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E’ bello comprendere il significato delle descrizioni dei fatti del Vangelo apparentemente così semplici … Ed è utile ricordare anche i ricordi storici delle consuetudini… ognuno ha la possibilità di sentire quanto ci appartiene – più o meno – quel timore del lebbroso che desidera almeno di poter pregare… E’ un Vangelo nuovo.
IV Domenica di Avvento
Mt 1, 18-24
GESÙ NASCERÀ DA MARIA, SPOSA DI GIUSEPPE, DELLA STIRPE DI DAVIDE
“… Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa…”
da IL FILO, associazione biblica, NAPOLI:
L’evangelista presenta Gesù quale nuova creazione dell’umanità (hē ghénesis=l’origine v.18, trad. lett.) riportando le parole del 1° versetto del 1° capitolo della Bibbia/Torah (Bereshit=in origine/in principio), indicando così che qui, con Gesù, inizia la nuova Scrittura divina nella storia dell’uomo e l’azione dello Spirito parallela a quella della prima creazione: “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gen 1,1-2); “Mandi il tuo spirito, sono creati…” (Sal 104,30).
Per comprendere l’affermazione di Matteo occorre conoscere come era strutturato l’istituto matrimoniale a quel tempo:
il matrimonio in Israele avveniva in due tempi. Il primo tempo si può chiamare sposalizio e avveniva dopo che la donna aveva compiuto dodici anni e il maschio diciotto. Lo sposalizio (ebr. “Qiddushìn=santificazione”) si tiene in casa della donna. Il futuro marito formula la richiesta ufficiale ai genitori della sposa; e subito dopo si contratta sulla somma di danaro che dovrà pagare, a mo’ di cauzione, alla famiglia della donna in caso di ripensamento.
La cifra verrà consegnata un anno più tardi dal padre alla figlia, nel momento in cui ella inizierà la coabitazione con lo sposo. Poi la famiglia dello sposo e della sposa mercanteggiano su ciò che quest’ultima deve portare in dote (ebr. “Silluhìm”). Somma che, pur restando teoricamente di proprietà della sposa, verrà amministrata dal marito.
Raggiunto l’accordo anche sul valore della dote, alla presenza di due testimoni, lo sposo copre con il proprio mantello della preghiera la moglie (cfr. Ez 16,8; Rt 3,9) e pronuncia la formula: “Tu sei mia moglie” e la donna risponde “Tu sei mio marito”.
Con questo semplice rituale si dichiara cessata la potestà del padre sulla donna che passa quindi al marito, e lo sposalizio è concluso.
A Maria, quindi, dopo questo “sposalizio”, compete ora la qualifica di moglie; ma a salvaguardia dei diritti di Giuseppe, suo sposo, l’ordinamento giuridico sancisce il crimine dell’ “adulterio” in caso di tradimento (Lv 20,10; Dt 22,20-21).
Un anno dopo lo sposalizio, quando la maturità sessuale di Maria lo permetterà, al terzo giorno (un martedì) avrà luogo la seconda fase del matrimonio: le nozze. La donna uscirà dalla casa paterna accompagnata dalla benedizione del padre e dal corteo di amiche; verrà condotta nella dimora di Giuseppe, dove la loro vita comune avrà inizio con un grande banchetto della durata di almeno una settimana.
In questo intervallo tra lo sposalizio e le nozze, Maria si trova incinta di Spirito Santo. Il termine che viene tradotto con spirito, in greco pneuma (neutro) e in ebraico ruah (femminile) significa soffio, vento, alito, evita ogni riferimento all’accoppiamento tra una divinità e una donna, tema comune nella mitologia di molti popoli.
Nella cultura ebraica si individuava nel respiro il principio della vita e la forza vitale che non può venire se non dal Dio creatore (Gen 6,17; 7,15.22; Ez 37,10-14). Pertanto con il termine spirito si indica la forza creatrice di Dio. Questo spirito viene definito santo perché la sua azione consiste nel santificare, cioè separare (consacrare) chi accoglie questa forza divina dalla sfera del male. È questa forza divina che fa concepire Maria.
Il Vangelo di Matteo si concluderà poi con la missione affidata da Gesù ai discepoli di andare a battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, per continuare l’attività creatrice iniziata da Dio ed insegnare a praticare a tutti l’amore che aveva trasmesso come fondamento di tutto (28,19).
Giuseppe viene presentato come un giusto, cioè un fedele osservante di tutte le prescrizioni della Legge. Per il giusto il libro del Deuteronomio parla chiaro: dovrebbe denunciare la moglie infedele come adultera, partecipare al processo ed essere il primo a scagliare la pietra della lapidazione: “Così estirperai il male in mezzo a te” (Dt 22,20-21).
L’evangelista presenta il dramma di Giuseppe. La fedeltà alla Legge gli impone di denunciare senza indugio Maria. In un testo apocrifo, il Protovangelo di Giacomo così viene descritto questo suo dramma: “Giuseppe pensava: se nasconderò il suo errore, mi troverò a combattere con la Legge del Signore” (14,1).
