberazione».

È supponendo tale linea che si muoveva la seconda Istruzione su libertà cristiana e liberazione proposta nel 1986 dalla Congregazione vaticana. In questa luce la teologia non poteva essere neutra, ma nel contesto specifico doveva attualizzarsi con una solidarietà effettiva, schierandosi dalla parte degli oppressi e dei poveri. Non si deve ignorare che gli eventi fondanti della fede biblica, come l’esodo di Israele dalla schiavitù dellEgitto e lo stesso annuncio e l’opera di Cristo, si muovono lungo questa traiettoria.

La concezione di Gutierrez si colloca in una simile prospettiva. La Chiesa si deve inserire come seme e lievito nei processi di liberazione integrale della persona e dei popoli, offrendo il suo contributo efficace perché il regno di Dio, eretto sulla verità e sulla giustizia, inizi già ora ad essere edificato come prima tappa della pienezza escatologica. La teologia ha la funzione di elaborare una riflessione critica del comportamento ecclesiale, ribadendo alcuni capisaldi:

  • la dignità della persona,

  • la nozione del Dio biblico presente e attivo nella storia,

  • la dimensione comunitaria e non intimistica della fede cristiana,

  • la Parola di Dio non come astratto contenitore di verità, ma come dinamica promozione di carità e giustizia, così da creare l’«uomo nuovo» più libero e nella pienezza della sua persona.

La figura del teologo peruviano è stata un punto di riferimento per molti, anche per il rigore e il calore del suo pensiero che è stato capace di evitare certe derive socio-politiche, senza però edulcorare l’incidenza concreta della sua visione. Essa si basa, infatti, su una liberazione “integrale” perché compatta e unitaria è la persona umana e, quindi, la teologia esige di essere sempre incarnata e contestualizzata. Si è allargato, così, nelle sue opere successive, l’orizzonte, coinvolgendo temi come:

le minoranze, la vita, la dimensione mistica, la sessualità, listruzione e la cultura.

Anche se ora meno rilevante, proprio a causa di un differente contesto socio-culturale e politico, la riflessione di Gutierrez rimane uno snodo ancor vivo nella teologia e nella pastorale, come è attestato dal magistero di papa Francesco.

Non bisogna, però, dimenticare che, proprio sullAmerica Latina si sta allargando il manto di una concezione religiosa (considerarla «teologia» è eccessivo) antitetica. È la cosiddetta «teologia della prosperità» di matrice neoliberista e conservatrice. Essa parte da un asserto anticotestamentario, per altro criticato da Gesù stesso (si legga Giovanni 9,1-3), secondo il quale al delitto corrisponde un castigo, a una sofferenza una colpa, a una ricchezza la benedizione divina che avalla l’operato del beneficiato.

Si individua, allora, nella salute, nel benessere, nel successo economico-sociale, nella «prosperità» appunto, la benedizione o lapprovazione di Dio. Povertà, malattia, miseria, infelicità segnalerebbero invece il giudizio e la maledizione divina.

Questa giustificazione meccanica del bene e del male, che è agli antipodi della lettura «liberazionista», ha attualmente un grande successo in molti gruppi religiosi sudamericani, soprattutto di natura pentecostale-carismatica o in nuove «Chiese» evangelicali che hanno un forte impatto sulla popolazione marginale come forza illusoria, e sulla stessa vita politica: è, ad esempio, in Brasile il caso di molti sostenitori di Bolsonaro e del sindaco di Rio de Janeiro, capo di una nuova «Chiesa».

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I “mangiabambini”: la riflessione sull’accoglienza di Alberto Maggi

di Alberto Maggi  22.05.2019

“Basta dare uno sguardo alla storia dell’umanità, anche recente, per vedere come la solidarietà, la generosità siano valori che fioriscono nei momenti di grande difficoltà, sociale ed economica, per poi appassire e svanire in quelli di sovrabbondanza…”: su ilLibraio.it l’intervento del biblista Alberto Maggi, che ci riporta a quanto avvenuto nell’Italia del dopoguerra, ricordando la vicenda dei cosiddetti “treni della felicità”, e si inserisce nell’odierno dibattito sull’accoglienza

Vogliamo rendervi nota, fratelli, la grazia di Dio concessa alle Chiese della Macedonia, perché, nella grande prova della tribolazione, la loro gioia sovrabbondante e la loro estrema povertà hanno sovrabbondato nella ricchezza della loro generosità. Posso testimoniare, infatti, che hanno dato secondo i loro mezzi e anche di là dai loro mezzi, spontaneamente, domandandoci con molta insistenza la grazia di prendere parte a questo servizio a vantaggio dei santi” (2 Cor 8,1-4)”. Queste parole le scrive Paolo per ringraziare le comunità cristiane della Macedonia per la loro grande generosità – pur nella loro indigenza – nella colletta per la chiesa di Gerusalemme che si trovava in cattive acque (Rm 15,26-28). Chi si aspetta generosità dai ricchi resta deluso, se sono ricchi è perché non sono generosi. Per questo i ricchi sono esclusi dalla comunità di Gesù (“È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”, Mc 10,25). Nella comunità di Gesù c’è posto solo per i signori ma non per i ricchi. Mentre il ricco è colui che ha e trattiene per sé, il Signore è colui che dona e condivide quel che ha.

Basta dare uno sguardo alla storia dell’umanità, anche recente, per vedere come la solidarietà, l’accoglienza, la generosità siano valori che fioriscono nei momenti di grande difficoltà, sociale ed economica, per poi appassire e svanire in quelli di sovrabbondanza, come se il benessere portasse in sé i germi dell’egoismo che chiude all’altro. A riprova di questo c’è un tema di grande attualità, quello dell’ostilità e del rifiuto all’accoglienza del migrante, del profugo, del bisognoso. Oggi anche tra i cristiani l’accoglienza di chi necessita aiuto trova sempre più difficoltà a essere praticata per via delle tossine che egoismi e interessi socio-politici hanno inoculato, riuscendo a infettare anche la vita del credente, dimentico di essere seguace di colui che ha detto di se stesso “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35.43).

Ma non è sempre stato così.

C’è un episodio, purtroppo quasi sconosciuto, della storia italiana, che rende orgogliosi della generosità della quale sono stati capaci gli italiani, soprattutto le donne. Subito dopo la fine della guerra, l’Italia era in condizioni pietose, le città erano devastate dai bombardamenti, sia dei “nemici”, ma forse ancora più, di quelli degli “alleati”, macerie ovunque, strade interrotte, linee ferroviarie inesistenti o precarie (da Roma a Milano il treno impiegava ben trentotto ore), scarsità di cibo, di indumenti, di medicinali. Mancava tutto, ma non la generosità.

E sono state le donne, categoria umana che ha sempre una marcia in più, a organizzare un’incredibile catena di solidarietà verso i bambini del sud Italia che, arretrato e povero prima della guerra, ora si trovava in condizioni disperate di fame, ai limiti della sopravvivenza. Molti di questi bambini erano figli di braccianti che lavoravano, quando potevano, a giornata, e mangiavano una sola volta al giorno. Molti di essi non avevano mai visto l’acqua corrente in casa, le lenzuola o le coperte nel letto, la carne da mangiare. Queste donne, comuniste dell’Unione Donne Italiane, con incredibile capacità organizzativa si dichiararono disposte ad accogliere nelle loro famiglie, che certamente non erano benestanti, ma modeste o povere, i bambini del sud, malnutriti, malvestiti, traumatizzati dagli orrori della guerra, per un certo periodo di tempo, dal 1945 al 1952. Organizzarono il trasporto in treni, chiamati dall’allora sindaco di Modena i “Treni della felicità”, e per anni più di settantamila bambini dal sud salirono per la prima volta su un treno verso il misterioso nord, nell’ “Alta Italia”. Qui, nelle campagne delle Marche, della Toscana e soprattutto dell’Emilia Romagna, le famiglie comuniste in una gara di generosità accolsero questi bambini spauriti e smarriti non come ospiti, ma come un figlio in più, perché da sempre la saggezza contadina e popolare ha creduto che dove mangia uno possono mangiare anche in due. Quando si ha poco è facile condividere, ma la generosità diventa difficile quando si ha tanto o troppo. Fu l’incontro tra due mondi, modi diversi e spesso incomprensibili di parlare, in quanto sia i bambini che le famiglie ospitanti parlavano solo il dialetto, di vivere, di mangiare. Inoltre questi bambini erano stati terrorizzati dai loro parroci che avevano cercato di dissuaderli dal partire, dicendo che i comunisti affamati li avrebbero mangiati, o trasformati in sapone. Le povere creature ci credevano, e avevano paura di stringere la mano di chi li accoglieva perché il prete aveva detto loro che i comunisti cominciavano mangiando prima un dito, poi l’altro, poi tutta la mano. Altri, che non avevano mai visto una vasca da bagno, non ne volevano sapere di entrarci per paura di finire bolliti e trasformati in sapone, e altri ancora si nascondevano quando vedevano in casa accendere il forno per paura di finire arrostiti. Alcuni la notte restavano svegli per paura di essere squartati vivi durante il sonno e divorati dalla famiglia che li aveva accolti. Poi, dopo un certo periodo, la diffidenza svanì e si accorsero che i comunisti non mangiavano i bambini, ma mangiavano con loro, condividendo il poco o il molto che avevano. E nel giro di pochi mesi, ma a volte l’accoglienza si protrasse per anni, questi bambini, curati, vaccinati, nutriti, rifiorirono, e quando tornarono a casa erano quasi irriconoscibili per quanto stavano bene, ben vestiti, e soprattutto con nel cuore un’esperienza che segnerà positivamente tutta la loro esistenza. Per gli italiani del centro-nord, il frutto dell’accoglienza dei bambini del sud fu quello di scoprire che in realtà non esiste un Nord e un Sud, rivali o pieni di pregiudizi gli uni verso gli altri, ma una sola Italia, unita dalla generosità. Questa pagina di storia rende onore all’Italia e al valore dell’accoglienza e stimola a essere ancora capaci di fare cose buone.

Ci si può chiedere perché, se questo miracolo di solidarietà, di generosità e altruismo è stato possibile nella disastrata Italia del dopoguerra, non si possa ripetere oggi in una società opulenta che getta nell’immondizia quintali di generi alimentari. Quel che è stato possibile per i bambini del sud, non si può fare oggi, almeno per i figli dei migranti, ospiti dei centri di accoglienza?

Per saperne di più rimando al bellissimo libro I treni della felicità(Ediesse) dello scrittore Giovanni Rinaldi, e al film-documentario del regista Alessandro Piva Pasta Nera.

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da Gv 10,27-30, p. José María CASTILLO

  1. I popoli e i villaggi di Galilea erano formati da gente contadina e di condizione sociale molto umile. Erano gente che vivevano della campagna e erano pastori del loro ridotto bestiame di pecore e capre. In quella società agricola, nella quale nacque e fu educato Gesù, l’immagine del pastore ed il pascolo delle pecore era familiare. Gesù, continuando la tradizione dei profeti (Ez 34), utilizza quest’immagine per spiegare la relazione tra i capi ed i discepoli nella comunità cristiana.

L’esperienza già allora insegnava che questo problema era delicato e si prestava ad abusi molto gravi. Ezechiele si era lamentato: «Guai ai pastori d’Israele che pascono se stessi!» (Ez 34,2b). Per questo Dio stesso li minaccia: «Eccomi contro i pastori: a loro chiederò conto del mio gregge» (Ez 34,10). È lo scandalo dei pastori che si comportano come padroni del gregge e lo dominano secondo le loro idee, i loro interessi e le loro preferenze.

  1. Di conseguenza Gesù spiega il modello di relazione tra il pastore, che è veramente buono, e la comunità che guida. Questa relazione è definita con tre verbi: «ascoltare», «conoscere» e «seguire». Prima di tutto, i discepoli «ascoltano» il pastore e, nel pastore, Gesù. Ma sapendo che «ascoltare» equivale ad interessarsi a quello che dice ed obbedendo a quello che ascoltano (Gv 10.3.16.27), cosa che contrasta con l’atteggiamento di quelli che «rifiutano» (Gv 8, 40-47) quanto dice il pastore (G. Schneider).

  2. Poi, il pastore «conosce» le pecore. Ciò indica una relazione di reciproca comprensione (R. Bultmann) ed accettazione. Infine, la sequela, che definisce la maniera di vivere del discepolo che si fida di Gesù, lascia tutto per lui ed identifica la sua vita con quella del pastore, così come il pastore identifica la sua con quella di coloro di cui è pastore (M. Hengel). La cosa più importante di tutte è la «sequela». Le pecore si fidano del pastore, vanno dove lui va. Si sentono sicure con il loro pastore.

Tutto ciò presuppone la modifica radicale della relazione tra chi governa e chi è governato. Non si tratta più di una «relazione di potere», alla quale corrisponde una «relazione di sottomissione». Questo è stato «il principio della decomposizione» della Chiesa, perché l’ha deformata. In una istituzione di tal genere non può essere presente Gesù. Al contrario, Gesù si fa presente dove si offre un modello alternativo nella relazione tra capi e comunità. Quando tutti questi si fondono nell’unità, allora la Chiesa offre la possibilità di un mondo che ci possa sedurre, il mondo di cui abbiamo bisogno.


RANIERO LA VALLE – mercoledì 17 aprile 2019

VEGLIARE E ASSUMERE LA SOFFERENZA DELL’ALTRO

La popolazione di Parigi ha vegliato la lunga agonia della cattedrale di Notre Dame che precipitava nella morte, è stata la vera veglia di Pasqua. Così dovremmo tutti vegliare Parigi, l’Europa, il mondo, perché non entrino in agonia, perché non siano provati col fuoco a causa delle nostre distrazioni, a causa delle nostre politiche assassine, a causa degli effetti collaterali dell’odio che abbiamo seminato a piene mani sulla terra.

Ciò ci riporta alla nostra assemblea di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” che il 6 aprile scorso a Roma ha cercato di ascoltare il grido dei popoli impauriti del futuro.  Non è possibile trarre già ora delle conclusioni da tale assemblea. “Conclusioni” si potrebbero trarre, come è stato detto alla fine dei lavori, se fossimo in grado di dare una risposta alla vita devastata di Stella, la ragazza nigeriana la cui tragedia è piombata tra di noi nel racconto dei “casi concreti” di cui i giudici ci hanno parlato:  violentata, mutilata, come è stata, tacitata fin dai suoi tredici anni, triturata negli ingranaggi del sistema che noi stessi abbiamo creato e difendiamo con accanimento per mare e per terra. Potremmo trarre “conclusioni” se fossimo in grado di fondare un’alternativa per tutte le Stelle che non avranno né pace né sorte se non ci convertiamo, se non cambiamo dalle sue fondamenta questo nostro governo del mondo.

Però in quell’assemblea abbiamo fatto una cosa rara, se non unica in questi tempi di domande inevase; abbiamo evocato e avviato una lettura messianica della crisi, e ne abbiamo tratto una lezione, analoga ci sembra a quella proclamata nella bufera da papa Francesco; e la lezione, espressa da Giuseppe Ruggieri, è quella di portare la sofferenza umana dentro Dio stesso, che patisce e muore  nel crocefisso, e di riconoscere nella sofferenza lo strato più profondo dell’umano, che richiede una solidarietà assoluta, senza condizioni. A questo siamo chiamati, quando non c’è un’uscita puramente politica dalla crisi, né essa sta in qualsiasi ideologia religiosa, dottrina sociale o partito cattolico, ma sta primariamente nell’assumere la sofferenza dell’altro e da questo dolore farsi dettare la prassi adeguata a un processo di liberazione e di salvezza. Questa è per l’appunto la “Chiesa ospedale da campo” ripensata da papa Francesco, preannunciata dal Concilio del Novecento, osteggiata dalle Curie prigioniere del passato.

Tradotto nella sfera pubblica ciò significa, secondo la proposta folgorante  formulata da Luigi Ferrajoli, fare del popolo dei migranti il popolo costituente e del diritto di emigrare il potere costituente di un nuovo ordine mondiale, basato sull’effettiva uguaglianza di tutti gli esseri umani. Anzi occorre procedere oltre su questa strada, fare dell’intera famiglia umana il soggetto costituente del nuovo ordine mondiale, e fare di tutti i diritti negati, non solo del diritto di migrare, il potere costituente di una nuova comunità internazionale di diritto di giustizia e di pace.
Sarebbe questa comunità umana universale,  costituita in comunità politica, ministeriale e profetica, a raccogliere l’eredità delle promesse messianiche, sarebbe questo”il messia che rimane” come il misterioso “discepolo che rimane” di cui Gesù ha detto a Pietro, nell’ultima pagina del vangelo di Giovanni: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?”.
E se è stato detto che ormai “solo un Dio ci può salvare” è pur vero che c’è un Dio salvato dall’uomo, un Dio che deve molto all’umano, perché se non avesse creato e non fosse entrato nella carne dell’uomo, spogliando se stesso e facendosi simile agli uomini, sarebbe stato un Dio per nessuno, sarebbe stato un Dio della legge, non dell’amore, sarebbe stato un Dio senza storia.
Ed ora è solo l’uomo che può salvare Dio nel mondo, anche nel “mondo senza Dio” tracimante negli incubi dell’ex papa Ratzinger; è l’uomo che può salvare Dio dalla cattura degli idoli, liberandolo dai fraintendimenti e dalle false rappresentazioni che si fanno di Lui, dal “carico di errate preghiere”, come cantava David Maria Turoldo, dalla violenza esercitata in suo nome, e da tutti i Costantino che su di lui pretendono fondare il loro trono.

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Lettera all’asino della Domenica delle Palme

16 aprile 2019

Carissimo asino, ma sei ancora tu? Sei quello della stalla di Betlemme e della fuga in Egitto? Ti ho visto domenica portare Gesù accolto con grande festa a Gerusalemme! Sì, lo so che i vangeli dicono che quello era un puledro su cui nessuno era mai salito; non vorrei irritare qualche tribunale ultra rigoroso su Facebook, ma a me piace pensare invece che sei ancora tu, lo stesso asino che, ormai vecchio, dopo aver accompagnato Gesù bambino in Egitto, ora lo accompagni a Gerusalemme. Gli vuoi davvero bene.

Il tuo sguardo è un po’ spento, pensieroso. Mi sembra di intuire che mentre la folla grida ‘Osanna, Osanna’ tu cerchi di sussurrare a Gesù “stai attento, che questi oggi ti osannano, ma tra qualche giorno grideranno crocifiggilo”, “La folla si lascia manipolare dai potenti”. Tu cerchi di dirglielo, ma Lui sembra non sentire. Anche se, credo, sappia bene cosa lo aspetta. Ha altri progetti, ‘cose’ che né tu né io comprendiamo. Tu hai fatto la tua parte. Gli hai anche sussurrato di stare attento. Più di così!

Ma dimmi: una volta che Gesù è sceso dal tuo dorso, tu dove sei andato? Mi sembra di vederti sconsolato, allontanarti da Gerusalemme con passo stanco, in mezzo agli ulivi. Forse non vuoi sentire e vedere cosa succederà da lì a poco. Non vuoi vedere il gioco dei potenti: Pilato, Erode, Anna, Caifa… Non vuoi sentire le urla della folla che grida ‘Crocifiggilo’. Non vuoi sentire il rumore dei cavalli dei soldati che, sotto la croce, si giocano ai dadi la tunica. Non vuoi sentire le grida delle donne di Gerusalemme, o il gallo che canta, o chi rinnegherà il tuo amico. O forse ti spaventa il silenzio dei tanti che per paura, codardia, o quieto vivere restano indifferenti alla via crucis di un uomo condannato a morte. Mi sembra di vedere che ti sei fermato, vorresti quasi tornare indietro…‘se lo mandano a morire in croce almeno lo aiuto a portarla’.