Ma Giuseppe non denuncia come adultera la propria moglie e per non esporla alla pubblica infamia decide di ripudiarla, ma di nascosto, per non diffamarla e farla uccidere. Il verbo deigmatísai da deigmatízō si trova nel NT solo in Col 2,15 dove viene tradotto con pubblico spettacolo ed ha il significato di abbandono al generale disprezzo.
La legislazione del ripudio era basata sull’insegnamento di Dt 24,1: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”.
Interviene “un angelo del Signore” (cfr. 28,2) e Giuseppe che incarna il resto di Israele è docile al suo avviso. Nella scelta operata da Giuseppe si percepisce il significato che l’evangelista attribuisce alla figura di Maria, che più tardi apparirà associata a Gesù, in assenza di Giuseppe (2,11).
Ella rappresenta la comunità cristiana nel cui seno nasce la nuova creazione per l’opera continua dello Spirito. Il dubbio di Giuseppe riflette quindi il conflitto interno degli israeliti fedeli dinanzi alla nuova realtà, la comunità cristiana.
Per la discontinuità/continuità con la tradizione che percepisce in questa comunità (=nascita verginale senza padre o modello umano/giudaico), Giuseppe/Israele è tenuto a ripudiarla per restare fedele alla tradizione; d’altra parte non ha alcun reale motivo di diffamarla e farla uccidere essendo evidente la sua condotta irreprensibile.
L’angelo del Signore, che rappresenta Dio stesso, risolve il conflitto invitando l’Israele fedele ad accettare la nuova comunità perché quel che nasce in essa è opera di Dio.
Quell’Israele comprende allora la novità del messianismo di Gesù e accetta la discontinuità/continuità col passato.
L’angelo/Signore si rivolge a Giuseppe chiamandolo figlio di Davide, espressione che si riferisce alla discendenza da Davide e quindi il diritto alla regalità deriva a Gesù dalla linea di Giuseppe (cfr. 12,23; 20,30).
Il fatto che l’angelo appaia a Giuseppe in sogno (2,13.19) mostra che l’evangelista non intende sottolineare la realtà dell’angelo del Signore, ma il modo di comunicare di Dio stesso in relazione con gli uomini (cfr. Es 3,2-6; Mt 2,13; 28,2).
Matteo è l’unico evangelista che parla di manifestazione del Signore in sogno. Scrivendo per una comunità giudeo/credente egli segue lo schema classico dell’AT dove si evita la vicinanza o il contatto diretto con la divinità che viene percepita o si rivela sempre durante un sogno: “…Ascoltate le mie parole! Se ci sarà un vostro profeta, io, il Signore, in visione a lui mi rivelerò, in sogno parlerò con lui” (Nm 12,6).
Il figlio che nascerà non si chiamerà come il padre (o il nonno), come appare in Luca: “Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria” (Lc 1,59).
Con questa scelta l’evangelista intende sottolineare ancora una volta che questo figlio non continua la linea iniziata con Abramo e giunta fino a Giuseppe. Il nome di questo figlio non è quello di alcun parente di Giuseppe, è Gesù.
Il nome “Gesù”, “Dio salva”, è lo stesso di Giosuè, colui che introdusse il popolo nella terra promessa. Il significato del nome si spiega in base alla missione del bambino: egli salverà il “suo popolo”, quello che apparteneva a Dio (Dt 27,9; 32,9; Es 15,16; 19,5; Sal 135,4).
Nella lingua italiana non si può comprendere la relazione esistente tra questo nome e il fatto di salvare il popolo. Nella lingua ebraica esiste invece un parallelismo tra il nome Gesù (abbreviazione di Yehoshua) che si dice Yeoshuà e salverà= yoshuà.
In italiano l’espressione può essere resa con: “si chiamerà Salvatore perché salverà…”.
Il nome Gesù è un composto tra il nome di Dio Yahvè e il verbo yoshuà= salvare= Yahvè è salvezza, ed è lo stesso in ebraico di Giosuè, il successore di Mosè che fece entrare il popolo di Israele nella terra promessa.
Missione di Gesù non è salvare il popolo dal giogo dei nemici o dal potere straniero, ma dai «peccati» cioè da un passato di ingiustizia. «Salvare» significa far passare da uno stato di male e di pericolo a un altro di bene e di sicurezza: il male e il pericolo del popolo risiedono soprattutto nei «suoi peccati», nell’ingiustizia della società, cui tutti contribuiscono.
È questa la prima delle citazioni dell’AT che cadenzano i primi due capitoli di Matteo dedicati alla natività di Gesù. La citazione del profeta Isaia (7,14) secondo la traduzione greca dei LXX annuncia al re Acaz (735-715 circa a.C.) la nascita del figlio da parte della giovane sposa che non ha ancora avuto il primo figlio.
La nascita del bambino, Ezechia, garantirà continuità alla dinastia e libererà il popolo dai suoi nemici, e confermerà la presenza di Dio con Israele. Ma quel che più interessa all’evangelista è il nome di questo figlio, Emmanuele (ebr. Imanu-El) cioè Dio (El) con noi/fra noi. Il Dio con noi è il tema conduttore col quale si apre e si chiude il Vangelo di Matteo. Infatti le ultime parole di Gesù sono la rassicurazione Io sono con voi tutti i giorni (28,20) e la tematica della presenza di Dio con gli uomini attraverso Gesù, riproposta più volte nel corso del Vangelo (Fino a quando starò con voi! 17,17; Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro 18,20).
Il verbo conoscere è un eufemismo usato nella Bibbia per indicare i rapporti coniugali: “Adamo conobbe Eva sua moglie, che concepì e partorì Caino…” (Gen 4,1). L’evangelista esclude qualsiasi rapporto fra Giuseppe e Maria finché partorì un figlio.
L’indicazione temporale finché può indicare un termine dopo il quale la situazione cambia, oppure una situazione definitiva: per esempio in 2Sam 6,23 si legge “Mical, figlia di Saul, non ebbe figli fino al giorno della sua morte”, essendo evidente che dopo non ne ha più avuti: qui il termine fino ha il significato di mai.
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III DOMENICA AVVENTO – 15 dicembre 2019
SEI TU COLUI CHE DEVE VENIRE
O DOBBIAMO ASPETTARE UN ALTRO?
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Mt 11,2-11
[In quel tempo,]
Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?».
Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re!
Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”.
In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».
*
È la crisi di Giovanni il Battista. Lui, che pure aveva riconosciuto in Gesù il Cristo. Nel capitolo 3 del vangelo di Matteo si legge che egli diceva a Gesù: “Io devo essere battezzato da te”, quindi ha riconosciuto in Gesù il messia che doveva venire – eppure Giovanni Battista va in crisi. In crisi perché egli aveva annunciato un messia giustiziere, un messia che avrebbe punito severamente i peccatori. Aveva usato delle immagini terribili come la pula gettata nel fuoco, l’albero che non porta frutto e che viene tagliato.
Ebbene, in Gesù non si manifesta tutto questo. Gesù, espressione del Dio amore, offre il suo amore a tutti. Per far comprendere quest’amore Gesù lo ha paragonato al sole, che splende su tutti, buoni e cattivi, all’acqua della pioggia che scende su tutti, meritevoli e non meritevoli, perché Dio è amore e il suo amore non giudica, non condanna, ma viene offerto a tutti. E Giovanni Battista va in crisi.
Giovanni, che era in carcere…” – nel capitolo 14 poi Matteo ci dirà il perché: aveva denunciato il re Erode perché si era preso come moglie la propria cognata, togliendola al fratello. Quindi è in carcere. – Giovanni è nel supercarcere di una fortezza, costruita da Erode il Grande, nella riva orientale del Mar Morto, Macheronte.
“…avendo sentito parlare delle opere del Cristo…”: ma queste opere del Cristo non sono quelle paurose che lui aveva annunciato. Sono diverse, sono comunicazioni di vita;
“…per mezzo dei suoi discepoli…” – appaiono i discepoli. In questo vangelo questi sono già apparsi, ma molto critici nei confronti di Gesù: perché i tuoi discepoli non digiunano? La questione del digiuno li vedeva associati addirittura ai farisei, i nemici di Gesù, – “… mandò a dirgli”;
Questo avviso inviato attraverso i suoi discepoli ha tutto il sapore di un ultimatum, di una scomunica: «Sei tu colui che deve venire…»” – espressione che indicava il messia – “«…o dobbiamo aspettarne un altro?»: perché Gesù fa il contrario di quello che Giovanni Battista aveva annunciato. Giovanni Battista aveva presentato Gesù come il novello Mosè che avrebbe dovuto di nuovo compiere le famose dieci piaghe per liberare il popolo e punire il nemico.
Ebbene, in questo vangelo di Matteo, al posto delle dieci piaghe sono ricordate dieci azioni di Gesù con le quali egli comunica vita, anche ai nemici: ad esempio risuscita la figlia del capo della sinagoga. Mentre nelle famose piaghe in Egitto era stato ucciso il figlio del faraone, Gesù risuscita la figlia del capo della sinagoga. Gesù non entra in polemica e si rifà ai fatti. Dice “«Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete»”.
E qui Gesù elenca le azioni riportate dalle opere tradizionali del messia che troviamo nei capitoli 35 e 61 di Isaia: “«…i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i morti risuscitano, ai poveri è annunziato il vangelo»”, cioè la buona notizia.
Gesù, pur citando i profeta Isaia, censura Isaia. Infatti evita, in queste due citazioni del capitolo 35 e 61, i due versetti che parlavano di vendetta contro i nemici, contro i pagani. Dio è amore che comunica vita e quindi non viene né per giudicare, né per condannare o distruggere.
Ed ecco allora il monito di Gesù: “«E beato»” – cioè pienamente felice – “«è colui che non trova in me motivo di scandalo!»”
Lo scandalo è quello della misericordia. Un Dio che non premia più i buoni, né castiga i malvagi, ma a tutti, buoni e malvagi, offre il suo amore, questo era motivo di scandalo per coloro che erano abituati ad una mentalità religiosa tradizionale. Mentre il castigo, il castigo di Dio indubbiamente, intimorisce, ma non scandalizza le persone, la misericordia scandalizzava e continua ancora a scandalizzare le persone, specialmente le persone religiose, quelle che pensano che Dio li ama per i loro meriti, per i loro sforzi, non sopportano quest’immagine di un Dio misericordia.