Guarda, caro asino, non ti nascondo la tentazione che vorrei anch’io fare come te: andarmene lontano. Non sopporto più certe parole di odio e di morte. La violenza nelle parole che si trasforma in gesti. Il razzismo che diventa quasi accettato. La leggerezza e serenità nell’augurare la morte a chiunque. Anche oggi sarebbe il caso di fare i nomi di tanti potenti che giocano sulla pelle dei più poveri, dei poveri cristi. Ci costruiscono il loro potere, ci fanno la campagna elettorale. E vai con armi, pistole, bombe, aerei da guerra. Tutto in nome della sicurezza. Rischiamo di non saper più piangere davanti ad una tragedia dove le persone, in carne ed ossa, muoiono davvero.

E la Libia? diventa un problema soprattutto per la paura dei  migranti, mica per altro. E lo Yemen? Non interessa. Ma ci muoiono in tanti. Non è importante… E il Sud Sudan? Il papa che bacia i piedi ai leaders politici perché costruiscano la pace! Un gesto profetico, storico! Ma quante critiche da parte di benpensanti anche cristiani.

Non ti nascondo la sofferenza nel sentire tanti ragionamenti, violenti e razzisti, anche da parte di alcuni che frequentano la chiesa. Partecipano alla Messa e poi, sul piazzale, ti sciorinano una serie di ragionamenti da brivido. Populismo, sovranismo, fascismo, di tutto un po’. Voglio sperare che siano una piccola minoranza. Ma l’aria che si respira è pesante, rancorosa, delusa e impaurita. Manipolabile.

Sì, vorrei fuggire. Come hai fatto tu. Per non sentire quell’ “Ecce Homo” che indicava nel tuo amico Gesù il volto sofferente di ogni uomo e di ogni donna. Oggi lo ripetiamo poco Ecce Homo! Rischiamo di dare più valore alle croci artistiche di legno, o di plastica, che non ai crocifissi in carne ed ossa. Pensa che i testi della Via Crucis del venerdì santo, presieduta da papa Francesco al Colosseo, li ha scritti Suor Eugenia Bonetti, che da anni si cura delle donne vittime della tratta. E pensa che un candidato alla Presidenza della Regione dove abito, vorrebbe aprire i bordelli!

Ho capito, andarmene non è giusto.

Caro asino, non ti vedo più, sei scomparso tra gli ulivi. Un po’ mi manchi. Perché col tuo occhio grande e un po’ triste mi davi comunque la forza nel cammino. Ma forse ti sei allontanato anche per non sentire le mie parole, i miei silenzi. Per non vedere anche le mie complicità o indifferenze.

Ci vuole un cuore nuovo, di carne.

Non so se tu avrai modo di ascoltare anche le grida di stupore di Maria di Magdala al mattino di Pasqua, o il fiatone di Pietro e dell’altro discepolo che arrivano ansimanti al sepolcro, ormai vuoto. Chissà, forse sei ormai lontano. O invece sei ancora lì, nascosto dietro a qualche ulivo secolare. Un po’ ti invidio e comunque ti ringrazio.  

Sono sicuro, come ti avevo già scritto, che la tua storia, da Betlemme all’Egitto, fino a Gerusalemme, ha molto più peso di tante nostre preghiere, pietosamente devote.

don Renato Sacco

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Rosanna Virgili

“Gesù insegna, il Papa obbedisce”

Scandalosa lezione d’amore

Avvenire domenica 14 aprile 2019

La sera dell’ultima cena Gesù ebbe un’idea bizzarra: lavare i piedi agli apostoli. Nudo e munito solo di un grembiule, Gesù si abbassò sino a terra, per essere all’altezza dei piedi dei discepoli. C’erano tutti, anche Giuda. Inammissibile per il rude e riverente cuore di Pietro, l’accettare un simile gesto. Capirlo, innanzitutto.

Pietro è geloso di un Maestro che è capo, Messia, il Figlio di Dio e non può curvarsi sui piedi impuri di un pescatore di Cafarnao.

Perché? Cosa non accettava Simone? Innanzitutto l’inchinarsi di Gesù. Proprio Lui che aveva detto: “Il Signore tuo Dio adorerai” quando Satana lo tentava, promettendogli il mondo, in cambio di un semplice inchino (Lc 4,8).

E come poteva essere che Lui, che era Dio, si inchinasse, ora, ai piedi dell’ultimo mortale? Quel Suo lavare i piedi degli apostoli gli pareva un mestiere troppo prosaico. Da schiavi, non da uomini liberi. Anche gli antichi princìpi greci, dinanzi ai pur sacri doveri dell’ospitalità, adibivano un servo – più spesso un’ancella – al bagno dell’ospite.

Un terzo motivo potrebbe essere quello puramente estetico: non è bello vedere un capotavola, com’era Gesù in quella cena, alzarsi e lavare i piedi a tutti i commensali! Persone semplici e sospette; gente nota, ma anche inaffidabile, come lui che, di lì a poco, lo avrebbe per tre volte rinnegato.

Ed ecco, allora, apparire una ragione più profonda: Pietro non accettava un Messia rovesciato, un Dio minore, un Docente accovacciato come fosse un discente, un Signore supplice, un Re–Servo. Rifiutava l’ombra della divina vergogna della Croce. E, fors’anche, che, in seguito, anche a lui toccasse fare altrettanto.

Ma come mai Gesù compie questo gesto tanto inusuale che il Vangelo di Giovanni rende essenziale nella sua Ultima Cena?

Qualche giorno prima Gesù aveva fruito di un simile gesto da parte di Maria di Betania. Ella aveva versato sui piedi del Signore un vaso d’olio di nardo pregiato, stimato ben trecento denari. E anche lì ci fu qualcuno che si scandalizzò: questi era Giuda che, infatti, vendette il cadavere del Signore per soli trenta denari. Da quella donna Gesù aveva avuto una straordinaria lezione d’amore.

Un’altra volta il Rabbi aveva goduto di una lavanda di baci; era in casa di un Fariseo che – ironia della sorte! – si chiamava anch’egli Simone. Una prostituta, seduta a terra, usava le sue lacrime come acqua di abluzione per i piedi del Maestro che poi asciugava con i suoi capelli. Dinanzi allo scandalo del Fariseo, Gesù aveva spiegato: «Molto le sarà perdonato, perché ha molto amato» (Lc 7,47).

E Lui che, nella sua ultima settimana al mondo, dopo aver amato i suoi, voleva amarli «sino alla fine» (Gv 13,1) volle farlo cominciando dai piedi. «Non mi laverai i piedi in eterno», dice Pietro; «se non ti laverò non avrai parte con me», replica paziente Gesù, con parole, in verità, sibilline.

Ma che Pietro, in uno dei suoi imprevedibili picchi di genialità, capisce al volo, riparando in un repentino: «Signore, allora non solo i piedi, ma anche le mani e il capo» (Gv 13,8–9).

Quello che ha fatto papa Francesco di baciare i piedi dei due potenti leader del Sud del Sudan è molto più che un gesto di umiltà e il contrario di un’umana umiliazione. È una ubbidienza all’invito di Gesù: «Come io ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri» e una pagina di quelle lezioni d’amore che Gesù continua a dare alla Chiesa e all’umanità. «Svuotò sé stesso» – dice Paolo: ogni bacio ai piedi è una goccia di Pace che, dalla fronte e dalle labbra del Signore va a sciogliere le rughe delle estremità ferite e spaccate della terra.

La Domenica delle Palme un Messia ancora capace di scandalizzare entra in Gerusalemme: portatore di gioia e non di potere, inerme e sorridente, non dietro a squilli bellici di trombe; umile e alto, rapito d’amore per la santa città. Cavalca un asinello, che, certamente, capisce più di noi di che pasta sia fatto questo figlio di Dio.

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d. Paolo FARINELLA, dal commento a Gv 8,1-11

… L’adulterio è punito dalla Toràh: «Non commetterai adulterio» (Es 20,14; Dt 5,18). La pena è la morte per lapidazione (cf Dt 22,20-24; Lv 20,10; Ez 16,38-40; Gv 8,5). Il Giudaismo post-esilico aveva però introdotto anche lo strangolamento, definito «morte bella» perché la corda veniva avvolta in un panno e la vittima soffriva meno. Oggi tutto questo potrebbe far sorridere e potrebbe indurre a facili commenti sarcastici: la morte per un adulterio! Il motivo della condanna a morte è semplice, nel contesto dell’AT maschio e femmina non esistono separatamente, perché in base a Gen 1,27 essi formano una «persona» nuova, plurale, che si chiama «coppia». Insieme, costituiscono l’immagine in cui Dio s’identifica, assumendo così la sessualità come dimensione dell’identità spirituale.

Se l’uomo e la donna formano un «solo corpo» che vive e rappresenta l’«immagine» di Dio, l’adulterio è un assassinio di questo «solo corpo» perché spezza in due la personalità/immagine vivente, cioè la uccide e vi sostituisce una nuova metà che non corrisponde alla realtà. L’adulterio è un falso «vivente» che prova a rendere vivo ciò che ha ucciso.

Una donna è accusata da «scribi e farisei» che vogliono lapidarla in nome del formalismo della loro religione, basata sull’esecuzione letterale della Legge (cf Lv 20,10; Dt 22,22-24). È il fondamentalismo: osservare ciecamente la legge materiale senza valutarne le condizioni e le circostanze collaterali. D’altronde anche da noi, fino a pochi anni fa, i reati sessuali erano rubricati come reati contro la morale e non contro la persona.

Una donna è stata «sorpresa in adulterio» (Gv 8,3). È lecito domandarsi come hanno fatto a coglierla in flagranza. Vi sono due possibilità: o erano presenti e quindi erano complici, o hanno sbirciato dal buco della serratura. In ogni caso conoscevano bene l’indirizzo della donna, se, come suggerisce l’evangelista, hanno aspettato «l’alba» (Gv 8,2) per tendere il tranello, lasciando intendere che uscivano dalla sua casa. I difensori della morale pubblica, pur di mettere Gesù in difficoltà, non esitano a presentare la donna come un agnello da macello su cui scaricare le proprie colpe. La donna non si difende perché non ha diritti, in quanto donna; e quindi, anche volesse, non potrebbe coinvolgere i suoi accusatori, che probabilmente avrebbero potuto essere stati frequentatori della prostituta.

È tipico dell’immoralità dei perbenisti: di notte delinquono, ma di giorno assumono il vestito del perbenismo di facciata. La donna resta «muta davanti ai suoi tosatori», come il Servo di Yhwh (cf Is 53,7) e si attorciglia nel ludibrio della sua vita sbattuta in piazza, davanti a coloro che, forse, erano suoi clienti abituali. Questi «sepolcri imbiancati» (Mt 23,27) con doppia morale, in privato la frequentano, ma in pubblico diventano i suoi giudici, «a cominciare dai più anziani» (Gv 8,9) che cercano di salvare il loro perbenismo di facciata, servendosi della religione come arma per colpire i poveri e gli indifesi.

In questa scena surreale la donna, «prostituta», si staglia come un gigante davanti ai suoi accusatori, avvolta solo nel suo silenzio e nella sua dignità vilipesa, mentre i difensori d’ufficio di Dio hanno bisogno della Legge per imporre la loro volontà perversa. Forse pensando a loro, in Matteo, Gesù non esita a proporre una prostituta come un monito esemplare davanti ai perbenisti e professionisti della religione.

Coloro che in pubblico difendono la morale e «i valori non negoziabili» e pretendono di punire l’adultera o le prostitute o i ladri o i clandestini, o gli omosessuali, sono gli stessi che, in privato, frequentano clandestinamente le prostitute e gli omosessuali, rubano e vilipendono quei valori che dovrebbero difendere.

Il vangelo odierno dichiara questa schizofrenia etica come intollerabile perché causa di deriva e di dissoluzione morale e sociale. Guardando l’«icona» della povera adultera, non possiamo non essere solidali con tutte le donne che in tutto il mondo sono vittime di violenze sessuali da parte di quegli uomini che, dopo averle violentate e usate, ne richiedono anche la condanna accusandole o di provocazione o di ribellione al potere maschile. Per essi ciò che conta è sempre e solo la facciata esterna di una ‘morale immorale’.

Una donna impaurita, forse vittima di un sopruso, è lì muta davanti ai suoi accusatori. A lei non è lecito di-scolparsi perché la legge degli uomini la considera colpevole… a prescindere. Guardiamo in faccia il mondo e tutte le donne che dovunque, ancora oggi, a terzo millennio iniziato, sono considerate inferiori a motivo di ‘ragioni’ ancestrali che fanno molto comodo ad un sistema sociale disumano. Ciò significa soltanto riconoscere il valore della persona che deve essere salvata sempre e comunque.

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Il padre prodigo

Tratto da:  Adista Notizie  n° 8 del 02/03/2019

Un padre aveva due figli. Nessuno dei due era degno di essere chiamato figlio. In questa storia, tutti e tre diventano “altro”, ciò che non erano.

Questa parabola viene spesso chiamata del “figliol prodigo”. Tuttavia, è il padre che è al centro della parabola, colui che viene chiamato quattordici volte e che non ha altro nome che questo: è il padre. Possiamo dire che è il “padre prodigo” perché si dimostra molto generoso. Dà tutto sin dall’inizio e alla fine offre un banchetto. Quando il figlio minore vuole andarsene non cerca di contrastarlo, di ragionarci, di trattenerlo: permette a suo figlio… di nascere da solo. Si fida di lui.

Ciò che rende un uomo degno è la sua libertà creativa, la sua libertà di innovare e non la sua sottomissione ad un altro.

Quando – dopo molto tempo – il padre vede suo figlio mentre torna a casa, corre incontro a lui, lo trasferisce nel profondo di se stesso. Un vero padre ha sempre delle viscere materne…. E suo figlio viene da lui come un povero, sopraffatto. E lui lo accoglie senza giudicarlo… Non gli concede il tempo di parlare e di accusarsi…: «Svelti» – disse ai servi – «portate il vestito più bello e rivestitelo. Mettetegli l’anello al dito e calzari ai piedi»….

Il figlio maggiore non ha mai affrontato suo padre. Lui è sottomesso da sempre. È un bravo ragazzo, un bravo figlio…, ma senza storia. Non è mai diventato se stesso. Tristemente fedele, è rimasto vicino a suo padre senza essere veramente con lui.

Quando scopre che suo fratello è tornato e si fa festa in suo onore, è troppo! Si arrabbia e non vuole partecipare. Getta la maschera: lui, il primogenito, inizia a vivere una sua storia quando scopre che suo padre …e ancora padre del più giovane!

E lui, con evidente disprezzo, parla del fratello più giovane chiamandolo “tuo figlio“, il padre lo corregge: “tuo fratello, questo tuo fratello“.

Tra questi due nomi vi è un abisso che non sarà riempito finché il primogenito non avrà vibrato nella parola “fratello“; solo allora saprà veramente chi è suo padre e cosa significano queste parole: «Tu, figlio mio, sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo».

La parabola non ci dice cosa ha fatto poi il figlio maggiore. È entrato nella sala del banchetto per incontrare suo fratello e festeggiare con tutti? Oppure rimane nel rifiuto? Non lo sappiamo…. L’essenziale è sapere qual è il nostro comportamento.

Durante una condivisione di questa parabola, un uomo sulla trentina, che si trovava in una posizione di potere, di comando, si è “arreso”, parlando con un accento di verità che ha toccato i nostri cuori: « Mi sento come il figlio maggiore….. Non ho avuto il tempo di vivere l’amicizia. Non ho avuto il tempo di far festa…. Aprirò la porta della mia vita ad amici di carne e sangue…. Anch’io ero un figlio bravo, obbediente, ma sottomesso… voglio cambiare…..Sto andando a imparare a vivere di nuovo ».   

Jacques Gaillot

è vescovo titolare di Partenia (diocesi senza territorio)

ed ex vescovo di Evreux.

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Nota biblica, Paolo Farinella, prete

Il «nome» del Dio che si svela a Mosè è composto da quattro lettere «Y_H_W_H» che in ebraico corrispondono a quattro consonanti (in ebraico non esistevano le vocali scritte) e per questo si chiama anche «sacro tetragramma». Poiché la diaspora comportava anche il rischio di perdere la pronuncia dell’ebraico, considerato «lingua sacra», dal sec. VIII al sec. XI d.C., quindi in pieno Medioevo, sorse un movimento per la preservazione e la custodia della Bibbia ebraica secondo la tradizione antica.

Sorsero i Masorèti (in ebr.: Ba’alèi hamasoràh – Signori della tradizione). Essi misero le vocali sotto le consonanti per fissarne definitivamente la pronuncia corretta. A loro dobbiamo la possibilità di conoscere l’esatta pronuncia dell’ebraico.

Al nome «Yhwh», però, i Masorèti, non misero le vocali proprie, ma quelle della parola «Adonài» che è il nome comune per dire «Signore mio». Ogni Ebreo e conoscitore dell’ebraico sa che leggendo la Bibbia, ogni volta che si arriva al «santo tetragramma», gli occhi leggono «Y_h_w_h», ma la bocca pronuncia «Adonài». È la regola tecnica detta del «ketìb-qerè – leggo-dico».

I «Nomi» alternativi di YHWH. Ancora oggi non sappiamo come si pronunci esattamente il santo tetragramma Yhwh che solo per convenzione pronunciamo Yawèh. Secondo la tradizione il sommo sacerdote lo pronunciava una sola volta all’anno, in occasione dello «Yòm Kippùr – Giorno dell’espiazione», alla fine del Capodanno ebraico o «Rosh Hashanàh», quando entrava nel «Santo dei Santi» del tempio di Gerusalemme per il rito dell’incenso.

Sempre secondo questa tradizione, al momento della morte il capostipite lasciava all’erede il «Nome di Yhwh» sussurrato nell’orecchio con la proibizione di pronunciarlo in pubblico, ma solo al proprio erede, di generazione in generazione. Per lo stesso motivo, cioè per il sommo rispetto al «Nome santo», quando nel tempio o in sinagoga se ne dismetteva l’uso perché consunti, i rotoli della Bibbia o i libri di preghiere non venivano mai buttati via, per paura che «il Nome Santo » finisse nella spazzatura.

A questo scopo nel tempio e in ogni sinagoga esisteva una «ghenizàh – rispostiglio» apposito, totalmente sigillato, senza porta, con una sola piccola finestra dove si buttavano i testi, conservandoli così da qualsiasi profanazione.

Per il mondo semitico, cui appartiene la Bibbia, il «nome» indica la natura intima, profonda di chi lo porta e ne determina la consistenza. Conoscere il «nome» significa «possedere» il proprietario del nome, avere su di lui potere anche di vita e di morte.

Dio nessuno può possederlo, perché sfugge a qualsiasi classificazione e dominio da parte dell’uomo. Davanti a Dio l’uomo può solo inginocchiarsi e «somigliargli» (cf Gen 1,26-27).

Gli Ebrei, per sommo rispetto, non pronunciano mai il Nome tre volte santo di «Yhwh» che sostituiscono con uno dei tanti sinonimi.

Ecco alcuni dei «Nomi» con cui l’Ebreo chiama Dio:

Adòn ’Olàm – Signore [=Creatore] del Mondo;

Adonai – Signore;

Avìnu Malkèinu – Nostro Padre/ Nostro Re;

Boré – Creatore;

Chai ha-Chaìm – Vita della vita;

Chài olamìm – Colui che vive sempre/Colui che dona la vita ai mondi;

Chassìd –Pieno di Grazia;

Deòt ha-Shèm – Nome della conoscenza;

Ehàd – Uno;

Ein Sof – l’Infinito;

El Chài – Dio vivente;

El –Dio (forma sintetica dei due precedenti);

El Mèlech Neemàn – Dio, Re Fedele (acrostico di «AMEN»);

El Shaddày/Onnipotente;

Eliòn –Altissimo;

Elòha/Elhà – Dio (forma singolare)

L’espressione «Io sono colui che sono» ha generato un’infinità di elucubrazioni dovute prevalentemente alla non conoscenza della lingua ebraica e ai suoi costrutti sintattici, preferendo leggerla con la mentalità occidentale, propensa all’astrazione filosofica, che nulla ha a che vedere con la Bibbia.

L’espressione ebraica significa letteralmente: «Io sarò chi sono stato». Poiché il senso ha un valore evasivo, in quanto non vuole (né può) rivelare il «Nome» di Dio a un uomo per non metterlo in suo possesso, se volessimo dirla in italiano con una battuta, potremmo tradurre: «Che t’importa chi io sia?» oppure l’espressione tautologica, ripetitiva: «Io sono io» che, di fatto, non significano nulla. La frase «Io sarò chi sono stato» può essere letta invece come un rimando alla storia e alla ricerca di senso attraverso gli avvenimenti intrecciati tra passato, presente e futuro. In breve, dando per scontata l’analisi testuale, l’espressione significa letteralmente: «Io sarò chi sono stato».

Questo Dio misterioso che si presenta come «Io-Sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». (Es 3,6.15). Chi io sarò d’ora in avanti, tu lo scoprirai negli avvenimenti che accadranno, e se vuoi saperlo interroga gli eventi del passato quando sono intervenuto con i tuoi padri, i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe.

In altre parole: «Io-sarò chi fui»: il passato diventa garanzia credibile di quanto dovrà accadere nel futuro.

La traduzione che più si avvicina all’ebraico, a nostro avviso, è quella dell’Apocalisse: «Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,4.8; 48) in quanto esprime l’essere divino non nella sua essenza di divinità astratta, ma nella dinamica della sua relazione con Israele nella storia della salvezza o meglio ancora nella salvezza che si fa storia.

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Gesù, oltre le religioni

Gilberto Squizzato

Nell’immagine della Trasfigurazione siamo in presenza di un racconto di separazione.

Gesù è a colloquio con Elia e Mosè.

ELIA vuol dire, nella narrazione evangelica, riconoscerlo come pienamente ebreo, come perfettamente innestato nella radice secolare di quell’identità religiosa e nazionale. Ma allora che intenzione anima questo racconto? Solo per dire che la storia continua e che i due profeti antichi fanno da garanti all’annuncio di Gesù? …

La Trasfigurazione chiama i veri credenti alla fuoriuscita da un passato ormai inservibile. L’appartenenza etnica, nazionale, religiosa, non conta e non garantisce più nulla: tutto questo si è dissolto irrevocabilmente sul Tabor.

Luca è un gentile che non appartiene per nascita alla pura stirpe di Israele. Dunque l’episodio della Trasfigurazione che… manda in pensione Elia e Mosè assume un significato radicale: non solo l’appartenenza etnica e religiosa può essere accantonata, ma non è più neppure condizione indispensabile per entrare in contatto con Gesù.

Tutto questo che cosa può significare per noi oggi? Possiamo/ dobbiamo svegliarci dal sonno consolatorio e rassicurante delle certezze religiose di un tempo. Potremmo parafrasare così l’espressione di Pietro : “come sarebbe bello stare tranquilli e sereni con te Gesù, e con Elia e Mosè, e costruirci una casa per essere rassicurati dalle certezze e dogmi antichi!

Per scendere invece nel nostro presente e qui esporci con coraggio ai venti della storia e della cronaca, alle novità dei nuovi modelli di pensiero della modernità globalizzata, al rischio di sentirci sguarniti dalle certezze dei catechismi e dell’obbedienza ai dogmi formulati con parole che oggi sentiamo obsolete, superate e che hanno perso ogni vigore esistenziale.

Fino alla posizione più radicale: per diventare discepoli di Gesù non solo non è più necessario essere ebrei, possiamo (forse anzi dobbiamo!) lasciarci alle spalle perfino la stretta appartenenza religiosa, fino a ieri considerata indispensabile, per l’esercizio della fede.

Possiamo entrare nel continente della modernità e della laicità, senza che questo significhi in alcun modo attenuare il rischio della croce.

Comincia un mondo nuovo. Non è più tempo di starcene al sicuro in cima alla montagna, ci attende un mondo nuovo e sconosciuto che ci obbliga laicamente (Fuori dal tempio!) alla più radicale novità che ci possa mai capitare di vivere.   

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UN AMORE CHE NON GIUDICA
Lc 6, 39-42
Card. C. M. MARTINI

Il brano è composto da TRE SENTENZE DI GESÙ, due sono in forma di parabola e una si presenta come detto sapienziale.

Il cieco che guida un altro cieco

  • La prima parabola è quella del cieco che guida un altro cieco; sentenza efficacissima, che la gente capisce subito e non dimentica.

“Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt’e due in una buca?” Sembra ovvio che se un cieco guida un altro cieco, sia molto probabile che entrambi cadano in una buca. Le strade del tempo di Gesù erano piene di buche, e non c’era bisogno di altre spiegazioni. Tuttavia ci chiediamo: di chi parla Gesù? a chi vuole alludere?

Forse si rivolgeva a quegli scribi e farisei che pretendevano di essere maestri in Israele: insistevano sulle osservanze, sull’allungare i filatteri, sul recitare lunghe preghiere – tutte cose buone -, però non avevano accolto l’annuncio alla conversione, non avevano lo sguardo sull’orizzonte del Regno, erano incapaci di vederne i segni. Cecità significa non saper vedere. Era quindi pericoloso affidarsi alla loro guida.

Luca parlava alle prime comunità cristiane, e forse si riferiva ad alcuni maestri, sorti tra loro, criticati anche da Paolo nelle Lettere ai Corinti. Questi maestri non avevano capito che la salvezza è data gratuitamente dalla fede, accumulavano osservanze rigorose, obbligavano a farsi circoncidere come se tutto dipendesse dagli sforzi umani, non irradiavano la gioia luminosa propria di chi si sa graziato da Cristo. Dunque ciechi perché non avevano scoperto il tesoro del Regno.

Ciechi guide di ciechi sono coloro che non comprendono il primato dell’amore. Vivono le pratiche religiose, ma senza inquadrarle nel primato dell’amore, soprattutto dell’amore al nemico, dell’amore che non soltanto prega per i persecutori, presta e non richiede, fa del bene a chi fa del male, ma arriva a non giudicare, a perdonare, a dare con “una misura pigiata, scossa, traboccante” (Lc 6, 38). Se, nel nostro vivere, non abbiamo la chiarezza di questo primato, siamo anche noi ciechi guide di ciechi; magari insegniamo cose buone e giuste, ma non le inquadriamo nella luce evangelica.

Il nostro brano è sempre attuale, ci deve portare alla fine ad amare anche i nemici, a non giudicare, a perdonare. È la cartina di tornasole del nostro essere evangelici.

  • La seconda sentenza, al centro del testo, è una bella sentenza sapienziale: il discepolo non è da più del maestro, ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro. […]

Perché questa sentenza è stata messa qui? che senso ha, a chi si riferisce? Fermiamoci sull’espressione: ben preparato, in greco katertismenos. Il verbo katartizo vuol dire “mettere a posto, in ordine”, ricorre in altri luoghi dei vangeli, ed è usato, per esempio, in Mc 1, 19, quando Gesù vede sulla barca Giacomo e Giovanni che “riassettavano le reti”: Katartizontas, significa che le mettevano in ordine in modo che fossero pronte per il loro impiego. Un uomo, un discepolo ben preparato corrisponde all’essere formato.

Paolo in 1 Cor 1, 10 esorta i fedeli a essere katertismenoi, ben formati, armonici, in perfetta unione di pensiero e di intenti.

Questa sentenza ci permette di intuire il pensiero di Gesù: il discepolo ha bisogno di formazione. Non è sufficiente la volontà di seguirlo, ma occorre che chi è chiamato sia formato, istruito, in grado di interiorizzare le parole di Gesù e farne memoria. Allora sarà davvero come il suo Maestro.

A chi si rivolge Gesù? Probabilmente si riferisce a falsi maestri con cui Paolo polemizza: apparentemente ben formati, ma in realtà nemici della croce di Cristo, persone che non sono giunte ad essere come il maestro, morto crocifisso. Gesù è il Maestro: “Là dove sono io sarà anche il mio servo” (Gv 12, 26). Il vero discepolo è chiamato a essere là dove è il maestro, a imparare da lui il primato dell’amore e il primato della croce, stando con lui. Quando il discepolo è ben formato sa coniugare nel suo apostolato entrambi i primati. Possiamo dire che Gesù è il maestro del perdono e della misericordia. Quando arriveremo a perdonare come Gesù saremo davvero discepoli ben preparati.

  • La pagliuzza e la trave. E’ La terza parabola. Come la prima, è molto puntuale, pungente, e resta impressa in chi l’ascolta.

Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello: Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall’ occhio del tuo fratello!”. Quest’ultima sentenza è un’immagine molto ad effetto, emotiva, incisiva per la paradossalità dell’espressione: si può capire la pagliuzza nell’occhio, ma non la trave!

Si tratta di un’iperbole tesa a sottolineare una cecità assurda… e che però esiste. La sentenza è diretta in generale a quei pretesi maestri, sia in Israele sia nella primitiva comunità cristiana, che non accettavano la salvezza nella fede in Gesù, attribuendo la salvezza al compimento dei doveri. Ciechi, che hanno una trave nell’occhio e insistevano nelle piccole osservanze (le decime sulla menta o sul cumino) perché incapaci di capire le grandi, quelle della misericordia e della giustizia.

Viene qui ripreso il concetto del primo detto – un cieco che guida un altro cieco -, quasi a mettere in evidenza il dramma proprio di chi vuole giudicare altri e non riesce a vedere il male che ha in sé.

Il riferimento è all’amore che non giudica (Lc 6, 36-38). Giudicare gli altri è la trave nell’occhio che impedisce di aiutare il fratello a migliorare.

  1. Giudicare significa condannare;

  2. e quando io condanno l’altro perché è falso, è bugiardo, è peccatore, ho la scusa per non amarlo;

  3. ma chi ha la pretesa di giudicare è cieco e tutti i suoi giudizi sono falsati in radice perché nascono da un cuore privo di misericordia.

Si apre qui un campo immenso di valutazione della cosiddetta opinione pubblica, fatta a vanvera in gran parte di espressione di giudizi, spesso facile, ovvia. Se non parte da sentimenti di misericordia, è viziata.

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Commento a Luca 6,27-38.

Amore per il nemico

Josè Antonio Pagola

«A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano».

 

Che cosa possiamo fare noi credenti davanti a queste parole di Gesù? Eliminarle dal Vangelo? Cancellarle dal fondo della nostra coscienza? Tralasciarle per tempi migliori?

 

Non cambia molto nelle diverse culture l’atteggiamento di base degli uomini di fronte al «nemico», vale a dire di fronte a qualcuno da cui possiamo attenderci un danno. L’ateniese Lisia (V secolo a.C.) esprime la concezione vigente nell’antica Grecia con una formula che ancora oggi parecchi accetterebbero volentieri: «Ritengo una norma stabilita che si debba cercare di danneggiare i propri nemici e mettersi al servizio dei propri amici».

 

Per questo dobbiamo mettere ancora di più in evidenza l’importanza rivoluzionaria racchiusa nel mandato evangelico dell’amore per il nemico, considerato dagli esegeti il tratto più chiaro del messaggio cristiano.

 

Quando Gesù parla dell’amore al nemico, non sta pensando a un sentimento di affetto e tenerezza verso costui, quanto piuttosto a un atteggiamento umano di interesse positivo per il suo bene. Gesù pensa che la persona sia umana quando l’amore si trova alla base di ogni sua azione. E neanche la relazione con i nemici deve rappresentare un’eccezione. Chi è umano fino in fondo rispetta la dignità del nemico, per quanto sfigurata ci si possa presentare. Non adotta nei suoi confronti una posizione di maledizione che lo escluda, ma un atteggiamento di benedizione. Ed è proprio questo amore, che raggiunge tutti e cerca veramente il bene di tutti, senza eccezioni, il contributo più umano che può introdurre nella società colui che si ispira al Vangelo di Gesù.

 

Ci sono situazioni in cui questo amore per il nemico appare impossibile. Siamo troppo feriti per poter perdonare. Abbiamo bisogno di tempo per ricuperare la pace. È il momento di ricordare che anche noi viviamo della pazienza e del perdono di Dio.

 

Che cosa significa perdonare? Il messaggio di Gesù è estremamente chiaro: «Amate Ì vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono». E’ possibile vivere in questo atteggiamento? Che cosa ci si sta chiedendo? Possiamo amare il nemico? Forse dobbiamo iniziare comprendendo meglio che cosa significa «perdonare».

 

E’ importante, in primo luogo, capire e accettare i sentimenti di ira, ribellione o aggressività che nascono in noi. È normale. Siamo feriti. Per non farci ancora più male abbiamo bisogno di ritrovare, per quanto possibile, quella pace interiore che ci aiuti a reagire in modo sano. La prima decisione di chi perdona è quella di non vendicarsi. Non è facile. La vendetta è la risposta quasi istintiva che nasce in noi quando ci hanno ferito o umiliato. Cerchiamo di compensare la nostra sofferenza facendo soffrire chi ci ha fatto del male.

 

Per perdonare è importante non sprecare energie nell’immaginare la nostra rivincita. E soprattutto decisivo non alimentare il risentimento. Non permettere all’ odio di insediarsi nel nostro cuore. Abbiamo il diritto che ci venga fatta giustizia; chi perdona non rinuncia ai suoi diritti. Ma !’importante è provvedere a curare il danno che ci hanno fatto.

 

Perdonare può richiedere tempo. Il perdono non consiste in un atto di volontà, che rapidamente risolve tutto. In generale, il perdono è la fine di un processo in cui intervengono anche la sensibilità, la comprensione, la lucidità e, nel caso del credente, la fede in un Dio del cui perdono viviamo tutti.

 

Per perdonare è a volte necessario condividere con qualcuno i nostri sentimenti. Perdonare non vuoI dire dimenticare il male ricevuto, quanto piuttosto ricordarlo nel modo meno dannoso per chi ha offeso e per se stessi. Chi intende il perdono in questo modo comprende che il messaggio di Gesù, lungi dall’essere qualcosa di impossibile e irritante, è la via sicura per guarire le relazioni umane, sempre minacciate dalle nostre ingiustizie e dai nostri conflitti.

 

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Il silenzio della Chiesa, quando si allontana da Gesù

di Alberto Maggi_11.12.2018

Con la denominazione chiesa del silenzio ci si riferisce a una chiesa oppressa e perseguitata da un sistema politico ostile. Storicamente sono state chiese del silenzio quelle dell’est europeo sotto il potere dell’Unione Sovietica. Ma la definizione “chiesa del silenzio” si estende anche a tutte quelle comunità cristiane, a qualunque latitudine, che vivono nel nascondimento, nella clandestinità, in luoghi dove non è consentito dichiararsi apertamente cristiani e dove ogni forma di culto o di attività evangelica viene severamente proibito e represso. Ma questa chiesa del silenzio, anche se è invisibile, è esistente. È silenziosa perché viene costretta al silenzio, non per propria scelta. È una chiesa martire, ma per questo viva e vivificante.

C’è anche un’altra chiesa in silenzio, è quella ben visibile, ma praticamente devitalizzata, che può parlare, che straparla di quel che non le compete, ma tace sul suo unico mandato, quello di cercare “il regno di Dio e la sua giustizia (Mt 6,33). È questa una chiesa silenziosa non perché costretta al silenzio, ma che tace semplicemente per convenienza. È silente perché connivente con ogni forma di potere, pur di non diminuire il proprio.

Ma una chiesa, che taccia per motivi di opportunità, non ha nulla a che vedere con quel Gesù, che non ha soggezione di alcuno perché non guarda in faccia a nessuno (Mc 12,14), e che invia i discepoli ad annunciare la buona notizia senza aver paura della persecuzione (“Non abbiate dunque paura di loro…”, Mt 10,26; 5,10). Una chiesa che invita ad annunciare sempre e in ogni circostanza la Parola (“Guai a me se non annuncio il Vangelo!”, 1 Cor 9,16), senza calcoli di convenienza: “insisti al momento opportuno e non opportuno” (2 Tm 4,2).

Le guide, i pastori e i fedeli delle chiese costrette al silenzio hanno spesso pagato, e pagano tuttora, con la persecuzione, il carcere, e anche la morte, la loro fedeltà al vangelo di Gesù. Ma il Signore si identifica con essi (Gv 15,20).

I pastori e i fedeli della chiesa in silenzio, quelli che non parlano perché restare zitti è più conveniente, non solo non offrono la propria vita per salvare il gregge (Gv 10,11), ma tacciono per non disturbare il lupo. Vedono il massacro perpetrato dalle belve, ma preferiscono tacere. Non alzano la voce contro l’ingiustizia per non perdere i benefici che il lupo, che è il potente di turno, può loro togliere o elargire.

Ma per il Signore, quei pastori che per il loro interesse, per il loro quieto vivere, per non mettere in pericolo la loro posizione, la loro carriera, non difendono il gregge, sono più pericolosi delle bestie feroci. Il gregge infatti cercava in essi una protezione, e ha invece trovato fauci spalancate (“Strapperò loro di bocca le mie pecore e non saranno più il loro pasto… sono come lupi che dilaniano la preda, versano il sangue, fanno perire la gente per turpi guadagni”, Ez 22,27; 34,10). Per Gesù, costoro non sono neanche pastori, ma solo dei mercenari che svolgono un’attività esclusivamente per il proprio interesse e a proprio vantaggio, perché “non gli importa delle pecore” (Gv 10,16).

Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci!” (Mt 7,15) avverte Gesù. E il Signore indica anche come riconoscere questi elementi pericolosi. Sono quanti sbandierano il vangelo, ma lo negano con il loro comportamento (“Non chiunque mi dice:Signore, Signore”, Mt 7,21). Di fronte all’esibizione di inutili attestati di ortodossia, e l’ostentazione di simboli religiosi, il Cristo dirà loro: “Non vi ho mai conosciuti” (Mt 7,23), perché l’unica garanzia di comunione con il Cristo è una profonda compassione, umanità, una tenerezza che porta a non escludere nessuno dal raggio d’azione del proprio amore.

I pastori che non solo non smascherano i falsi profeti, ma li imitano, per non perdere la loro posizione di privilegio e prestigio, sono anche essi falsi profeti, disposti a piegarsi come giunchi ad ogni vento (Mt 11,7), di adattarsi ad ogni politica, fosse anche la più disumana e quindi antievangelica, sapendo che così ne avranno solo benefici.