Dio misericordia significa che il suo amore non conosce gli ostacoli messi dagli uomini, il suo amore vuole arrivare a tutti. Gesù l’aveva annunciato: suo Padre non è il Dio della religione, in ogni religione Dio premia i buoni e castiga i malvagi. Gesù aveva detto: no, l’azione del Padre è come quella del sole che splende sui cattivi e sui buoni, e ugualmente la pioggia. L’azione del Padre di Gesù è quella di una comunicazione d’amore, indipendentemente dal comportamento e dalla risposta delle persone. Questo è quello che scandalizza: che anche chi non lo merita, anche gli indegni, anche gli impuri, i peccatori, possono essere oggetto dell’amore di Dio, senza una previa penitenza, senza la necessità di una previa purificazione, questo è lo scandalo della misericordia. Gesù proclama beati quelli che non si scandalizzano.
“Mentre quelli se ne andavano” – l’assenza di reazione da parte dei discepoli indica almeno perplessità o disapprovazione – Gesù elogia Giovanni Battista che pur lo ha criticato, lo ha quasi minacciato. E chiede alla gente, alle folle: “«Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta nel vento?»” : questa canna sbattuta nel vento, oltre a riferirsi ad una famosa e conosciuta favola di Esopo, della canna che è flessibile e resiste, mentre l’ulivo, albero forte, viene sradicato dalla bufera, ha anche un particolare riferimento perché Erode, quando costruì la sua capitale, Tiberiade, sul lago di Galilea, fece coniare delle monete (nel mondo ebraico non possono essere raffigurate sembianze umane) con le canne del lago di Tiberiade.
E la canna cos’è? La canna è immagine della persona opportunista, della persona che sta sempre a galla e, pur di assicurarsi il potere, è pronta a sottomettersi ad ogni situazione. Allora Gesù dice: “«Siete andati a vedere una canna sbattuta dal vento?»”. No, perché Giovanni Battista non ha raggiunto un compromesso, non è sceso a patti, ha avuto il coraggio di denunciare il suo re.
“«Cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso?»”. Quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi del re, quindi i cortigiani, sempre ossequienti ai potenti di turno, dei voltagabbana capaci di cambiare idea e casacca pur di conservare il loro prestigio e il loro potere.
“«Cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì io vi dico, anzi, più che un profeta»”. E, citando il libro dell’Esodo e anche in riferimento al profeta Malachia, dice Gesù: “«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero»” – quindi Giovanni Battista viene visto come il messaggero che ha spianato la strada al suo popolo e che ha spianato la strada del Messia – ”«davanti a te egli preparerà la tua via»”.
Quindi, di fronte alla domanda/ultimatum di Giovanni Battista “Sei tu colui che deve venire o ne dobbiamo aspettare un altro?”, Gesù conferma che è lui quello che doveva venire. E vede in Giovanni quello che è stato il suo apri-strada, il suo precursore. E Gesù afferma solennemente: “«In verità io vi dico: fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista»” – è un elogio grandissimo, Giovanni Battista è il più grande finora nato, ma, aggiunge Gesù, – “«Il più piccolo nel regno dei cieli»” – cioè nella comunità che Gesù è venuto ad inaugurare – “«è più grande di lui»”. Perché?
Giovanni Battista è come Mosè. Ha guidato i popolo verso la liberazione, Non basta essere nati da donna, ci vuole una nuova nascita, che viene effettuata attraverso la scelta della conversione, del cambiamento di vita, una nascita nello Spirito, secondo il progetto realizzato dal Padre, per entrare a far parte del regno di Dio, la nuova comunità, la nuova società che Gesù è venuto ad inaugurare. E Giovanni Battista non ci ha potuto entrare.
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8 dicembre 2019
IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA VERGINE MARIA
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Lc 1,26-38
(In quel tempo,)
l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.
Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo.
L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
*
Nulla è impossibile a Dio. È con queste parole che si chiude l’episodio dell’annunciazione dell’angelo Gabriele a Maria. Perché nulla sia impossibile a Dio si esige l’ascolto della sua parola, fidarsi di questa e poi ci vuole l’azione. L’evangelista chiude con questa assicurazione – nulla è impossibile a Dio! Nell’episodio dell’annunciazione veramente la strada è tutta in salita.
San Paolo nella prima lettera ai Corinzi dice che Dio ha scelto quello che è disprezzato, quello che è ignobile al mondo, quello che noi mai avremmo scelto per le nostre imprese. È quello che ha fatto Dio.
“Al sesto mese l’angelo Gabriele…”: Gabriele in ebraico Gabri-el significa “la forza di Dio”, quindi è la forza della creazione che è capace di vincere qualunque resistenza;
“…fu mandato da Dio in una città della Galilea….” : cominciano già le difficoltà: l’angelo di Dio non viene inviato nella regione santa della Giudea, che aveva il nome del capostipite delle 12 tribù d’Israele, Giuda, il luogo dove nel tempio di Gerusalemme risiedeva la presenza di Dio, ma in una regione talmente disprezzata che deve il nome al profeta Isaia, che nel suo libro – al capitolo 28,23 – indica questo posto come “il distretto dei Gentili”, cioè la terra dei pagani, dei miscredenti.