Il vero profeta è l’uomo dello Spirito, come Giovanni il Battista. È su di lui che scende la Parola di Dio, e non sui potenti (“La Parola di Dio venne su Giovanni”, Lc 3,2), e per questo riesce ad affrontarli e sfidarli, da quei farisei che vogliono impedirgli la sua missione (“Perché dunque tu battezzi se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?”, Gv 1,24), a quell’Erode al quale grida: “Non ti è lecito!” (Mt 14,4). E ci ha rimesso la testa.  La fedeltà al messaggio di Gesù comporta il rifiuto e la persecuzione da parte del potere, ma il tradimento alla buona notizia comporta il rifiuto da parte del Cristo (“Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui”, Mc 8,38). Per questo la vera Chiesa, quella del Cristo, è da sempre la chiesa degli apostoli e di Pietro, gli antesignani della disubbidienza civile: “Bisogna ubbidire a Dio invece che agli uomini” (At 5,29).

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Ernesto Balducci – da “Gli ultimi tempi” volume 3 – anno C

Giunti come siamo all’ultima sponda della civiltà dell’odio dopo la quale c’è l’abisso del morire collettivo, siamo portati a ripercorrere, come in una anamnesi medica, tutta la struttura storica del genere umano e percepire i luoghi in cui si è sedimentato questo veleno dell’odio: rapporti uomo/donna, rapporto uomo/natura, rapporti di classe, rapporti fra i popoli…

Noi vediamo che nelle giunture c’è questa oscura solidificazione dell’odio diventato struttura, modo di agire, di pensare.

Allora la carità diventa una virtù rivoluzionaria, costruttiva – uso il termine nel modo contestuale al mio discorso –. Mette in luce tutto ciò che di positivo, di conforme all’amore c’è nel mondo. La carità ha questo di proprio, che anche nel guardare l’uomo più efferato, che ispira risposte violente, riesce a scorgere il residuo di amore che c’è in lui. Anche nel delinquente che non ha nessuna attenuante, di fronte ad un tribunale umano, la carità riesce a scorgerla scintilla residua che potrebbe divampare.

La carità è contagiosa. Se mandate un uomo zeppo di virtù e con grande senso di giustizia di fronte ad un peccatore, ad uno che ha commesso crimini, il delinquente si consolida nella sua negatività per una specie di naturalità dialettica. Di fronte ad un virtuoso troppo virtuoso ci affezioniamo ai nostri difetti.

Ma se l’amore ci guarda dentro, suscita in noi le potenzialità represse e menomate dalla nostra degenerazione: l’amore cambia il mondo. È questa la logica della nonviolenza.

La nonviolenza non è solo un metodo per rispondere nei conflitti, è anche un modo di conoscere il lato non violento che c’è anche nell’uomo più violento. Essa veramente può cambiare i rapporti intersoggettivi senza molte parole e senza provvedimenti di legge, ma per pura propagazione esistenziale del valore dell’amore.

La nuova maniera di vivere la vocazione cristiana è il primato dell’amore che intreccia nel mondo quella comunione tra le creature. Il vero obiettivo dell’annuncio di Gesù Cristo non è di fare una chiesa, ma di fare una umanità, di cui la Chiesa è segno e strumento.

Se c’è un motivo di serenità nel guardare la realtà storica di quest’ultimo scorcio è che la razionalità della forza e del fanatismo appaiono sempre di più infondate e quindi si squalificano da sé.

Nei rapporti tra i popoli l’esigenza di abbattere le pareti, i muri, di disarmare, di moltiplicare gli scambi culturali è una esigenza nel segno dell’amore.

Sul piano personale il nuovo rapporto uomo/donna, il bisogno di rispettare la natura perché essa non sia contaminata e resa violenta dalla nostra violenza rientrano nelle esigenze dell’amore.

La parola «cristiani» può essere pronunciata in due modi: uno di differenziazione – quando dico cristiani penso a quelli che non lo sono e mi distinguo da loro – un altro invece in cui la parola indica un’apertura a tutti gli uomini. Questo era il sentimento del Signore.

Attorno a lui si sono sempre alzate siepi di fanatici, durante la sua vita, e dopo che Egli è scomparso il fanatismo istituzionale lo ha come seppellito in un recondito spazio dove soltanto la forza delle coscienze ha potuto raggiungerlo. È un miracolo storico che egli non sia rimasto chiuso nella tomba dei fanatismi dei nazareni. In questa frase del Vangelo – «passando in mezzo a loro se ne andò» – ho sempre colto, anche visivamente un segno stupendo del mistero di Gesù. Gesù è passato in mezzo a noi e se n’è andato. Questa parola, se non fosse presunzione, potrei annunciarla in molti luoghi dove ci sono tutti i segni del Cristo. Potrei dire: se n’è andato! Se n’è andato lontano, dove la logica dell’amore vive, dove la speranza non è retorica domenicale.

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GIOIA E AMORE

Un linguaggio di gesti Josè Antonio Pagola – Gv 2,1-11

L’evangelista Giovanni non dice che Gesù fece «miracoli» o «prodigi», ma li chiama «segni», perché sono gesti che rimandano a qualcosa di più profondo di quello che riescono a vedere i nostri occhi.

Quanto avviene a Cana di Galilea è l’inizio di tutti i segni, il modello di quello che Gesù compirà nel corso della sua vita. In questa «trasformazione dell’acqua in vino» ci viene proposta la chiave di comprensione del tipo di trasformazione salvifica operata da Gesù. Tutto avviene nella cornice di una festa di nozze, la festa umana per antonomasia, il simbolo più eloquente dell’ amore, l’immagine migliore con cui la tradizione biblica evoca la comunione definitiva di Dio con l’essere umano.

La salvezza di Gesù Cristo è una festa che conferisce pienezza alle feste umane, quando queste sono vuote, «senza vino» e incapaci di appagare la nostra sete di felicità totale. Il racconto, tuttavia, suggerisce qualcosa di più.

L’acqua può essere assaporata come vino quando, seguendo le parole di Gesù, viene «attinta» da sei grandi anfore di pietra, utilizzate dai Giudei per le loro purificazioni.

La religione della legge, scritta su tavole di pietra, è giunta alla fine; non esiste acqua in grado di purificare l’essere umano. Questa religione deve essere liberata dall’ amore e dalla vita comunicati da Gesù. Per questo non si può evangelizzare in un modo qualunque.

Per comunicare la forza di trasformazione di Gesù non bastano le parole, ma sono necessari i gesti.

Evangelizzare non è solo parlare, predicare o insegnare; e ancora meno giudicare, minacciare o condannare. È necessario attualizzare, con fedeltà creativa, i segni che Gesù compiva per portare la gioia di Dio, rendendo più felice la dura vita di quei contadini.

La parola della Chiesa lascia indifferenti molti contemporanei. Le nostre celebrazioni li annoiano. Essi hanno bisogno di incontrare nella Chiesa segni più vicini e amichevoli, per scoprire nei cristiani la capacità che Gesù ha di alleviare la sofferenza e l’asperità della vita.

Da Gesù molti si attendono una forza e uno stimolo per vivere in modo più sensato e gioioso. Se si imbattono soltanto in una «religione annacquata» e non viene dato loro un assaggio della gioia festosa che Gesù trasmetteva in modo contagioso, molti continueranno ad allontanarsi.

Gioia e amore.

Secondo l’evangelista Giovanni, Gesù compiva segni per far conoscere il mistero racchiuso nella sua persona e per invitare la gente ad accogliere la forza di salvezza che portava con sé.

L’evangelista parla di una festa di nozze a Cana di Galilea, un piccolo villaggio di montagna, a quindici chilometri da Nazaret. Tuttavia la scena possiede un carattere chiaramente simbolico. Né la sposa né lo sposo hanno un volto: non parlano e non compiono azioni. L’unico personaggio importante è un «invitato» di nome Gesù.

Le feste di nozze in Galilea erano le feste più attese e amate tra le popolazioni rurali. Per vari giorni, familiari e amici accompagnavano gli sposi mangiando e bevendo con loro, ballando danze nuziali e cantando canzoni d’amore. All’improvviso, la madre di Gesù gli fa notare qualcosa di terribile: «Non hanno vino» . Come potranno continuare a cantare e ballare? Il vino è indispensabile in una festa di nozze. Per quella gente il vino era il simbolo più eloquente dell’amore e della gioia…. Che cosa può essere una festa di nozze senza gioia e senza amore? Che cosa si può festeggiare con il cuore triste e senza amore?

Nel cortile della casa ci sono «sei anfore di pietra». Sono enormi, «sono là», collocate stabilmente. Vi si custodisce l’«acqua» per le purificazioni. Rappresentano la pietà religiosa di quei contadini che cercavano di vivere «puri» di fronte a Dio. Gesù trasforma l’acqua in vino. Il suo intervento porterà amore e gioia in quella religione: è questo il suo primo contributo.

Ciò che gli sposi vogliono dire con il loro gesto al momento delle nozze è questo:

«Noi ci amiamo con tale verità e fedeltà, con tale tenerezza e dono di noi stessi, in modo così totale, che osiamo presentarvi il nostro amore come “sacramento”, vale a dire, come segno dell’amore che Dio nutre per noi. Quando dunque vedrete come ci amiamo, potrete intuire, seppure in maniera insufficiente e imperfetta, come Dio vi ama».

Sposandosi, gli sposi cristiani si dicono l’un l’altro: «Io ti amerò a tal punto che, quando ti sentirai amato o amata da me, potrai sentire come Dio ti ama. Io sarò per te grazia di Dio. Attraverso di me ti giungerà il suo amore. Io sarò un “sacramento” in cui potrai intuire l’amore con cui Dio ti ama» .

20 gennaio 2019

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Lettera da Taizé: 2004/5

Il battesimo è necessario per entrare nella vita cristiana?

Il battesimo esprime da una parte la metanoia, questo cambiamento fondamentale d’orientamento provocato dall’incontro con Dio, e d’altra parte l’accoglienza dello Spirito divino che fa dell’essere umano una creatura nuova (vedi 2 Corinzi 5,17). Trasforma il rimpianto sterile in un pentimento che è la porta d’entrata in una vita di comunione.

Così, lungi dall’essere un semplice rito esteriore per segnare un’appartenenza sociologica, il battesimo significa la trasformazione profonda dell’essere umano grazie al Soffio di Dio. In qualche modo è una Pentecoste permanente che costruisce la Chiesa lungo i secoli. Aprendo il suo cuore alla novità di Dio, il battezzato accoglie un germe di Vita che lo trasformerà e gli permetterà di condurre una vita nuova (vedi 1 Pietro 1,22-23).

Poiché questa vita è essenzialmente una vita con gli altri, essa ha necessariamente una dimensione esteriore. La trasformazione del cuore resta l’essenziale, ma si esprime con un cambiamento nel modo di vivere: l’appartenenza a una comunità di preghiera e di condivisione dalle dimensioni universali. Non si tratta di provare un sentimento, ma di condurre una vita con gli altri che concretizzi la nostra comunione con il Dio invisibile. Il battesimo è dunque anche un gesto pubblico con il quale la comunità dei credenti accoglie nel suo seno un nuovo membro.

*

Che relazione esiste tra il battesimo di Gesù e il nostro?

Alle soglie dell’era cristiana, viveva in Palestina un uomo di Dio chiamato Giovanni. Annunciava la venuta imminente del Signore per trasformare radicalmente il mondo attuale e invitava i credenti a fare un gesto concreto di preparazione. E precisava che quel gesto non era che una preparazione: dopo di lui un altro, più potente, sarebbe venuto per «battezzare in Spirito Santo e fuoco» (Matteo 3,11).

Arriva Gesù e invece che invocare dal cielo il fuoco divino, domanda di ricevere il battesimo di Giovanni, nonostante lo stupore e l’esitazione di Giovanni (vedi Matteo 3,14).

Ha la certezza che il suo posto è in mezzo agli altri, in una piena solidarietà con coloro che sono coscienti dei loro errori. Ciò significa che Dio non vuole liberarci da una vita non autentica senza prima condividere pienamente quella vita. Lasciandosi sommergere dalle acque, Gesù simbolizza il suo desiderio di andare fin nel più basso della condizione umana per aprirla alla luce di Dio dal suo interno.

Non è sbagliato vedere il nostro battesimo come il gesto attraverso cui il Cristo mette il suo braccio attorno alla nostra spalla e ci prende con sé nello spazio indicato dal suo battesimo. Noi moriamo con lui ad un’esistenza segnata dalla falsa sufficienza e dall’isolamento per entrare in una vita nuova, una vita di comunione (vedi Romani 6,3-6). Insieme a Gesù ascoltiamo il Padre pronunciare queste parole di luce verso di noi: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (Marco 1,11).

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d. Paolo FARINELLA

EPIFANIA DEL SIGNORE – 6 Gennaio 2019

Epifania è nome greco dal verbo «epiphàinō – io manifesto/appaio/rivelo». Con questa festa si conclude il tempo liturgico del Natale iniziato con la Veglia del 24 dicembre. Dal II al III secolo dell’èra cristiana le due memorie, Natale ed Epifania, erano unite in una sola: in tutto l’Oriente, infatti, il 6 gennaio si celebrava una festa generica, detta Epifania manifestazione, che inglobava in una tre eventi riguardanti la persona di Gesù:

– La memoria di Natale, inteso come incarnazione del Lògos.

– La visita dei Magi, letta come convocazione di tutti i popoli non ebrei.

– Il Battesimo di Gesù al Giordano, dove è «rivelato» Figlio di Dio tra i peccatori.

La Chiesa latina, con papa Liberio nel 354, separò le due festività fissando definitivamente il Natale al 25 dicembre, intorno al solstizio d’inverno, mentre fissò l’Epifania al 6 gennaio, cioè dodici giorni dopo. Tra le pieghe vi potrebbe essere la simbologia del numero 12 che indica sia l’Israele dell’alleanza del Sìnai, sia la Chiesa delle genti che ha riconosciuto il Messìa. Dal canto suo, la Chiesa armena (554) e la chiesa ortodossa, fin dal suo nascere (1054) e, ancora oggi, mantengono accorpate le due feste al 6 gennaio come al principio1.

Tra Natale e l’Epifania, infatti, c’è un legame profondo simile a quello che intercorre tra Pasqua e Pentecoste. A Natale prendiamo atto dell’incarnazione del Lògos/Verbo/Parola/Figlio di cui veniamo a conoscere il volto, il nome e la missione. All’Epifania il volto, il nome e la missione acquistano una dimensione universale. A Natale c’è l’Uomo consegnato da Dio all’umanità e quindi è considerato singolarmente nella sua natura; all’Epifania quest’Uomo è visto dalla prospettiva umana che lo riconosce «Dio», venuto con una missione specifica: dichiarare l’amicizia di Dio verso il mondo.

A Natale c’è ancora il rischio del particolarismo e dell’identità giudaica di Gesù che pure resta il sigillo del Lògos per sempre, ma può identificarsi in modo esclusivo, nazionalista, in una cultura e in un movimento di civiltà. All’Epifania questo rischio è scongiurato: il bimbo, nato giudeo da giudei, osservante della Toràh, valica i confini del «particolare» d’Israele e accoglie i Magi che vengono dall’Oriente e che non appartengono alla tradizione ebraica. Come Pasqua è la presa di coscienza della liberazione di Dio e la Pentecoste è la stessa liberazione affidata come missione per tutti i popoli della terra, così a Natale prendiamo atto che Gesù è nato ebreo per sempre e all’Epifania che questa nascita è un progetto di alleanza per tutti i popoli, per tutte le culture e nazioni.

L’Epifania è il superamento definitivo dell’identità cristiana con una civiltà particolare e seppellisce per sempre i tentativi maldestri dei laici devoti o dei religiosi atei che rinchiudono il cristianesimo nella prigione di una cultura o segmento di civiltà, appunto quella occidentale, negandone l’essenza universale e «cattolica».

Assistiamo all’incauto affanno di uomini ecclesiastici che dovrebbero respirare a pieni polmoni l’aria della cattolicità e invece sono rannicchiati nel chiuso orticello della loro piccola esperienza, timorosi di perdere l’identità della cultura occidentale in cui sono nati e cresciuti, dimenticandosi che essi provengono dall’oriente da dove Gesù, l’ebreo per sempre, li ha chiamati a una avventura straordinaria, il regno di Dio. Essi, invece, si sono impantanati con le chiesuole clericali senza anima e vita, dimenticando che l’identità di fede a essi non è data dai «valori» occidentali, ma unicamente dall’essere «immagine e somiglianza» di Dio (Gen 1,27) che assume per sé ogni cultura, religione, movimento, aspirazione per mettere in atto l’inevitabile e ineluttabile pellegrinaggio di unità di tutti i popoli verso il «monte di Isaìa» (cf Is 2,1-4). Costoro non sono mai sfiorati dal dubbio che il Cristianesimo, cui sono così legati da difenderne «i valori», è di cultura semitica prima e greca dopo, per diventare latina e quindi, per ultimo, anche occidentale.

Agli occhi dei popoli africani, asiatici e cinesi ancora oggi il cristianesimo appare come frutto e strumento dell’occidente colonizzatore: dell’Europa e del suo prolungamento oltre oceano cioè gli Stati Uniti e il Canada o le Americhe latine. Il cristianesimo è nato per essere «incarnato» in ogni cultura di qualunque latitudine. Al vangelo di Cristo che non mortifica una civiltà a favore di un’altra si può bene applicare, parafrasando, l’affermazione sublime di Terenzio Afro: sono uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo. Esso, invece, proprio per questo, sa cogliere l’anelito di Dio che c’è in ciascuna cultura e identità di popolo per portarla a compimento oltre i confini del singolo popolo per fare di tutti i popoli il Regno di Dio.

Il racconto dei Magi, venuti dall’estremo oriente, guidati dalla stella, non è storico, ma è un genere letterario teologico, usato da Mt per affermare l’universalità della fede cristiana. Persistere nell’idea d’identificare «la stella» significa restare chiusi nella dimensione «scientista» secondo i criteri e le conoscenze di oggi, incapaci di apertura al mistero che l’ebreo Matteo vuole illustrare ai suoi lettori, cristiani provenienti dall’ebraismo, con i metodi dell’esegesi giudaica.

Nel giorno dell’Epifania i Magi sono il volto di tutti i pagani e di tutte le genti che entrano nell’elezione d’Israele, con gli stessi diritti e doveri del popolo di elezione (cf 1Pt 2,9). Oggi tutti diventiamo eredi delle promesse, tutti diventiamo Israele.

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Il vero messaggio del Natale di Gesù

finché non spunti la stella del nuovo giorno”, di Alberto Maggi

CREATI PER CREARE

Il racconto della creazione, secondo il Libro della Genesi, è scandito per sei volte dalla soddisfazione del Creatore che si compiaceva per quel che stava realizzando. Infatti, di tutto quel che veniva creando, dalla luce, sua prima opera, al bestiame, l’ultima, Dio “vide che era cosa buona” (Gen 1,3.24). Poi, quando “creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò” (Gen 1,27), la soddisfazione del Creatore non si contenne. Questa volta vide che “era cosa molto buona” (Gen 1,31): l’uomo e la donna sono quel che di più bello possa esistere nel creato, per questo Dio “li rivestì di una forza pari alla sua” (Sir 17,3), una meraviglia che fa esclamare stupefatto il salmista: “Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato!” (Sal 8,6).

L’autore della Genesi afferma che Dio creò l’uomo e la donna a sua sembianza (“lo ha fatto immagine della propria natura”, Sap 2,23), ma l’immagine di Dio non può esprimersi in un solo uomo o in una sola donna, perché l’infinito non può manifestarsi in quel che è per sua natura finito; per questo, in ogni uomo che viene al mondo, Dio continuamente vuole manifestarsi in una forma nuova, originale, creativa e comunque mai ripetitiva. Infatti, da quando è apparso il genere umano sulla terra, non c’è mai stato un solo individuo simile all’altro. Ognuno è diverso, appunto perché l’immensità del Creatore non può essere racchiusa o espressa in una sola persona, ma è nella molteplicità degli individui che il Signore si rende presente, affinché “Dio sia tutto in tutti” (1 Cor 15,28). Dio si manifesta in ogni sua creatura, anche in quella considerata la più infima e disprezzata. Per questo, ammonisce il Libro dei Proverbi, “Chi opprime il povero offende il suo Creatore” (Pr 14,31; 17,5).

In ogni uomo, capolavoro della creazione, il Creatore si compiace e non si limita a chiamarlo alla vita, ma lo accompagna, lo guida e lo segue, lo sostiene con un amore persino più grande di quello incondizionato della madre per la propria creatura (“Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”, Is 49,15; Sir 4,11). San Paolo arriva a scrivere persino che Dio “ci ha scelti prima della creazione del mondo” (Ef 1,4). Da sempre il Signore aveva pensato a ognuno di noi per manifestarsi all’umanità e arricchirla con la nostra presenza. Non solo, ma Paolo aggiunge che gli uomini sono stati predestinati “a essere per lui figli adottivi” (Ef 1,5).

L’adozione alla quale si riferisce Paolo è quel sistema giuridico che permetteva all’imperatore romano di scegliere il suo successore al di fuori del proprio ambito familiare, individuato tra i suoi ufficiali, quello più adatto a portare avanti il suo impero veniva adottato come figlio. È quel che è accaduto a Traiano, Adriano e Marco Aurelio, scelti dall’imperatore del tempo.

Essere figli adottivi di Dio vuol dire che il Creatore ha tanta stima, tanta fiducia in ogni sua creatura che la vede adatta a portare avanti con lui la sua azione creatrice, che richiede la collaborazione di tutti per giungere alla sua piena realizzazione (“L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio”, Rm 8,10). “Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco” (Gv 5,17), rispose Gesù ai capi religiosi che gli rimproveravano la trasgressione del comandamento più importante, quello del riposo del sabato (Gv 5,16-18).

La creazione per Gesù non è terminata e richiede la collaborazione di ogni uomo per giungere al suo compimento. La collaborazione al disegno del Padre consente a ogni creatura di liberarsi dall’osservanza della Legge per essere testimone solo dell’Amore, e a Gesù di rivolgersi ai suoi discepoli non come servi, ma come amici (“Vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi”, Gv 15,15). L’attività del Padre consiste nel far giungere a ogni uomo il suo amore e Dio riconosce come figli suoi quanti attivamente manifestano la sua tenerezza per l’umanità.

Ecco allora rivelato il messaggio del Natale di Gesù, che diventa anche quello di ogni uomo che giunge al mondo: siamo creati per creare, si vive per vivificare, si ama per permettere di accogliere l’Amore. Ognuno è chiamato a diventare luce del mondo proprio come Gesù (Mt 5,14; Gv 8,12; 9,5), per illuminare quanti brancolano nelle tenebre e divenire come la stella che guida i magi d’oriente per portarli al bambino di Betlemme (Mt 2,2-10). Dio desidera che “sorga nei cuori la stella del mattino” (2 Pt 1,19) e quanti avranno condotto gli uomini sulla strada dell’amore “risplenderanno come le stelle per sempre” (Dn 12,3).

E’ il senso della scritta che compare nello stemma del vescovo Eugenio Ravignani: “Finché non spunti la luce del nuovo giorno”.

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Don Paolo FARINELLA – 16.12.2018

La gioia innerva tutta la liturgia della Parola per creare il clima dell’attesa che è vicino alla fine. Non ci resta che entrare anche noi in questo atteggiamento e farlo nostro per percorrere l’ultimo tratto di strada che ci porta al Natale.

Il profeta Sofonìa è uno dei profeti più pessimisti della Scrittura. Egli visse durante il Regno di Giosìa (sec. VII a.C.), prima che l’Assìria occupasse Israele e lo deportasse con il primo esilio.

l tempo storico fu forse il periodo di massima decadenza morale: tutto si sfasciava e ognuno pensava a sé. Nel buio senza futuro, all’improvviso, cominciò a profilarsi una speranza: il re Giosìa, uomo retto e pio, mise in atto una grande riforma religiosa e politica passata alla storia come «riforma deuteronòmistica». Volle trasformare il popolo e riformare la religione, perché i riti corrispondessero alla vita. Il libro del Deuteronòmio nacque da questo movimento riformatore.

Il brano di oggi si situa in questo barlume di luce: bisogna gioire e fare festa perché Gerusalemme ha davanti a sé un tempo di prosperità e di pace che nascono dall’autenticità della fede.

Il profeta esplode in un invito che è un urlo di gioia. Il verbo è «chàirōGIOISCO», comunemente usato come saluto ordinario: nella forma imperativa «chàire – gioisci / chàirete – gioite» e assume la forma di saluto amichevole espresso con sentimenti di felicità, con il significato neutro di «salve / benvenuto / saluti».

Luca mette in bocca all’arcangelo Gabrièle lo stesso verbo quando entra nella casa di Maria a Nàzaret per annunciarle la maternità del Figlio di Dio.

E l’evangelista s’ispira proprio a Sofonìa da cui prende in prestito il saluto «Chàire – Gioisci» (Lc 1,26), perché dal contesto si rileva che Maria incarna in sé la Gerusalemme riscattata, la figlia di Sìon redenta.

Il contesto evangelico è lo stesso di quello vissuto dal profeta, per cui il saluto deve essere inteso nello stesso senso: esultanza per una svolta storica radicale.

Andiamo incontro al Signore che viene, sapendo che è lui a venire incontro a noi e a prendersi cura di noi, nutrendoci alla duplice mensa della Parola e del Pane.

Possa lo Spirito guidarci a diventare a nostra volta nutrimento di coloro che incontriamo sulla nostra strada.

Nota biblica: la trasmissione del testo

I vangeli non sono nati come testi di scuola o di studio o di storia. Essi sono «vangelo», cioè un annuncio gioioso5 di una novità racchiusa in un messaggio indirizzato a tutti, specialmente agli esclusi e ai poveri. Chi scrive i vangeli sono persone che credono in ciò che scrivono e quindi da questo punto di vista non sono neutri, semmai «prevenuti». Essi sono già inna-morati di Gesù Cristo e con i loro scritti vogliono indurre altri, oggi vogliono coinvolgere noi, ad innamorarsi di lui. Per questo la Parola di Dio è attuale oggi: nel momento in cui la leggiamo si compie per noi come se fosse proclamata e scritta la prima volta. Noi attribuiamo la stesura dei vangeli ad alcune persone (Mt, Mc, Lc, Gv) e diciamo che Mc fu discepolo di Paolo e di Pietro, che Lc fu discepolo di Paolo, che Matteo e Giovanni invece furono testimoni diretti in quanto apostoli.

Bisogna prestare attenzione all’uso delle parole, specialmente quando riguarda la Bibbia. Si sente spesso tradurre il termine «vangelo» con «buona novella», senza rendersi conto che chi usa questa espressione contribuisce anche suo malgrado a diffondere la «notizia» che il vangelo sia una favola per bambini. In italiano il termine «novella», al suo sorgere nel Duecen-to, aveva ancora il carattere di narrativa breve realistica, mentre oggi dal Novecento in poi, ha allargato i confini narrativi, di «racconto», tanto che è difficile distinguervi i diversi filoni che vanno dalla memoria agli appunti, alla satira di costume, al racconto fantascientifico. Il «vangelo» non è una «novella», ma è «la notizia gioiosa/che porta gioia» per il contenuto di ciò che annuncia e per chi lo annuncia. Mc 1,1 infatti, grammaticalmente può essere tradotto così: «Principio del Vangelo, cioè Gesù Cristo, cioè Figlio di Dio».

Facciamo fatica a capire che gli antichi avevano metodi e criteri di scrivere diversi dai nostri per cui un cristiano non dovrebbe spaventarsi se affermiamo che non sappiamo chi siano gli autori materiali dei vangeli, perché questi testi sono frutto di un lungo processo di maturazione, quasi mai redatti da singole persone e quasi sempre opere di comunità vive. In un secondo tempo questi scritti, sviluppati all’interno di singole comunità, furono attribuiti a personaggi che probabilmente furono determinanti in quelle stesse comunità o come predicatori o come figure carismatiche. I vangeli quindi sono scritti o strumenti di catechesi, usati per la formazione. Sono scritti «prevenuti» di autori «prevenuti» che credono in ciò/Colui che annunciano.

Di Lc sappiamo poco, ma questo poco che sappiamo è molto. Egli scrive un vangelo non cronologico e lui stesso afferma di avere fatto delle ricerche, dal momento che riporta notizie e fatti sconosciuti agli altri autori. Lc raccoglie tradizioni diverse e molte sono in comune con Mt e Mc. Quando possiede tutto il materiale lo riordina secondo un suo schema catechistico, probabilmente in uso nelle comunità da lui frequentate. Al tempo di Lc che scrive nella 2a metà avanzata del sec. I d.C., non interessava la questione del Gesù «storico»: dove, come quando nacque, visse, operò, morì, ecc. perché l’interesse delle comunità, degli apostoli e dei predicatori era suscitare la «fede» in lui, uomo ebreo che essi conobbero, con cui vissero e che credono essere «Figlio di Dio».

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Da don Paolo FARINELLA, 9 dicembre 2018

Se dovessimo sintetizzare questa 2° Domenica di Avvento – C potremmo usare il binomio «speranza e mistero».

La prima lettura descrive le condizioni dei dispersi: ieri i deportati ebrei a Babilonia, oggi i cristiani disseminati nel mondo intero che portano dentro questa loro condizione: essere pellegrini e stranieri sulla terra.

Il cristiano è «disperso» per vocazione, non solo perché la sua città è la cattolicità nel senso etimologico di universalità, ma è «disperso» in modo particolare nel mondo di oggi in cui tutto contrasta con la logica e le esigenze del vangelo.

Il mondo non è cristiano. I cristiani sono un piccolo sparuto numero disperso ai quattro angoli della terra e dovrebbero svolgere la funzione del sale e del lievito (Lc 12,32; Mt 5,13).

Nota di teologia biblica.

Nella Bibbia Dio è attento al grido del povero, sta dalla parte degli indifesi e si fa carico del diritto di giustizia dell’orfano e della vedova. Essi sono spesso contrapposti ai malvagi, agli empi e agli orgogliosi che, disprezzando il Signore, li opprimono con violenza.

Nel NT Gesù realizza, «compie», queste aspettative (cf Lc 4,16-21), diventando egli stesso modello di una povertà assoluta e radicale (cf Lc 2,4-7; Mt 8,20), non solo perché vive profondamente il distacco dai beni terreni, ma perché egli è il «Povero di Yhwh» per eccellenza, in tutto abbandonato completamente all’amore del Padre (cf Fil 2,5ss).

Non è un caso che la prima condizione che egli pone per partecipare al «Regno di Dio» sia la povertà, che ha la forza e la dignità della prima beatitudine. Gesù proclama beati i poveri stabilendo una dimensione essenziale e diretta tra il Regno di Dio e la povertà.

La maggior parte dei cristiani non sempre riesce ad essere lievito, perché non ha coscienza della fede come dimensione di vita, ma si adagia in una religiosità conformista, di tradizione, drogandosi con l’allucinogeno della civiltà cristiana senza rendersi conto della contraddizione in termini: il Cristianesimo non può identificarsi con alcuna civiltà perché nel momento in cui lo facesse, escluderebbe tutte le altre dalla sua missione.

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d. Paolo FARINELLA_25.11.18

Gli Ebrei, fin dal monte Sinai con il contratto di alleanza, avevano accettato la regalità di Dio su di loro codificata nella Toràh. Questa regalità era esercitata per delega: da Mosè, nel deserto, dai Giudici dopo l’insediamento in Palestina, dai re d’Israele in epoca sedentaria, ma nessuno ha mai messo in discussione la supremazia di Dio su Israele che anzi si considera «proprietà» del Signore (Es 19,5; Gl 4,2).

Avviene un fatto nuovo. Alla domanda di Pilato se deve crocifiggere «il vostro re», i Giudei rispondono: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,15). È un momento drammatico: Israele rinnega l’alleanza del Sinai, abdica dalla regalità di Dio e cessa di essere la «proprietà» che Dio aveva trapiantato dall’Egitto (cf Sal 80/79,9). Non ha più Dio come re, avendo scelto come suo sovrano l’imperatore romano, l’oppressore che si fa anche onorare come divinità. È la piena e totale apostasia che si consuma nell’idolatria. I capi degli Ebrei accusano Gesù di usurpare il titolo regale che spetta al loro «dio» che è Cesare, e infatti si aspettano che il procuratore Pilato difenda i diritti dell’imperatore (cf Lc 23,2) e condanni Gesù per lesa maestà.

La regalità di Cristo, proprio perché estranea alla nostra cultura, è un argomento da usare con prudenza. Il rischio, infatti, di usarla ideologicamente, com’è avvenuto e come avviene in certi settori tradizionalisti della Chiesa, per giustificare scelte clericali e/o politiche di natura mondana in compromesso o in contrapposizione ai regni degli uomini, è reale e sempre in agguato. Con l’avvallo della gerarchia, crescono movimenti e gruppi che vogliono riportare la Chiesa indietro nell’orologio della storia.

I movimenti e gruppi contrari al Vaticano II sono inevitabilmente alleati o sostenitori dei «teo-con» di turno alla ricerca di alleanze incestuose, perché credono che la regalità di Gesù si traduca in imposizione di leggi etiche e anche sociali attraverso la collaborazione di governi accondiscendenti.

L’espressione «teo-con» traduce l’inglese «theocon», composta di theo- «teo-» e con(-servative) «conservatore», con cui s’identifica chi negli Stati Uniti d’America, ispirandosi genericamente a orientamenti cristiani integralisti, quasi sempre desunti da una lettura letterale fondamentalista della Bibbia, rappresenta posizioni radicalmente conservatrici. In Italia con «teo-con» s’indicano generalmente politici di destra che per opportunismo o interesse elettorale o economico sposano temi e tesi della parte più retriva del mondo cattolico.

Un sinonimo alternativo, ma equivalente, è «teodèm» (teo-democratici). Questo linguaggio appartiene al mondo dei ricchi che non vogliono cambiare né stile di vita né strumenti economici, né tanto meno vogliono sentir parlare di redistribuzione della ricchezza secondo giustizia. Per questi neo-pagani l’unica giustizia è il loro tornaconto e l’accumulo della ricchezza senza limiti. Il concetto che sta alla base della loro visione di vita è il fatalismo funzionale: se uno nasce ricco o povero è un segno di Dio e non bisogna ribellarsi allo stato di vita in cui uno si trova. Compito della Chiesa è semplicemente di richiamare i ricchi al loro dovere di «compassione» verso i poveri di cui bisogna farsi carico attraverso apposite istituzioni caritatevoli: i poveri, visto che non è possibile eliminarli, diventano necessari per aiutare i ricchi a salvarsi con un po’ di elemosina nelle grandi occasioni o nelle feste in cui si può essere riveriti e visti. Senza poveri, il mondo sarebbe più povero, perché i ricchi non saprebbero a chi fare l’elemosina o non potrebbero organizzare beneficenze.

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Beati gli operatori di pace

Scritto da Ivo Muser, Vescovo della Diocesi di Bolzano-Bressanone

Venerdì 02 Novembre 2018 19:14

In occasione della conclusione, 100 anni fa, della prima guerra mondiale, il vescovo diocesano Ivo Muser della Diocesi di Bolzano-Bressanone, ha pubblicato una lettera pastorale molto forte,”Beati gli operatori di pace” che condividiamo come ulteriore contributo per riflettere e prendere le distanze da certi nostalgici trionfalismi.

Care sorelle, cari fratelli della nostra diocesi di Bolzano-Bressanone!

Cento anni fa, nel periodo attorno ad Ognissanti e al Giorno dei defunti, si concludeva una guerra spaventosa. Deve colpirci e indurci a riflettere il fatto che in questo incendio di vaste proporzioni che chiamiamo Prima guerra mondiale si fronteggiarono soprattutto cristiani e nazioni che con naturalezza si dicevano “cristiane“.

La guerra fu voluta da molti

“Dio onnipotente, re del cielo e della terra, re delle schiere della guerra e sostegno del mondo, benedici con il tuo sangue innocente le armi imperiali … Conserva i combattenti nella loro fedeltà incrollabile e guidali in battaglie colme di fiducia sino alla felice vittoria!” Questa preghiera per i soldati fu pronunciata da un mio predecessore, il principe vescovo Franz Egger di Bressanone. Già nella sua lettera pastorale del 30 luglio 1914, quindi due giorni dopo l‘inizio ufficiale della guerra, scriveva: “Se mai c’è stata una guerra giusta, allora è sicuramente quella attuale.”

Mentre papa Benedetto XV con perseveranza esortava alla pace e definiva questa guerra “inutile strage“, un suicidio dell’Europa civilizzata, l’entusiasmo bellico contagiò ampie parti non solo d’Europa ma anche della nostra popolazione. La guerra non scoppiò inaspettata, bensì fu preparata a lungo nelle menti, nella politica, nella cultura e nella scienza, nell’economia e anche nella religione. Questo conflitto – oggi dobbiamo ammetterlo con onestà – fu voluto da molti e quasi comunemente definito “una guerra santa“, talvolta anche un “giudizio divino“ nei confronti di quanti erano considerati nemici della fede e della patria.

Umiltà e compito

Nel ricordare gli eventi di 100 anni fa non si tratta di volgersi all’indietro in modo altezzoso e saccente o di trascinare con presunzione gli uomini di allora davanti al tribunale del presente.

Noi ricordiamo con riflessione e turbamento quel periodo della nostra storia per costruire ponti di pace. È prioritario, alla luce della catastrofe e delle conseguenze di ampia portata che ha causato, rinnovare l’apertura alla volontà di pace e imparare una volta per tutte che il linguaggio della guerra non può in nessun modo rappresentare per noi un’alternativa o un’opzione.

Il ricordo comune degli orrori e delle crudeltà del conflitto vuole collocare questo monito in profondità nei nostri cuori: la pace va voluta e cercata, la pace ha bisogno di essere curata e accompagnata in modo vigile, affinché non venga sacrificata per presunti interessi superiori. La memoria e la riflessione servono a mantenere vivo il ricordo: per amore della pace, per amore della dignità umana, per amore del nostro futuro comune.

Davanti alle infinite sofferenze che le guerre, senza eccezione, sempre provocano, non possiamo permetterci di mettere in gioco la pace gettando benzina sul fuoco dei conflitti. È fondato e necessario rammentare la storia – con le sue ingiustizie, le sue ferite e le sue cicatrici – ma senza abusarne per legittimare con nuovi atti ingiusti i torti commessi.

Le radici di questa guerra

La Grande Guerra ha provocato un dolore umano indicibile e la morte di milioni di persone.

Le grandi catastrofi del XX secolo vanno messe in relazione a questa tragedia, non ultimo anche l‘enorme numero di vittime nella Seconda guerra mondiale. L’ascesa e la presa del potere del fascismo in Italia non sarebbe concepibile senza la prima contesa bellica, tantomeno la Rivoluzione d’ottobre dei bolscevichi e la conseguente guerra civile russa, che inghiottì milioni di vite umane. Anche il nazionalsocialismo e la sua ideologia del disprezzo e dell’annientamento della persona, con il conseguente orribile piano di sterminio degli ebrei, trovano nel Primo conflitto mondiale le loro radici.