“Distretto” in ebraico si dice Ghelil, da cui Galilea; è la regione disprezzata, la regione delle persone che si credeva non sarebbero potute neanche risuscitare,; comunque è la regione esclusa dall’azione di Dio. E questa città della Galilea è “…chiamata Nazaret;…”: Nazaret non era stata mai nominata nell’Antico Testamento, mai nominata in tutta la Bibbia, “un borgo selvatico abitato da trogloditi, che vivevano nelle grotte, gente bellicosa”. Giuseppe Flavio, contemporaneo dei vangeli, dice che i Galilei sono bellicosi fin da bambini.
Ma c’è ancora di più: “…a una vergine, sposata…”: … facciamo difficoltà a comprendere l’indicazione che ci dà l’evangelista perché gli usi matrimoniali del tempo sono tanto lontani e diversi dai nostri. Il matrimonio avveniva in due tappe, una prima tappa chiamata sposalizio (quando la donna aveva circa 12 anni e il maschio 18) e dopo un anno avveniva la seconda fase del matrimonio: la celebrazione delle nozze.
Quindi con questo testo abbiamo l’indicazione di una ragazza che è nella prima fase del matrimonio, quando ancora non era possibile che i coniugi avessero rapporti tra di loro e vivessero insieme.
A quanto riferito dalla Bibbia poi, Dio mai aveva rivolto la parola a una donna: anche questo… è tutto in salita. E la Bibbia dice: “dalla donna ha inizio il peccato e per causa sua tutti moriamo.” ;
“…sposata a un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.” La strada è ancora in salita. E tra tanti nomi che si potevano scegliere per questa ragazza, viene scelto proprio il nome Maria, che nella Bibbia indica una donna non benedetta da Dio. È il nome della sorella di Mosè, che era donna ambiziosa, castigata, punita severamente da Dio con la lebbra. E da allora il nome Maria non compare più nella Bibbia. È come avviene nel nostro mondo cristiano riguardo al nome Giuda, che è un bellissimo nome ed è il nome di uno degli apostoli, ma siccome ricorda il tradimento, nessuno mette al proprio bambino il nome Giuda. E così non si metteva a una bambina il nome Maria perché ricordava una donna castigata da Dio. E anche questo particolare indica che la strada è tutta in salita.
“Entrando da lei, disse: “Rallegrati…” – cioè gioisci – “…piena di grazia”: non è una constatazione che l’angelo fa delle virtù di Maria, ma dice “che sei stata riempita dalla grazia”. Dio non è attratto dai meriti di Maria, ma la riempie del suo amore. “Il Signore è con te!”: è l’espressione con la quale Dio confermava la sua presenza a coloro che chiamava a compiere le sue azioni, come ad esempio Gedeone.
“A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: “Non temere, Maria, ecco hai trovato grazia presso Dio.” : quindi l’iniziativa è di Dio che ti avvolge di grazia; “Concepirai un figlio…”: e cominciano le novità che matureranno poi;
“lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù”: ma questo è inaudito: la donna non può dare il nome al bambino che nasce. E il nome del bambino che nasce è sempre quello del nome del padre, qui invece la donna è chiamata a rompere la tradizione, a rompere col passato per aprirsi al nuovo: lei dovrà dare il nome al bambino e non lo chiamerà Giuseppe, come da tradizione, ma lo dovrà chiamare Gesù.
L’angelo aggiunge che questo bambino: “Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”: non erediterà il trono; è la promessa che l’angelo affida a Maria.
Maria non si scompone di fronte a questa novità e chiede: “Allora Maria disse all’angelo: “Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?” : non era passata infatti alla seconda fase del matrimonio, le nozze.
“Le rispose l’angelo…”: l’evangelista racchiude l’esistenza di Maria tra le due discese dello Spirito Santo: all’annunciazione e con la discesa della Pentecoste; “…lo Spirito Santo scenderà su di te”, in Maria c’è una nuova creazione, una nuova generazione, “e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio”: sono modi di dire per far comprendere che colui che nascerà sarà il messia, l’inviato da Dio, il liberatore del popolo. Su Maria scende lo Spirito Santo come al momento della creazione; quello che nascerà sarà qualcosa di completamente nuovo. Perché l’angelo esclude in tutto questo Giuseppe? Perché il padre trasmetteva al figlio non soltanto la vita biologica, ma anche la tradizione religiosa e morale. Ebbene, Gesù non seguirà i padri d’Israele, ma Gesù seguirà il padre dei Cieli, che è Dio.
E l’angelo conferma: “Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio ”. Le parole che Dio aveva detto a Sara, anche lei anziana, con Abramo che non credeva nella possibilità di poter mettere al mondo un bambino, l’angelo conferma a Maria: NULLA È IMPOSSIBILE A DIO !
L’azione di Dio con la sua forza creatrice non ha limiti, ma ha bisogno dell’ascolto da parte dell’uomo, del fidarsi della Parola e di offrire la propria collaborazione.