Nel fare memoria di questa catastrofe primigenia del XX secolo dobbiamo dare un nome alle radici della guerra: come il nazionalismo, diventato un surrogato della religione; l’odio, il disprezzo e l‘arroganza verso altri popoli; la pretesa ingiustificata di potere assoluto su vita e morte, ma anche la brama di ricchezza e di conquista. Allora come oggi la pace viene minacciata da massicci deficit di giustizia e violazioni dei diritti umani. Particolarmente pericolose sono anche la glorificazione e la giustificazione della violenza: un chiaro e forte no deve attraversare tutta la nostra società, quando gruppi di persone sono sospettati in modo generico o quando si invita a ripulire la nostra terra da determinate categorie di persone.

L’accusa con cui ha dovuto confrontarsi Pietro durante il processo a Gesù resta sempre attuale: “La tua parlata ti tradisce“ (cfr. Mt 26,73).

Nessuna guerra è una vittoria

In questi giorni in cui si ricorda, si riflette e si commemora, nessuno dovrebbe parlare di vittoria.

I monumenti di ogni genere inneggianti alla vittoria, che rimandano a dittature e guerre, dovrebbero perdere la loro forza di attrazione una volta per tutte. Sarebbe un segno concreto e lungimirante se la piazza davanti al monumento alla Vittoria a Bolzano fosse rinominata in piazza dedicata alla pace, alla riconciliazione, alla comprensione, alla volontà di convivenza!

Non si chiamano vittorie quelle che si raggiungono attraverso guerra, nazionalismo, disprezzo di altri popoli, lingue e culture. Alla fine di una guerra ci sono sempre e solo sconfitti!

In un discorso tenuto a Gorizia, in una città dove anche la “piazza grande” ha visto il nome cambiato in “piazza vittoria”, nel 1966 il poeta italiano Giuseppe Ungaretti che qui aveva combattuto nella Prima guerra mondiale, diceva: “Il nome di Gorizia non era il nome di una vittoria, non esistono vittorie sulla terra se non per illusione sacrilega, ma il nome di una comune sofferenza, la nostra e quella di chi ci stava di fronte e che dicevamo il nemico, ma che noi, pure facendo senza viltà il nostro cieco dovere, chiamavamo nel nostro cuore fratello”.

Un ricordo ripulito significa liberarsi della vecchia immagine del nemico e dei metodi usati per costruirla e giustificarla. Un ricordo riconciliato significa manifestare la volontà politica che fa diventare partner e amici i nemici di un tempo.

I cristiani hanno il compito di gestire il futuro operando per la pace. Come cristiani e come comunità cristiana siamo chiamati a non lasciare soli i responsabili politici, ma a stimolarli e incoraggiarli a prendere decisioni al servizio della pace e del bene comune.

Ponti per la pace

La Prima guerra mondiale ha prodotto conseguenze di vasta portata per la nostra terra: il Sudtirolo assegnato all’Italia; il Tirolo separato e diviso fra due Stati; l’antica Diocesi di Bressanone attraversata da un confine nazionale. Con l’ideologia fascista arrivarono i dolorosi divieti negli ambiti della lingua, della scuola, della cultura, dell’associazionismo. Iniziò una voluta e forzata alienazione dell’area culturale tirolese vecchia di secoli. Per molti abitanti i successivi decenni furono segnati dalle sofferenze provocate dalle due dittature del fascismo e del nazionalsocialismo, dal funesto periodo delle Opzioni e dalla Seconda guerra mondiale.

Oggi sta a noi mantenere aperte le frontiere e fare in modo che possa crescere assieme ciò che è strettamente collegato: nei cuori e nelle menti, grazie alle molte occasioni e possibilità che ci sono offerte in un’Europa riconciliata, unita e con Regioni forti.

Invito a gestire la nostra vita e la nostra convivenza da uomini e donne di pace: non volgendo il pensiero al passato, ma con un comune sguardo rivolto al futuro! Auspico che ci sia donata la volontà di perseguire con decisione l’unità nella diversità: qui e in un’Europa comune, dove diverse culture, lingue e confessioni religiose si incontrano e si impreziosiscono reciprocamente.

Invito a riscoprire la nostra identità cristiana e a curarla in un dialogo rispettoso con le altre identità: non tutto ciò che oggi si richiama al Cristianesimo è anche improntato al Cristianesimo.

E invito a plasmare la nostra convivenza con la ferma volontà di trarre insegnamento dalla dolorosa storia del XX secolo, che ha molto ferito e segnato anche la nostra terra.

Oggi abbiamo bisogno di segni concreti che sappiano unirci e riconciliarci, che ci aiutino a comprendere assieme la storia, a rammentare, a interpretare e a perdonare. Ogni parte ha avuto vittime e colpevoli!

Tutti noi possiamo compiere semplici azioni di pace, iniziando dall’impegno a conoscere gli “altri“: che sia il proprio vicino o la propria vicina, una persona appartenente a un altro gruppo linguistico, il migrante con la sua storia e le sue speranze. Conoscere veramente l’altro costruisce un ponte per la pace.

Non dimenticare

Non dimentichiamo mai: la guerra non ha inizio sui campi di battaglia, ma nei pensieri, nei sentimenti e nelle parole delle persone. I nostri pensieri non sono mai neutrali e il nostro linguaggio ci tradisce sempre. C’è una stretta correlazione tra pensare, parlare e agire, cent’anni fa e anche oggi.

Non dimentichiamo poi le migliaia di giovani, anche della nostra terra, mandati al massacro.

Sono un monito a lavorare per concreti progetti di pace. L’auspicio è che siano soprattutto i nostri giovani a costruire assieme il loro presente e il loro futuro. Conoscendo i tragici eventi di cento anni fa e visitando gli scenari bellici dove ragazzi come loro si sono fronteggiati e uccisi in una guerra assurda, possono capire che la pace non è una cosa scontata ma va voluta e costruita giorno per giorno.

Lasciamoci colpire – sul piano strettamente personale ma anche come comunità di credenti – dalle beatitudini di Gesù nel discorso della montagna, che nella festa di Ognissanti viene proclamato in tutte le chiese cattoliche del mondo: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio“ (Mt 5,9). 

Il Vostro vescovo, + Ivo Muser

Solennità di Ognissanti, 1° novembre 2018

 NB: Invito a presentare e approfondire questa lettera pastorale durante le celebrazioni religiose nella festa di Ognissanti o in una domenica di novembre.

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d. Paolo FARINELLA_21 ottobre 2018

Una delle piaghe più gravi che deturpa il volto della Chiesa «casta», rendendola «meretrix» è la sete di carriera del personale ecclesiastico, ovvero il vitello d’oro che inquina il pozzo dell’acqua della Parola di Dio, deturpa l’attesa di Cristo e allontana uomini e donne dall’incontro con il Signore.

Una Chiesa che distribuisce titoli onorifici a piccoli uomini malati, che fanno finta di essere umili, ma intimamente godono del riconoscimento mondano per il quale erano disposti a dare anche la vita, sono gli impiegati di una chiesa mondana che offusca il volto di Cristo e lo rende inavvicinabile. Chi aspira a un titolo ecclesiastico arrivando fino a manipolare, anche pagando tangenti per averlo, e chi lavora alacremente per un posto…, ben visibile, nella vigna del Signore è un disadattato, affettivamente è un immaturo con una sessualità disturbata o non risolta; tutto ciò prima o poi viene fuori, perché «sotto il vestito … niente».…… Chi cerca la carriera, è disposto, ovunque e comunque, a vendersi al migliore offerente.

A margine delle cronache su continui casi di pedofilia tra il clero, il card. Severino Poletto, arcivescovo di Torino, si lasciò andare esprimendo una riflessione sul rischio che i seminari diventassero «cliniche», non di recupero, ma luoghi dove si rifugiano giovani con difficoltà d’inserimento nel mondo. Egli si preoccupava che falliti o delusi potessero diventare vescovi e cardinali. (la Repubblica, venerdì 29 settembre 2006, p. 37).

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p. José María CASTILLO_21 ottobre 2018

  1. Il problema fondamentale posto da questo vangelo non è il rifiuto della superbia, ma il rifiuto del potere. Perché i discepoli comprendano quello che il Vangelo chiede loro, Gesù, come esempio di quello che bisogna evitare, non fa l’esempio degli orgogliosi, ma quello dei potenti. Tuttavia, di fatto nella Chiesa si è inteso e giustificato il “ministero apostolico” come “sacerdozio” dotato di “potere” (Trento, sessione 23, DH 1764, 1771) e come “episcopato” dotato di “piena e suprema potestà” (Vaticano II, LG 22).

Il problema che ha la Chiesa con il Vangelo non sta nel possibile orgoglio, nella vanità o nella superbia, che possono avere alcuni dei suoi membri, ma nel potere che il “ministero apostolico” esercita sugli altri cattolici.

  1. Nel dire questo, non si tratta di affermare che nella Chiesa non ci devono essere presbiteri, vescovi e papa. Il problema non sta nell’esistenza del potere, ma nell’esercizio di questo potere. Gesù non vuole che gli apostoli (ed i loro successori o collaboratori) esercitino il potere come lo esercitano i capi politici. Tuttavia, è scioccante il fatto che il testo evangelico, nel quale Gesù proibisce questo in maniera perentoria (Mc 10,43; Mt 20,26), non si cita neanche una volta nei documenti principali del Magistero della Chiesa (DH, pp. 1583 ss). È inevitabile pensare allora che il magistero ecclesiastico ha scelto dal Vangelo quello che ha giustificato il suo modo di esercitare il potere.

  2. I documenti ecclesiastici sul potere nella Chiesa non sono l’ultima parola su questa questione. La Chiesa ha il diritto ed il dovere di continuare a cercare il modo di esercitare il potere che sia coerente con il Vangelo. Un potere mai basato sulla sottomissione incondizionata di alcuni (i laici) ad altri (presbiteri, vescovi, papa), ma sulla sequela di Gesù, il Signore.

È urgente che la Chiesa offra a questo mondo, caratterizzato da tanti poteri oppressori, un altro modello di esercitare l’autorità.

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Approdi e naufragi

IMPARIAMO DAL NAUFRAGIO DI GIONA 

10 SETTEMBRE 2018 

Relazione tenuta da Raniero La Valle l’8-9 settembre 2018, sul tema. “Approdi e naufragi”

Avevano creduto di salvarsi abbandonando il profeta Giona naufrago tra i flutti, ma la cosa non finì lì: se Ninive non avesse cambiato vita e il suo re non si fosse ravveduto, la città sarebbe stata distrutta. Si illude chi pensa di salvarsi e di “difendere i confini” respingendo i profughi negli abissi del mare o riconsegnandoli ai carnefici. Un intervento al convegno di “L’altra pagina”, l’8 settembre 2018………………………

Città di Castello, 8 settembre 2018

Un discorso sui migranti dovrebbe cominciare con le statistiche. Dovrebbe dire per esempio che nel 2016 cinquemila sono stati i morti nel Mediterraneo, in media 14 al giorno: è la cifra più alta perché nel 2015 i morti erano stati 3771, mentre nel 2017 le vittime sono state 3081.

Dovrebbe poi dire che dal 1 gennaio al 22 giugno 2018 i migranti sbarcati in Italia sono stati solo 16.316, e che in Italia ci sono solo 2,4 rifugiati ogni 1000 abitanti, che è tra le percentuali più basse in Europa.

Un discorso sui migranti dovrebbe dire che nel 2017 ci sono stati 68 milioni e cinquecentomila persone vaganti e costrette alle fuga. I richiedenti asilo che all’inizio dell’anno scorso erano in attesa di una decisione sulla loro richiesta di protezione erano 3 milioni centomila. .

Un discorso sui migranti dovrebbe dire che la maggior parte delle persone in fuga sono giovani, nel 53 per cento dei casi sono minori, molti dei quali non accompagnati o separati dalle loro famiglie.

Dovrebbe dire che entro il 2050 si prevede che ci saranno nel mondo 250 milioni di migranti ambientali ed esuli che fuggono da guerre e repressioni.

Però un discorso sui migranti non si può fare sui numeri. Le persone non sono numeri. I 150 naufraghi che il governo italiano si è rifiutato per giorni e giorni di far sbarcare a Catania dalla motonave Diciotti rappresentano una tragedia morale e politica più grave rispetto ai 3000 naufraghi scomparsi in mare senza che nessuno potesse dar loro soccorso..

D’altronde ci sono altri numeri non meno agghiaccianti di quelli che riguardano i profughi: per esempio i numeri che denunciano l’orrore di un fenomeno che credevamo scomparso, la schiavitù. Nel mondo ci sono 45 milioni e 800.000 schiavi; 18 milioni 300.000 solo in India, ma alcune stime parlano di 200 milioni di persone che nel mondo sono in condizioni di schiavitù, nonostante la sua abolizione ufficiale. Anche l’Europa non ne è esente, in Italia si calcola che ce ne siano 128.000, per molti si parla di nuove schiavitù, come quella della tratta degli esseri umani, dello sfruttamento sessuale di donne e bambine considerate come oggetto di proprietà, della vendita di organi. E poi ci sono i numeri spaventosi di tutte le guerre, dal mezzo milione di morti della guerra irachena ai 350.000 della guerra siriana, alle innumerevoli vittime della guerra mondiale a pezzi che, come dice il papa, abbraccia di fatto tutto il mondo……………….

Ci sono statistiche peggiori di quelle che riguardano i migranti.

C’è una ragione per la quale i numeri che riguardano i migranti  sono oggi più importanti di tutti gli altri numeri. Perché sono i numeri di un fenomeno che segnala e causa un passaggio d’epoca. Le grandi migrazioni in corso ci dicono che stiamo passando da una a un’altra età del mondo, che siamo nel pieno di una discontinuità storica. È come se stessimo scoprendo un’altra volta che la terra è tonda, e tutto dipende da come vi reagiremo, così come tutto dipese da come si reagì alla scoperta dell’America. È su come rispondere a questa novità dirompente che massimamente sono chiamate in causa la nostra etica, la nostra cultura, la nostra politica, il nostro diritto, cioè la nostra capacità di stare al mondo e di dare un ordine al mondo. Naturalmente è chiamata in causa anche la nostra fede; ma io oso sperare che la nostra fede la risposta ce l’abbia e che anzi, con papa Francesco, questa risposta l’abbia già data….

Il discorso sui migranti … non può essere il calcolo di quanti ne potremmo accogliere perché facciano loro i lavori che ci servono o di quanti addirittura ne avremmo bisogno in Italia e in Europa per compensare il nostro deficit demografico, il nostro egoismo procreativo; un modo utilitaristico e usuraio di affrontare il problema…. Vorrei invece parlare dei migranti come del kairós, del tempo che viene. E prima di parlare degli approdi, che del resto sono negati, dobbiamo parlare dei naufragi.

Per farlo io vorrei risalire dai naufragi di oggi a un altro naufragio, che è un po’ il prototipo dei naufragi nel Mediterraneo, è un po’ il naufragio fondatore della storia del Mediterraneo….Il naufragio fondatore è quello di Giona, il profeta. Come sapete dal racconto biblico la sua presenza sulla nave che da Giaffa andava a Tarsis è causa di una grande tempesta, e allora i marinai per salvarsi lo gettano  a mare, e lì nel cuore del mare le acque lo sommergono, l’abisso lo avvolge, l’alga si avvince al suo capo, la terra chiude le sue spranghe dietro di lui, e nel contempo il mare placa la sua furia. Col naufragio di Giona sembra che tutto sia finito; i marinai che lo hanno gettato in mare sono in salvo, e così anche la nave, il Mediterraneo è ritornato calmo, le terre che lo circondano sono al sicuro, mentre il naufrago è scomparso, inghiottito dai flutti, non darà più fastidio e pena a nessuno!

È un po’ quello che pensiamo noi, che pensa l’Europa, quando i barconi dei profughi  spariscono dai radar, non importa dove siano andati a finire, tanto sono numeri, ma di morti, di dispersi o di respinti, di deportati, lì dove non vorrebbero andare. Ma così non è, non tutto è finito! Giona, inghiottito da un pesce, è da questo rigettato sull’asciutto e torna a  incombere sul futuro come una partita che non si è chiusa. Infatti il pericolo rappresentato da Giona diventa ancora maggiore di quello di prima,  perché si volgerà contro la grande città che troneggia sulla terraferma a cui egli annunzierà addirittura la distruzione….. Questo apologo può aiutarci a capire la situazione in cui siamo.

Siamo in una situazione di naufragio. Ma il naufragio non è principalmente quello dei migranti. È anche il nostro naufragio. Quando a livello di governo, col favore dell’opinione pubblica monitorato dai sondaggi, si arriva a concepire una sorta di Guantanamo italiana, e si tengono prigionieri 150 naufraghi su un nave militare italiana nel porto di Catania, questo è un naufragio.

È il naufragio della comune umanità; ma è anche il naufragio della Costituzione italiana, che all’art. 13 dice che la libertà personale è inviolabile, che nessuno può coartarla se non un giudice e secondo la legge, e questo vale non solo per i cittadini ma per tutti, né possono esistere nel nostro ordinamento zone franche dal diritto….

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Ernesto Balducci – dalle Omelie inedite anno B

Anche nella sua forma redazionale questo racconto rivela il suo valore simbolico, tanto è vero che questo gesto viene ripetuto nel rito del sacramento del Battesimo, perchéla fede fa parlare i muti e fa udire i sordi”.

Perché ai bambini piacciono tanto le fiabe? La risposta che mi do è che mentre i bambini crescono e cominciano a capire quello che si può dire e quello che non si può dire, quello che si può ascoltare e quello che non si può ascoltare, quello che è giusto aspettarsi dalla vita e quello che è stupido aspettarsi dalla vita, la fiaba crea un mondo consolatorio. Nelle fiabe tutto è possibile!

Un bambino che legge una fiaba in una catapecchia sa che una fata con un colpo di bacchetta può far nascere un palazzo di cristallo, là dove ci sono le pietre può venir fuori un torrente fresco d’acqua. Gli uccelli parlano, gli animali parlano come uomini. Accanto a un mondo, dove il tirocinio della vita ci abitua a reprimere i pensieri impossibili, c’è un mondo dove l’impossibile è normale. E così ci consoliamo….

C’è chi dice che anche la fede è una fiaba e, da un punto di vista meramente antropologico, ha anche ragione. Se io parlo di vita eterna, di risurrezione, che dico? Sono forse cose normalmente possibili? No! Però non è chiusa la questione fra il possibile e l’impossibile quando si è fatta la distinzione su cui si basa il nostro processo di maturazione. È che dentro di noi diventiamo pian piano muti, cioè non siamo più capaci di dire quelle cose, perché ci hanno insegnato che non si devono dire. Dentro di noi abbiamo allora un mondo represso. E quindi di fronte a certi orizzonti anche noi siamo sordi e muti. È vero: certe persone non sanno più ascoltare un canto di uccelli, non sanno guardare un fiore. L’efficienza implica la distruzione di tutto ciò che è gratuito, di tutto ciò che è libero….

Ebbene, se uno riuscisse a dar voce libera a tutti i sogni più legittimi che sono contratti nel cuore, chi sarebbe? Sarebbe un profeta. I profeti sono quelli che han dato libera voce a ciò che nell’uomo normale resta represso. Isaia è uno di questi. Isaia parla di un tempo in cui gli Zoppi salteranno come cervi, i muti grideranno di gioia, dal deserto verranno fuori le acque“. In quel mondo arcaico queste sono cose che davvero coincidevano con i sogni veri della gente. Il profeta dà libero sfogo a queste aspettative e lo fa chiamando in causa Dio. La sua forza è che come garante ha Dio stesso. Il profeta afferma che questo tempo non è un tempo che verrà chissà quando, è già presente dentro di noi. Questo oggi di Dio, questo tempo che non si dipana in passato, presente e futuro, in cui è l’adempimento di tutte le attese, è dentro di noi come un germe e noi possiamo e dobbiamo fare fruttificare. Il problema vero è che queste possibilità si realizzino nel nostro mondo.