“Allora Maria disse: Ecco la serva del Signore”, non una serva. “Serva del Signore” : era uno dei titoli che aveva il popolo di Israele, quindi per l’evangelista Maria identifica il popolo: “Avvenga di me secondo la tua parola. E l’angelo si allontanò da lei”: Maria si fida completamente del Dio dei suoi padri. Ora l’aspetta il compito più difficile: accogliere ed accettare il Dio di suo figlio, Gesù
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I DOMENICA DI AVVENTO – 1° DICEMBRE 2019
VEGLIATE, PER ESSERE PRONTI AL SUO ARRIVO
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Mt 24,37-44
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo.
Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato.
Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata.
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà.
Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
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La liturgia della prima domenica di Avvento, ci presenta un brano di non facile lettura e, per comprenderlo, va inserito nel suo contesto, che è il capitolo 24, l’inizio dell’ultimo discorso di Gesù, prima di essere arrestato. Gesù, uscito dal tempio e di fronte ai discepoli che ne ammirano lo splendore, dice: “non rimarrà pietra su pietra che non sarà distrutta”. Perché questo?
Poco prima c’ era stato l’episodio dell’offerta della vedova, che si dissanguava, per offrire tutto quello che aveva, al tesoro del tempio. Per Gesù un’istituzione religiosa che, anziché aiutare i deboli, si fa mantenere dai deboli e sfrutta i deboli in nome di Dio, non ha diritto all’esistenza. Perciò Gesù dichiara la fine di tutto questo: non rimarrà pietra su pietra che non sia distrutta.
Ma questo è appena l’inizio di uno sconvolgimento, di un cambiamento che avverrà nella storia e nell’ umanità. E Gesù – usando il linguaggio profetico – prosegue affermando che il sole non darà più il suo splendore. Il sole in quella cultura rappresentava le divinità pagane.
Gesù, in questa azione di cambiamento dell’umanità, chiede la collaborazione dei suoi discepoli. L’annuncio del vangelo del vero Dio porterà l’eclisse delle false divinità e, dice Gesù, gli astri cominceranno a cadere.
Chi sono questi astri? Gli astri erano immagini dei re, dei potenti, degli imperatori, che sulle divinità basavano il loro potere. Quando l’annuncio del vangelo oscura questa divinità, questi re, questi prìncipi, uno dopo l’altro, cadono. È l’inizio di un cambiamento dell’umanità e Gesù dice: così vedrete in cielo il segno del figlio dell’uomo.
Chi è questo figlio dell’uomo? È il titolo che Gesù più attribuisce a se stesso nei vangeli, insieme a figlio di Dio. L’espressione è presa dal libro del profeta Daniele, nel capitolo settimo: il profeta, in un sogno, vede sorgere dal mare – il mare Mediterraneo – quattro bestie. Sono immagini dei poteri politici, conosciuti, per la loro ferocia, uno più brutale dell’altro.
La prima bestia rappresenta l’ impero Babilonese, poi quello dei Medi, terzo dei Persiani. La quarta è talmente orrenda che il profeta non sa neanche come descriverla, e rappresenta Alessandro Magno.
Dio distruggerà questi poteri politici disumani, e darà il suo potere ad un figlio dell’uomo; espressione che significa l’uomo. Cioè l’azione di Dio nell’umanità è di eliminare tutto quello che è disumano per far trionfare l’umano.
Allora, quando Gesù parla di sé come il figlio dell’uomo, cosa significa? Gesù è il figlio di Dio che manifesta Dio nella sua condizione umana, ma è il figlio dell’uomo, in quanto rappresenta l’uomo nella sua condizione divina. E la condizione divina non è un privilegio esclusivo di Gesù, ma è un’offerta a tutti quelli che lo accolgono e che lo vogliono seguire.
Negli annunci della passione, Gesù dirà che tutto l’odio, l’astio, la ferocia dell’istituzione religiosa non saranno contro il Cristo, cioè il Messia, perché il Messia è uno e, una volta eliminato, l’istituzione potrebbe dormire sonni tranquilli, ma sarà contro il figlio dell’uomo, e questo è pericoloso, perché non è soltanto Gesù, ma tutti coloro che lo seguono. Ricordiamo che l’ordine di cattura non fu soltanto per Gesù, ma per tutti i suoi discepoli. È dottrina pericolosa questa!
Quindi Gesù, quando annuncia la passione, dice che è il figlio dell’uomo sarà condannato, sarà ammazzato, ma poi risusciterà. La condizione divina allora non è un privilegio di Gesù, ma è offerta a tutti quelli che lo seguono.
Ma, dice Gesù, bisogna stare attenti perché – e qui è il riferimento ai giorni di Noè – “nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano”, tutte azioni normali, ma è necessario stare attenti che questa offerta di pienezza di vita non venga distratta da quella che è la routine quotidiana. Il fatto del diluvio non fu la fine del mondo, ma fu l’inizio di un’umanità nuova. E perché questa umanità nuova possa iniziare, Gesù ha bisogno di collaborazione.
La linea di Gesù è l’umanizzazione della società; egli è il figlio dell’uomo, cioè la persona pienamente umana, completamente umana nella quale è inserita la vita divina.
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CRISTO RE – 24 novembre 2019
SIGNORE, RICORDATI DI ME QUANDO ENTRERAI NEL TUO REGNO
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Lc 23,35-43
[In quel tempo, dopo che ebbero crocifisso Gesù,]
il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto».