Però è pericoloso avere questi sogni? Quanti sogni di un cambiamento del mondo da cui nascono le rivoluzioni, quante masse hanno marciato dietro le bandiere aspettando il sole dell’avvenire!

Se cade un sogno, la gente è scoraggiata, è desolata. In questo nostro tempo è immensa la desolazione; ci sono molti scoraggiati che non credono più ad un possibile cambiamento del mondo. Qualcuno si adatta, con rapido riciclaggio, e ne vediamo tanti. Anche nel semplice arco della memoria io ne conosco tanti che venti/trent’anni fa aspettavano un mondo diverso e adesso sono ormai tutti tranquilli. Altri, molti, sono scoraggiati. Non possiamo rinunciare, pena la nostra dignità![]

Che compito ha una comunità cristiana? Se la comunità cristiana non fa che ratificare l’ordine esistente, cioè il mondo com’è, e sacralizzandolo lo introduce al suo interno, ha già contraddetto la sua ragion d’essere, perché la comunità deve testimoniare che è possibile ciò che i profeti dicono….La comunità non è uno spazio sacro dove si fanno i giochi profetici, è il momento in cui si prende coscienza di ciò che deve essere la comunità umana. La nostra deve essere una forma di esistenza che diffonde queste aspettative nella comunità degli uomini, che è la nostra casa…

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p. Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – vol. 2:

A proposito della Lettera di S. Paolo agli Efesini:

L’amore tra l’uomo e la donna implica un reciproco, totale abbandono, perché quando è amore è così.

Ma quando è amore? L’amore è una possibilità, non una realtà, se non rarissima; ma l’amore nella sua pienezza è un totale abbandono. Non è una ricerca di sé, da tutelare di fronte all’altro, ma una totale abdicazione a sé, che è stoltezza se non ci si colloca a questo livello, senza la preoccupazione di sapere che cosa mi darà quell’altro.

L’amore è un «sacramento di Dio» in questo senso, perché la verità ultima, quando voi avete tolto il cumulo delle verità parziali e siete arrivati in fondo e vedete splendere questo grammo d’oro, è l’abbandono totale in nome dell’amore. Questo è il polo della fede che dunque non ha niente a che fare con le compattezze sociali, con la religione sociologica, col «Dio con noi», «il nostro Dio è più grande del vostro», «Roma o Mosca». Queste sono tutte stoltezze carnali. Noi ci collochiamo al livello del mistero di Dio e del mistero dell’uomo quando scendiamo qui, dov’è il baricentro.

E se devo consigliare una via della verità dell’esistere è questa l’indicazione che do: il senso ultimo dell’ esistere è in questa capacità di abbandonarsi, ma non con una specie di auto-annichilimento, ma con la certezza che questo abbandono rientra nell’onda dell’ultima verità di tutte le cose che è, per un verso, un annientamento e per l’altro un altro modo di essere: la nuova creazione, quella dell’amore. Tenete presenti questi due poli.

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Simone Weil:

Confessione di fede

Io credo in Dio, nella Trinità, nell’Incarnazione, nella Redenzione, nell’Eucarestia, negli insegnamenti dell’Evangelo. Credo, ovvero non faccio mio quanto la Chiesa dice al riguardo per affermarlo come si affermano dati dell’esperienza o teoremi di geometria, ma aderisco con l’amore alla verità perfetta, inafferrabile, racchiusa in tali misteri, e cerco di aprirle la mia anima affinché la sua luce possa penetrare in me.

Non riconosco alla Chiesa alcun diritto di limitare le operazioni dell’intelligenza o le illuminazioni dell’amore nell’ambito del pensiero. Le riconosco la missione, in quanto depositaria dei sacramenti e custode dei testi sacri, di formulare decisioni su alcuni punti essenziali, ma soltanto a titolo di indicazioni per i fedeli. Non le riconosco il diritto d’imporre i commenti di cui circonda i misteri della fede come se fossero verità; e ancor meno il diritto di usare la minaccia e il timore esercitando, per imporli, il suo potere di privare dei sacramenti.

Per me, nello sforzo della riflessione, un disaccordo apparente o reale con l’insegnamento della Chiesa è soltanto motivo di sospendere a lungo il pensiero, di spingere il più lontano possibile l’indagine, l’attenzione e lo scrupolo, prima di osare affermare qualcosa. Ma è tutto. Detto questo, io medito su ogni problema relativo allo studio comparato delle religioni, sulla loro storia, sulla verità contenuta in ciascuna di esse, sui rapporti della religione con le forme profane della ricerca della verità e con l’insieme della vita profana, sul significato misterioso dei testi e delle tradizioni del cristianesimo; e tutto ciò senza preoccupazione alcuna di un possibile accordo o disaccordo con l’insegnamento dogmatico della Chiesa.

Sapendomi fallibile, sapendo che tutto il male che per debolezza lascio sussistere nella mia anima vi produce necessariamente una quantità proporzionale di menzogna e di errore, io dubito in qualche modo persino delle cose che mi appaiono più manifestamente certe. Ma tale dubbio concerne in pari misura tutti i miei pensieri, quelli che sono in accordo come quelli che sono in disaccordo con l’insegnamento della Chiesa.

Spero e conto fermamente di rimanere in siffatto atteggiamento fino alla morte. Sono certa che questo linguaggio non racchiuda alcun peccato. E’ pensando diversamente che commetterei un crimine contro la mia vocazione, che esige un’assoluta probità intellettuale. Né posso discernere alcun movente umano o demoniaco all’origine di un simile atteggiamento. Esso può produrre solo pene, sconforto morale e isolamento. Soprattutto non ne può essere causa l’orgoglio ; perchè non c’è nulla che possa lusingare l’orgoglio in una situazione in cui si è agli occhi dei non credenti un caso patologico, dal momento che si aderisce a dogmi assurdi senza neppure la scusa di subire un’influenza sociale; mentre si ispira ai cattolici la benevolenza protettrice, un poco sdegnosa, di chi è arrivato verso chi è in cammino.

Non vedo dunque alcuna ragione di respingere il sentimento che è in me, cioè di perseverare in tale atteggiamento per obbedienza a Dio; se lo modificassi offenderei Dio, offenderei il Cristo, il quale ha detto: <<Io sono la verità>>. D’altra parte, già da molto tempo io provo un desiderio intenso e sempre crescente della comunione. Se si considerano i sacramenti un bene, se io stessa li considero tali, se li desidero, e se mi vengono rifiutati senza alcuna colpa da parte mia, non è forse questa una crudele ingiustizia?

Se mi si accordasse il battesimo, malgrado l’atteggiamento in cui persevero, si romperebbe con una consuetudine che dura da almeno diciassette secoli. Se questa rottura è giusta e desiderabile, se ci si rende conto che proprio oggi è di una urgenza più che vitale per la salvezza del cristianesimo – cosa che a me pare evidente – bisognerebbe allora, per la Chiesa e per il mondo, che si verificasse in forma eclatante, e non per iniziativa isolata di un prete disposto ad amministrare un battesimo oscuro e isolato.

Per tale motivo e per molti altri analoghi, fino ad ora non ho mai rivolto a un prete la domanda formale del battesimo. E non intendo farlo neppure ora. Tuttavia sento il bisogno – non astratto, ma pratico, reale, urgente – di sapere se, nel caso io lo domandassi, mi sarebbe accordato o rifiutato.”

(Simone Weil, Parigi 3 febbraio 1909 – Ashford 24 agosto 1943)

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    OMISSIONE DI SOCCORSO, 4 luglio 2018

Una cronologia disumana
29 giugno
103 persone annegate al largo di Garabulli (Libia) tra cui 3 bambini

1 luglio – (Fonte Alto commissariato ONU per i rifugiati)
63 dispersi in mare al largo di Zwara (Libia) 

2 luglio – (Fonte Alto commissariato ONU per i rifugiati)
114 dispersi in mare al largo delle coste libiche
276 rifugiati e migranti riportati a Tripoli 

3 luglio (fonte Guardia costiera libica)
6 persone annegate al largo di Garabulli (Libia)

In questi giorni tristi per le “civili” nazioni europee, tra cui anche l’Italia, di fronte a un continuo stillicidio di morti dovuti, possiamo dire, a un’omissione di soccorso in attesa (!!!) che l’Europa decida il da farsi, si sono levate alcune voci significative che, condividendole, vogliamo rilanciare dal nostro sito:
• Rompiamo il silenzio sull’Africa, è l’appello lanciato da Alex Zanotelli, padre comboniano, che richiama l’esigenza di informare sulle tragedie che colpiscono vari paesi dell’Africa per conoscere le cause che costringono le popolazioni a questo esodo biblico;
• Incapaci di mantenere le tradizioni umane del nostro Continente, potrebbe essere il titolo della lettera aperta che il vescovo Bettazzi ha inviato al presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

• Una maglietta rossa per fermare l’”emorragia di umanità”Don Ciotti, presidente di Libera e del Gruppo Abele, ha lanciato un appello perché sabato 7 luglio tutti indossiamo una maglietta rossa, rosso come un semaforo che ci invita a fermarci per riflettere per metterci nei panni dei migranti che spesso vanno a morire sui barconi.

Ma subito, a mo’ di copertina di questo dossier, vogliamo trascrivere questo testo (poesia/canzone) di un capo scout, dedicato ai 100 morti in mare il 29 giugno;  morti affogati in attesa di una nave che li salvasse. (V)

*** *** ***
SE FOSSE TUO FIGLIO  
29 giugno 2018
Dedicata a i 100 morti in mare, morti affogati
in attesa di una nave che li salvasse.

Se fosse tuo figlio
riempiresti il mare di navi
di qualsiasi bandiera.

Vorresti che tutte insieme
a milioni
facessero da ponte
per farlo passare.

Premuroso,
non lo lasceresti mai da solo
faresti ombra
per non far bruciare i suoi occhi,
lo copriresti
per non farlo bagnare
dagli schizzi d’acqua salata.

Se fosse tuo figlio ti getteresti in mare,
uccideresti il pescatore che non presta la barca,
urleresti per chiedere aiuto,
busseresti alle porte dei governi
per rivendicare la vita.

Se fosse tuo figlio oggi saresti a lutto,
odieresti il mondo, odieresti i porti
pieni di navi attraccate.
Odieresti chi le tiene ferme e lontane
Da chi, nel frattempo
sostituisce le urla
Con acqua di mare.

Se fosse tuo figlio li chiameresti
vigliacchi disumani, gli sputeresti addosso.
Dovrebbero fermarti, tenerti, bloccarti
vorresti spaccargli la faccia,
annegarli tutti nello stesso mare.

Ma stai tranquillo, nella tua tiepida casa
non è tuo figlio, non è tuo figlio.

Puoi dormire tranquillo
E sopratutto sicuro.
Non è tuo figlio.

È solo un figlio dell’umanità perduta,
dell’umanità sporca, che non fa rumore.

Non è tuo figlio, non è tuo figlio.
Dormi tranquillo, certamente
non è il tuo.

Sergio Guttilla
Capo Scout Agesci nel gruppo Bolognetta1, ogni tanto scrivo poesie e canzoni, suonicchio chitarra e pianoforte.

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Prendendo lo spunto da alcuni suggerimenti di Papa Francesco sul rinnovamento della missione della Chiesa

Papa Francesco ha proposto in questi giorni ai Responsabili Nazionali delle opere missionarie di impegnarsi per un rinnovamento della struttura di cui sono coordinatori.

Al proposito chiede loro di attivarsi per una riflessione che culminerà in un seminario particolare nel mese di ottobre 2019.

Il discorso è riferito direttamente alla struttura delle Pontificie Opere Missionarie, ma ritengo che possa suggerire spunti opportuni anche alle organizzazioni come l’ ACCRI che ispirano la loro azione alle prospettive del Vangelo e all’azione di Gesù Cristo.

Il nostro obiettivo è sempre la condivisione dell’impegno di sviluppo per tutti i popoli, con particolare attenzione a quelli che sono maggiormente provati dall’indigenza e dallo sfruttamento dei popoli del benessere. Il legame con l’obiettivo della missione della Chiesa di Papa Francesco mi pare evidente.

Vi propongo, quindi, un estratto dal discorso di Papa Francesco perché possa suggerire spunti e riflessioni di cui sentiamo la necessità.

Udienza del Santo Padre ai Direttori Nazionali delle Pontificie Opere Missionarie

GIUGNO 01, 2018 18:36 – PAPA FRANCESCO:

…. Abbiamo davanti un interessante cammino: la preparazione del Mese Missionario Straordinario dell’ottobre 2019, che ho voluto indire nella scorsa Giornata Missionaria Mondiale dell’anno 2017.

  • una grande opportunità per rinnovare l’impegno.

Sempre si devono rinnovare le cose: rinnovare il cuore, rinnovare le opere, rinnovare le organizzazioni, altrimenti, finiremmo tutti in un museo….

  • il pericolo che l‘operato si riduca alla mera dimensione monetaria e tecnica dell’aiuto – è una vera preoccupazione – trasformandoci in un’agenzia come tante, fosse anche cristianamente ispirata

  • impegno riproposto come attuale e urgente per il rinnovo della consapevolezza oggi, una grande e coraggiosa intuizione: la necessità di riqualificare la missio….

  • vivere una forte comunione di spirito, di collaborazione reciproca e di mutuo sostegno.

  • Se il rinnovamento sarà autentico, creativo ed efficace, la riforma consisterà in una rifondazione, una riqualificazione secondo le esigenze del mondo attuale. Non si tratta semplicemente di ripensare le motivazioni per fare meglio….

  • richiede disponibilità solidale personale e creatività spirituale. Dunque non solo rinnovare il vecchio, ma permettere che lo Spirito crei il nuovo!

  • Non abbiate paura delle novità” che vengono dallo Spirito: queste novità sono belle. Abbiate paura delle novità: che non vengono di là.

  • Siate audaci e coraggiosi” collaborando, sempre in comunione con la comunità.

  • Il vostro libro abituale di orientamento meditazione ? Andare lì a trovare l’ispirazione. CHE COSA E CHI ci accompagna, ci ispira?

Abbiamo bisogno di riqualificarci, riqualificare lo sforzo di collaborazione attraverso i programmi o progetti e la formazione che è sempre indispensabile affinché coscienza, consapevolezza e responsabilità siano parte del vissuto ordinario.

Noi non abbiamo un prodotto da vendere ma una convinzione da comunicare !

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23.04.18         Ernesto Balducci – “Il Vangelo della pace” voi. 2 anno B

Nella misura in cui è giusto avere delle predilezioni all’interno di questo grande universo che è la Sacra Scrittura – la parola di Dio consegnata a un libro – le parole della lettera di Giovanni che abbiamo ascoltato sono quelle che particolarmente prediligo. Le prediligo perché segnano con forza lo stacco che separa la nostra conoscenza, la nostra possibilità di definire chi è Dio e chi è l’uomo, e la realtà di Dio e dell’uomo.

Noi non sappiamo quello che siamo e non sappiamo nemmeno chi è Dio: lo sapremo quando lo vedremo faccia a faccia. E uno dei luoghi dove viene alla superficie l’essenza stessa del discorso di Gesù di Nazareth sul mistero di Dio e sul mistero dell’uomo. Dinanzi a queste parole io posso cominciare col rendere onore a tutti coloro che non sanno credere in Dio, che reagiscono con fastidio interno dinanzi a chi parla di Dio come se lo avesse visto in faccia, che hanno paura delle definizioni suggestive che ci introducono di prepotenza nella sfera dell’oscuro, del mistero, dove cercare la chiarezza può essere anche un modo astuto per liberarsi dalla inquietudine e dal tormento.

Vorrei dunque rendere onore al dubbio che attraversa anche molte coscienze di coloro che pur si dicono credenti. Se dico che dobbiamo ospitare il dubbio, lasciargli spazio in noi, e proprio perché non ci venga di trasformare la fede in fanatismo. C’è un capello appena tra il fanatismo e la fede. Può bastare un piccolo spostamento di ottica perché le parole che sono espressione della fede autentica e liberatrice diventino espressione e strumento di sopraffazione spirituale. Per sviluppare il discorso di cui ci viene offerta oggi l’occasione, possiamo prendere i due anelli estremi di una catena. il primo anello è l’uomo storpio, l’altro anello è il Dio che non conosciamo.

Tra questi due anelli estremi c’è Gesù, «pietra scartata». Lo storpio è un’immagine dell’uomo scartato: non lo assumono a lavorare, non è un metalmeccanico, non è un deputato.. è un menomato che nella società antica era affidato alla carità. Una pietra scartata per costituzione. Noi ne conosciamo tante di pietre scartate, le abbiamo ben catalogate ormai. Anche se la scienza fa di tutto per recuperare gli handicappati però essi sono scartati. Abbiamo i carcerati, gli anziani, i tossicodipendenti… Le pietre scartate, o per malizia altrui o per debolezza personale, rappresentano il punto in cui la nostra esigenza della costruzione di una società umana e razionale fa fallimento. Dovunque c’è l’uomo non efficiente, non dotato, rimesso totalmente, piedi e mani, alla benevolenza altrui. Ci sono gli scartati. In questo versante c’è anche Gesù di Nazareth che è stato una pietra scartata con tutti i sigilli: nessuno è più scartato di un condannato a morte (specialmente nella cultura di allora) e ad una morte infame. Questo è il mondo nel suo versante oscuro.

C’è poi l’altro versante, dove abita e si nasconde Colui che non conosciamo. Anche quelli che non hanno nessuna professione di fede non possono non presentarsi al futuro, personale e collettivo, con la faccia davanti al buio, all’ignoto, all’inconoscibile. Noi credenti affermiamo che il quelle tenebre abita Colui che è l’amore da cui tutte le cose derivano ma dobbiamo riconoscere che non lo conosciamo. C’è Uno che è venuto da Dio e che ce ne ha parlato non come un professore, ma mostrandoci la sua vita: «lo sono la via. Chi vede me vede il padre».

Chi ha visto Gesù ha veduto uno da cui si doveva fuggire. I discepoli, stati alla sua scuola per tre anni, fuggirono tutti quando lo videro ridotto ad un condannato. […] Come vedete siamo in una catena dove tutto si tiene, in qualche modo, e che misura i limiti della nostra capacità conoscitiva. Noi non siamo in grado di dare al mondo in cui viviamo una impronta di razionalità etica; esso ci sfugge da ogni parte.

Chiunque vuol costruire, ad ogni costo, uno stato perfetto, è un potenziale delinquente, perché avrà il compasso in mano e quel che non rientra nel compasso sarà tagliato. Viviamo in questa oscillazione drammatica tra la rinuncia a capire e a fare, che è la peggiore delle scelte, e la decisione a capire e a fare, e allora siamo nel rischio. […1 Quando Pietro deve dare inizio all’annuncio che Gesù, lo scartato, è stato liberato da morte, lo fa guarendo lo storpio per manifestare questa nuova signoria nata per decisione di Dio e in cui lo scartato, la pietra scartata, è diventata pietra angolare, punto di sostegno di una nuova costruzione che si fa privilegiando gli scartati. La guarigione dello storpio è l’emblema di questo nuovo processo: è dall’amore per gli scartati che nasce la capacità di guardare dall’altra parte, di guardare verso l’ignoto, verso Dio, sapendone qualcosa. Noi ne sappiamo qualcosa perché facciamo, dinanzi all’uomo che ha bisogno di noi, il gesto della dedizione, della premura, e rifiutiamo di farci solidali con i processi o le norme o le leggi o i poteri che scartano gli uomini. Noi siamo solidali con gli scartati.