Anche i soldati lo deridevano; gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso».
Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».
Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
*
Il brano di oggi lo possiamo definire l’ultima tentazione di Gesù. Gesù nel deserto era stato tentato dal “diavolo”, dal “Satana”: le tentazioni erano delle seduzioni: infatti il Satana non si proponeva come un rivale, come un nemico di Gesù, ma come un valido aiutante. Egli proponeva di usare le sue capacità di figlio di Dio per salvare se stesso, per avere il potere e, soprattutto, per essere accolto e riconosciuto dalla gente. E Gesù aveva rifiutato. Ebbene, le tentazioni nel vangelo di Luca terminano con una frase sibillina; scrive l’evangelista che “Il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato”, meglio tradurlo con “al tempo opportuno”, o “occasione propizia”: infatti per indicare il tempo opportuno fissato adopera il termine greco kairós, che significa un’occasione da non perdere. Ebbene, questa è l’occasione nella quale il diavolo si ripresenta.
Scrive l’evangelista: “Il popolo stava a vedere”. Non è un vedere passivo; è lo stesso popolo, deluso da Gesù perché non è il messia atteso dalla tradizione, il figlio di Davide, che voleva riconquistare il regno, lo ha rifiutato ed è il popolo che ha chiesto che questo Gesù venga crocifisso. Quindi questo stare a vedere da parte del popolo, non è nell’atteggiamento passivo, ma attivo: è gente attiva che brama di vedere come vanno le cose.
“I capi invece lo deridevano dicendo: «Ha salvato gli altri! Salvi se stesso»”. Ritornano, e saranno ripetute per tre volte le tentazioni del deserto, e il diavolo che diceva “Se sei il figlio di Dio”.
“«Se è lui il figlio di Dio, l’eletto»”. I capi deridono Gesù, lo prendono in giro e sono gli strumenti del Satana che invitano Gesù, che è il figlio di Dio, ad usare le sue capacità e il suo potere per salvare se stesso.
Ma Gesù non ha usato tutte le sue capacità e il suo potere per salvare se stesso, ma per salvare gli altri. E i capi lo prendono in giro. E’ “«l’eletto di Dio»” che è stato abbandonato.
“Anche i soldati lo deridevano”. Gesù ha tutti contro: il popolo, i capi, i soldati: “E gli si accostavano per porgergli dell’aceto”, mentre il vino nella Bibbia è simbolo d’amore, l’aceto è simbolo di odio. Quindi con questo gesto dimostrano tutto il loro odio e anche loro dicevano, come il diavolo e come i capi, “«Se tu sei re dei Giudei, salva te stesso»”. Quindi lo sfidano di nuovo: è la tentazione del Satana di usare le sue capacità a proprio vantaggio.
“Sopra di lui c’era anche una scritta” – una scritta derisoria – “Costui è il re dei Giudei”, letteralmente “Il re dei Giudei è questo”. È una scritta molto dispregiativa, molto derisoria: “Guardate che fine ha fatto il re dei Giudei”.
Gesù è insultato, deriso da tutti: dal popolo, dai capi, dai soldati, e perfino dai malfattori crocifissi con lui: “Uno dei malfattori appesi lo insultava «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi»”: ritorna l’ultima volta, l’estrema e definitiva tentazione – il numero tre nella simbologia ebraica significa ciò che è definitivo, ciò che è pieno, ciò che è completo -: questo è il significato: “Sei il figlio di Dio? Sei il messia? Usa le tue capacità per salvare te stesso”. Ma Gesù la sua capacità l’ha usata per salvare gli altri, non se stesso. Quindi ritorna l’estrema tentazione del diavolo.
“L’altro invece lo rimproverava dicendo “«Non hai alcun timore di Dio tu che sei condannato alla stessa pena?»” Il fatto che Gesù sia stato condannato con dei malfattori significa che è ritenuto anche lui un elemento pericoloso. La croce era la condanna riservata alla feccia della società, proprio alle persone che avevano commesso i crimini più gravi.
E quindi Gesù viene accomunato a queste persone: “«Noi giustamente»” – infatti la croce era un supplizio per i delitti più tremendi – “«perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male»”. Qui Luca anticipa quello che poi porrà in bocca a Pietro negli Atti degli Apostoli come compendio dell’esistenza di Gesù. E’ una bellissima espressione che si trova negli Atti (10,38b) dove Pietro dice: “Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti quelli che stavano sotto il potere del diavolo perché Dio era con lui”. Tutto questo è concentrato in questo “non ha fatto nulla di male!”: è la definizione di Gesù.
A Gesù si rivolge un malfattore, un criminale, probabilmente la persona ritenuta la più lontana da Dio, la più esclusa da Dio, una persona che non ha meriti, né virtù da proporre. Eppure si rivolge a Gesù e gli dice “«RICORDATI DI ME QUANDO ENTRERAI NEL TUO REGNO»”. La persona più lontana da Dio è l’unica che riconosce Gesù come re e chiede di essere ricordato nel suo regno.