Questa scelta non è una pura opera di pietà e di misericordia. È un evento conoscitivo l’assumere lo scartato come luogo in cui si manifesta la falsità del mondo di cui facciamo parte. Se io soffro quando sento o leggo o vedo che un negro è perseguitato per la pelle che ha, non sono solo un uomo di buon cuore, sono uno che ha bisogno di riprendere le misure di questo mondo: mi vergogno delle biblioteche, dei libri, del mio popolo, del mio paese, della mia civiltà occidentale… Non è un episodio parziale, affettivo, è una rivoluzione interna che avviene in me. Se il mondo considera tollerabile che si offenda un uomo per la pelle che ha, io non accetto più questo mondo. Questo mio sdegno è sdegno evangelico. Allora mi colloco in una situazione reale e posso cominciare a parlare di Dio…

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Alex Zanotelli, 24.03.18, Napoli    “…Europa, cosa ti è successo …?” 

SONO INDIGNATO!

Sono indignato per quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi verso i migranti,nell’indifferenza generale. Stiamo assistendo a gesti e a situazioni inaccettabili sia a livello giuridico, etico ed umano.

E’ bestiale che Destinity, donna nigeriana incinta, sia stata respinta dalla gendarmeria francese. Lasciata alla stazione di Bardonecchio, nella notte, nonostante il pancione di sei mesi e nonostante non riuscisse quasi a respirare perché affetta da linfoma. E’ morta in ospedale dopo aver partorito il bimbo:un raggio di luce di appena 700 grammi!

E’inammissibile che la Procura di Ragusa abbia messo sotto sequestro la nave spagnola Open Arms per aver soccorso dei migranti in acque internazionali, rifiutandosi di consegnarli ai libici che li avrebbero riportati nell’inferno della Libia.

E’ disumano vedere arrivare a Pozzallo sempre sulla nave Open Arms Resen, un eritreo di 22 anni che pesava 35 kg, ridotto alla fame in Libia, morto poche ore dopo in ospedale. Il sindaco che lo ha accolto fra le sue braccia , inorridito ha detto :”Erano tutti pelle e ossa, sembravano usciti dai campi di concentramento nazisti”.

E’ criminale quello che sta avvenendo in Libia, dove sono rimasti quasi un milione di rifugiati che sono sottoposti-secondo il il Rapporto del segretario generale dell’ONU ,A. Guterres- a “detenzione arbitraria e torture, tra cui stupri e altre forme di violenza sessuale , a lavori forzati e uccisioni illegali.” E nel Rapporto si condanna anche ”la condotta spregiudicata e violenta da parte della Guardia Costiera libica nei salvataggi e intercettazioni in mare.”

E’ scellerato, in questo contesto, l’accordo fatto dal governo italiano con l’uomo forte di Tripoli, El- Serraj (non c’è nessun governo in Libia!) per bloccare l’arrivo dei migranti in Europa.

E’ illegale l’invio dei soldati italiani in Niger deciso dal Parlamento italiano, senza che il governo del Niger ne sapesse nulla e che ora protesta.

E’ immorale anche l’accordo della UE con la Turchia di Erdogan con la promessa di sei miliardi di euro, per bloccare soprattutto l’arrivo in Europa dei rifugiati siriani, mentre assistiamo a sempre nuovi naufragi anche nell’Egeo: l’ultimo ha visto la morte di sette bambini!

E’ disumanizzante la condizione dei migranti nei campi profughi delle isole della Grecia. “Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi- ha detto l’arcivescovo Hyeronymous di Grecia a Lesbos- è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza la “bancarotta dell’umanità.”

E’ vergognoso che una guida alpina sia stata denunciata dalle autorità francesi e rischi cinque anni di carcere per aver aiutato una donna nigeriana in preda alle doglie insieme al marito e agli altri due figli, trovati a 1.800 m , nella neve.

Ed è incredibile che un’Europa che ha fatto una guerra per abbattere il nazi-fascismo stia ora generando nel suo seno tanti partiti xenofobi, razzisti o fascisti.

Europa , cosa ti è successo?”, ha chiesto ai leader della UE Papa Francesco. E’ questo anche il mio grido di dolore. Purtroppo non naufragano solo i migranti nel Mediterraneo, sta naufragando anche l’Europa come “patria dei diritti”.

Ho paura che , in un prossimo futuro, i popoli del Sud del mondo diranno di noi quello che noi diciamo dei nazisti. Per questo mi meraviglio del silenzio dei nostri vescovi che mi ferisce come cristiano, ma soprattutto come missionario che ha sentito sulla sua pelle cosa significa vivere dodici anni da baraccato con i baraccati di Korogocho a Nairobi (Kenya). Ma mi ferisce ancora di più il quasi silenzio degli Istituti missionari e delle Curie degli Ordini religiosi che operano in Africa. Per me è in ballo il Vangelo di quel povero Gesù di Nazareth :”Ero affamato, assetato, forestiero…” E’ quel Gesù crocifisso, torturato e sfigurato che noi cristiani veneriamo in questi giorni nelle nostre chiese, ma che ci rifiutiamo di riconoscere nella carne martoriata dei nostri fratelli e sorelle migranti. E’ questa la carne viva di Cristo oggi.

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Condividiamo questa riflessione del gruppo “chiesadituttichiesadeipoveri”.

www.chiesadituttichiesadeipoveri.it  _12.03.18

UN PAPATO MESSIANICO

Giungono a compimento, questo 13 marzo, i primi cinque anni del pontificato di papa Francesco; è un giorno perciò di auguri, per lui e per la Chiesa, ma anche occasione di un bilancio di ciò che è avvenuto finora.

Quanto agli AUGURI li accompagniamo con un regalo per lui, il video che pubblichiamo di una struggente canzone di dolore, di sorrisi e di speranza di bambini sradicati e profughi della Siria, ricordando che la Siria dilaniata è stata fin dall’inizio in questi anni al cuore dell’amore del papa.
Quanto al BILANCIO dedichiamo ad esso vari contributi. Anzitutto pubblichiamo un discorso dello stesso Francesco in cui c’è un po’
la chiave del rinnovamento della fede e della Chiesa: il vangelo della Parola di Dio non è un libro sigillato, ci sono molte cose che ancora non sono venute alla luce, la conoscenza della verità progredisce e la dottrina della fede non può stare in naftalina come una vecchia coperta da proteggere dai parassiti.

Ricordiamo poi il recente convegno sui primi cinque anni di Francesco tenutosi per iniziativa dell’UCSI presso la Federazione Nazionale della Stampa. Di quel convegno pubblichiamo l’intervento di Raniero La Valle, in cui si dà una rilettura di questo pontificato non solo come di un pontificato profetico, ma come di un pontificato messianico.

Nel vocabolario delle nostre Chiese, messianico vuol dire semplicemente cristiano. Dire messianico è il contrario che dire apocalittico (nel senso della fine), ma è anche il contrario che dire utopico (nel senso dell’attesa o auspicio di un futuro che non arriva mai).

Dire messianico vuol dire invece parlare del presente, nel quale però accade la novità, irrompe l’inedito, si apre un passaggio. È il termine che definisce ciò che fa Gesù nella sinagoga di Nazaret all’inizio del cammino che lo porterà sul Golgota: legge la buona notizia di Isaia 61 (gli umili sono esaltati, i cuori feriti sono fasciati, gli schiavi sono liberi e i prigionieri scarcerati) e dice: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi udite“, ma fa esplodere quella parola in una straordinaria discontinuità, infatti non annuncia più un giorno di vendetta di Dio a favore del suo popolo di Sion, ma  annuncia l’anno di misericordia del Signore a favore di tutti i popoli, imprimendo così una svolta alla storia umana. Dentro questa svolta storica c’è tutta la tradizione che oggi viene chiamata giustamente giudeo-cristiana, ci sono le Chiese del Nuovo Testamento e ci sono anche i papi.

Se ora si guarda a questi cinque anni si possono cogliere i punti di svolta salienti di questo passaggio d’epoca:

  • la chiusura dell’età dello scarto e il ripudio del pensiero, anche religioso, della disuguaglianza;

  • il congedo dall’idea violenta, anche religiosa, della giustizia intesa come contrappasso;

  • la riapertura del Vangelo e perciò il ritorno del Figlio a rivelare i volti inediti del Padre….

Il papa sta aprendo nuovi orizzonti alla Chiesa ed al mondo, ma molte cose sono raffrenate o in ritardo, prima fra tutte il seguito da dare al riconoscimento del vitale ruolo delle donne nella Chiesa e alla nuova percezione dei ministeri.

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La straordinaria attualità di Gandhi: religione e politica, contro ogni guerra– A settant’anni dall’assassinio dell’apostolo della nonviolenza

da ADISTA – Mao Valpiana 30/01/2018

Non aveva partecipato ai festeggiamenti per l’indipendenza indiana, dopo averla conquistata con il satyagraha (la forza della verità o nonviolenza), perché la separazione tra India e Pakistan era per lui una grande sconfitta. E’ stato assassinato da un giornalista indù, alla testa di un complotto, che non gli aveva perdonato la sua azione per la riconciliazione religiosa e la sua apertura ai musulmani. Gandhi, che era di religione indù, fu considerato dai fondamentalisti di entrambe le parti come un traditore.  Sono passati 70 anni, da quel 30 gennaio del  1948, e il fondamentalismo fanatico pseudo religioso è ancora un pesante ostacolo per tanti processi di pacifica convivenza.
Dunque, non si può parlare di Gandhi senza riferirsi alla sua esperienza e alla sua definizione di religione: “Per me Dio è verità e amore; Dio è etica e morale; Dio è coraggio. Dio è la fonte della luce e della vita e tuttavia è di sopra e di là di tutto questo. Dio è coscienza. E’ perfino l’ateismo dell’ateo. Trascende la parola e la ragione. E’ un Dio personale per coloro che hanno bisogno della sua presenza personale. E’ incarnato per coloro che hanno bisogno del suo contatto. E’ la più pura essenza. E’, semplicemente, per coloro che hanno fede. E’ tutte le cose per tutti”.
Siamo in presenza di una religione aperta, libera, accogliente, amorevole, umana. La religione di Gandhi coincide con la ricerca della Verità, perché Dio stesso è Verità, e la Verità è Dio. Tuttavia in Gandhi c’è posto anche per una piena laicità. Ha saputo essere, insieme, un grande religioso e una grande statista: “se fossi un dittatore, religione e Stato sarebbero separati. Credo ciecamente nella mia religione. Voglio morire per essa. Ma è una mia faccenda personale. Lo Stato non c’entra. Lo Stato dovrebbe preoccuparsi  del benessere temporale, dell’igiene, delle comunicazioni, delle relazioni con l’estero, della circolazione monetaria e così via, ma non della vostra o mia religione. Questa è affare personale di ciascuno”.
Forse non è un caso che Gandhi avesse una grande ammirazione proprio per due italiani, San Francesco d’Assisi e Giuseppe Mazzini, un religioso e un laico.
Oggi nel mondo intero Gandhi è considerato il profeta della nonviolenza, ma il rischio è quello di farne un santo, un eroe, un simbolo, un mito. Gandhi, invece, nel corso di tutta la sua azione sociale e politica si è sempre sforzato di far capire che ciò che lui ha fatto poteva farlo chiunque altro, che “la verità e la nonviolenza sono antiche come le montagne”. La novità emersa con Gandhi consiste nell’aver saputo trasformare le nonviolenza da fatto personale a fatto collettivo, da scelta di coscienza a strumento politico: con Gandhi la nonviolenza non è più solo un mezzo per salvarsi l’anima, ma diventa un modo per salvare la società. La nonviolenza è sempre esistita, presente in tutte le culture e in tutte le religioni, in oriente e in occidente, nei sacri testi della Bibbia e del Corano, della Bhagavad Gita e del Buddhismo. Ma è con Gandhi che la nonviolenza diventa un’arma di straordinaria potenza per liberare le masse oppresse.  Il Mahatma ci ha fatto scoprire che la nonviolenza è insieme un fine ed un mezzo, che per abbracciare e farsi abbracciare dal satyagraha ci vuole fede, pazienza, sacrificio, dedizione, addestramento: “Il satyagrahi si allena giorno per giorno, in ogni istante della propria vita, per diventare capace di soffrire con gioia e apprendere la difficile arte del dono della vita”.
Gandhi è stato un grande innovatore, è stato l’uomo che ha riscattato il ventesimo secolo che altrimenti sarebbe stato consegnato alla storia come un secolo buio, per gli orrori delle guerre mondiali e per l’olocausto nei campi di sterminio. Gandhi è la preziosa eredità per il nuovo secolo.
Oggi il mondo è nuovamente sull’orlo del baratro atomico. Papa Francesco, fortemente impegnato per il disarmo nucleare, ha detto “Sì, ho veramente paura, siamo al limite”, ed il bollettino degli scienziati atomici ha spostato in avanti l’orologio dell’Apocalisse a due minuti dalla mezzanotte!  
La mobilitazione contro la guerra (intendo contro tutte le guerre, fatte da chiunque per qualsiasi motivo e con qualunque arma) è coerente e vincente solo se fatta con i mezzi della nonviolenza. “La guerra è il più grande crimine contro l’umanità”. Gandhi condanna il ricorso alla guerra, senza appello, e ci indica anche il metodo giusto alternativo: “Si dice: i mezzi in fin dei conti sono mezzi. Io dico: i mezzi in fin dei conti sono tutto”. Dunque la nonviolenza di Gandhi è soprattutto prassi, azione, sperimentazione. Tutta la sua vita è spesa in questa ricerca, tanto da intitolare la sua autobiografia “Storia dei miei esperimenti con la verità”. Il mondo è solo all’inizio dell’esplorazione delle potenzialità della nonviolenza, la sola via che può salvare l’umanità. 
*  Presidente nazionale del Movimento Nonviolento

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dal sito www.chiesadituttichiesadeipoveri.it

Newsletter n. 63 del 23 gennaio 2018

Cari Amici,
ha detto un giurista ormai classico, Carl Schmitt, che i principali concetti politici dell’Occidente sono concetti teologici secolarizzati. È stato un guaio, sia perché molti di tali concetti teologici sono stati presi per il verso sbagliato (o magari erano di una cattiva teologia), sia perché la teologia, secolarizzandosi, si snatura. È così che dall’onnipotenza di Dio è venuta l’onnipotenza dello Stato, dalla trascendenza è scaturita la sovranità che non riconosce niente sopra di sé, dal dies irae del giudizio divino è venuta la vendicatività della giustizia penale e da Carlo Magno si è arrivati ad Hitler.

L’altra conseguenza è che molti hanno perso la fede.
Papa Francesco sta facendo un’operazione del tutto diversa, nutre la fede del popolo di concetti teologici umanizzati. Cioè fa ciò che è il cristianesimo: Dio in forma umana, e dunque il crocefisso, la realtà guardata dagli uomini
come divina. Ciò comporta la riforma della Chiesa e del papato. Sull’aereo nel primo viaggio di ritorno dal Brasile si era chiesto “chi sono io Francesco?”. Sull’aereo nell’ultimo viaggio da ritorno dal Perù si è dato una risposta: sono uno che può sbagliare, uno che con una parola infelice ha ferito le vittime che più vuole difendere, quelle degli abusi sessuali del clero; perché sentire che il papa dice “portatemi la prova” è uno schiaffo; a loro chiedo scusa, l’ho fatto senza volerlo, e mi fa tanto dolore.
È un piccolo episodio, giustamente amplificato dai media, ma umanizza un concetto teologico che, distorto, ha fuorviato la Chiesa: il papa come Dio in terra, l’arrogante amplificazione della dottrina dell’infallibilità, che non è il proclamare il dogma dell’Immacolata Concezione ma è l’idea che la Chiesa non sbaglia mai, che, come scrisse Gregorio VII, “la Chiesa Romana non ha mai errato né, secondo la testimonianza delle Scritture, mai errerà per l’eternità”, e che il papa è santo comunque, “per i meriti del beato Pietro”, ed è lui che decide della coscienza dei fedeli e abbatte il muro di Berlino, fino al “santo subito” ai funerali di Papa Wojtyla.
La teologia umanizzata di papa
Francesco gli fa dire  ai giovani di Lima che i cristiani non devono essere dei supereroi, che Dio non si scoraggia mai per i loro difetti e i loro peccati, “no se desanima”, che non c’è bisogno di truccarsi per piacergli, che Lui ha sempre scelto gente piena di difetti, “Mosè era balbuziente, Abramo un vecchio, Geremia molto giovane, Zaccheo uno piccoletto, i discepoli invece di pregare si addormentavano, la Maddalena, una peccatrice, Paolo, un persecutore di cristiani, Pietro, uno che lo ha rinnegato; e Lui non ha smesso di amarli, con i loro difetti, con la voglia di correggersi, ma così com’erano …”.
E la teologia umanizzata gli fa preferire una Chiesa “incidentata”, piuttosto che barricata in casa, e anche di “incidentare” se stesso, perché poteva benissimo non rispondere alla giornalista di Iquique che gli chiedeva conto della sua difesa del vescovo Barros, ma ha pensato che lei “aveva diritto” a una risposta perché era una fedele di quella diocesi di cui Barros era stato vescovo, e perciò si è preso il rischio di una risposta maldes
tra, la cui intenzione era però di non mancare di giustizia. E ad averli feriti, col parlare di “prove”, ha chiesto scusa ai discepoli abusati, e lo ha fatto con tenerezza, con misericordia. All’ordine dell’umano appartiene non l’essere infallibili e perfetti, ma l’essere giusti ed emendabili. E così anche per il papa. Così che si possa perdonare anche il papa.
Il suo ritorno a Roma è coinciso anche con il primo intervento del cardinale Bassetti, ossia della Chiesa italiana in formato Francesco, in una campagna elettorale politica. È stato un intervento generalmente ritenuto ineccepibile, contro il razzismo e contro le falsità della politica, con un forte appello a sposare la politica come vocazione, non per il potere, ma per servire il bene comune.
Un bene comune che è molto lontano, se le statistiche dell’OXFAM annunciano che la forbice della diseguaglianza si è allargata in modo perverso nel mondo globalizzato, tra i pochissimi (l’1%) che possiedono tutto e moltissimi (3,2 miliardi) che non possiedono niente, e dicono che questa divaricazione sociale è cresciuta paurosamente in Italia dove il 20% più ricco detiene oltre il 66% della ricchezza nazionale mentre il 60% più povero detiene il 14,8% della ricchezza nazionale e 14 miliardari hanno tanti soldi quanto il 30% più povero.
Mentre, come si duole il Presidente della CEI, sono ormai un milione e mezzo le famiglie italiane in povertà assoluta, con un aumento del 97% rispetto a dieci anni fa. È di questo, e non del poter celebrare delle nozze in aereo (perché anche di questo è stato rimproverato il papa) che si occupa la “dottrina sociale”: ne scrive Daniele Menozzi per dire che se non ha perso il suo nome, si sta tuttavia liberando della sua armatura ideologica grazie all’attuale rinnovamento della Chiesa.

Con i più cordiali saluti
chiesadituttichiesadeipoveri

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