Ebbene, Gesù fa molto di più di quello che uno può immaginare e sognare. Gesù non si ricorda il male che ha fatto, ma lo porta con sé. L’immagine di Gesù che ora ci viene presentata è quella del pastore che cerca e trova la pecora perduta, le comunica le sue stesse forze e la pone sopra le sue spalle. Infatti gli risponde Gesù: “«In verità…»” – un’affermazione solenne – “«…io ti dico: oggi sarai con me in paradiso»”. Quindi Gesù non si ricorderà di lui soltanto quando sarà in paradiso, ma oggi lo porta in Paradiso, perché il Dio che si manifesta in Gesù non è il Dio che guarda i meriti – lui è un bandito, un malfattore, non ha nessun merito – ma Dio non è un Dio che guarda le virtù; il malfattore infatti non ha nessuna virtù, ma è il Dio che guarda i bisogni e le necessità, è un Padre che concede il suo amore come un regalo non come un premio: così fa Gesù.
La prima persona che con Gesù entra nel regno di Dio, nel regno dei cieli, in quello che è chiamato paradiso. È l’unica volta che appare il termine paradiso nei vangeli. Il termine ‘paradiso‘ è una parola che deriva dall’Iran e significa ‘parco, tenuta, grande giardino’, e appare soltanto tre volte nel Nuovo Testamento. Gesù evita di parlare di paradiso, parla sempre di vita che continua, di risurrezione, ma qui a quest’uomo agonizzante con lui non può fare una lezione di catechismo e parla secondo i termini che quest’uomo può capire: “«Oggi tu sarai con me in paradiso!»”. Ebbene, da ora in avanti le porte del paradiso resteranno aperte per tutti quelli che riconoscono Gesù come re, qualunque sia il loro passato. Questa è la buona notizia annunciata da Gesù!
Ernesto Balducci – CRISTO RE – da: “Gli ultimi tempi” – vol 3
…Gesù è venuto a inaugurare un regno in cui la legge è il servizio per gli altri, il capovolgimento del do-minio.
Noi diciamo «AMORE» ma la parola è troppo vaporosa: con essa si deve intendere un esistere per gli altri. Gesù è, in assoluto, l’uomo che è vissuto per gli altri, senza niente per sé, nemmeno una tenda dove rifugiarsi. Questa esistenza oblativa per gli altri è il mistero di Gesù ed è la rivelazione del suo regno.
E singolare il fatto che il primo cittadino di questo regno sia un ladrone. La parola ladrone, a quanto dicono gli esegeti, è una perfida traduzione. In realtà si trattava, come diciamo noi col linguaggio attuale, di un terrorista, di un oppositore che aveva usato le armi e quindi era stato condannato a morte. Io accetto questa esegesi perché molto plausibile. Accanto a Gesù egli si trova in qualche modo affratellato perché anche il terrorista non vuole questo mondo. In realtà lo vuole perché usa 1’arma di questo mondo, cioè la violenza.
Si rimane in questo mondo quando si usa la violenza: sia dall’alto che dal basso, anche dal basso in alto. Non se ne esce. Il ladrone però non voleva questo mondo. Ecco dov’ era il legame di fraternità con Gesù che non voleva questo mondo, che lo ha condannato, per proporre l’altro mondo, quello dell’amore.
Il buon ladrone intuisce questo e si pente. Non si pente però davanti ad un tribunale. Gesù a questo delinquente apre lo spazio del regno suo.
Noi utilizziamo il linguaggio che ci è più consueto: noi aspiriamo a un mondo in cui ci sia la riconciliazione fra tutti gli esseri umani, Noi ci muoviamo verso questo evento anticipando nelle realizzazioni….
Sono molti quelli che stanno morendo di fame e che non vedono i nostri televisori, non leggono i nostri giornali, non si curano delle nostre cronache. Io sono con loro, devo stare dalla loro parte. Per guardare in modo radicale il nostro mondo non lo guardo dalla piattaforma di privilegio in cui pur sono, mi sforzo di vederlo con l’occhio di colui che ne è fuori.
Allora, mentre mi rallegro per quel che avviene, attendo ancora che questa riconciliazione ci sia, ma abbia come misura i reietti e non coloro che vivono in un perimetro di relativo privilegio.
Certo ogni atto di riconciliazione mi dà gioia. Non solo gli uomini, ma tutte le cose, la realtà intera. Allora il nostro sguardo si dilata, abbraccia anche la riconciliazione fra l’uomo e la natura; sappiamo che il mondo ci sta morendo sotto gli occhi in quanto non abbiamo riconciliato le cose, ma le abbiamo manipolate, snaturate.
Guardiamo ad un mondo di giustizia, la sperequazione, soprattutto economica, non può mai essere a base della pace. Il nostro è un mondo ingiusto, progressivamente ingiusto. Non si sta liberando dalle ingiustizie, le sta aumentando. E la violenza dell’uomo sta rovinando i cieli, la terra ed il mare.
Allora ogni impegno che si muove verso rapporti di pace tra l’uomo e le cose, tra l’uomo e l’uomo, tra l’uomo e la donna … va nel senso di questa sovranità.
Tutti nel segno della predilezione per coloro che nel regno di Dio sono i Piccoli, quelli che sono all’angolo.
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XXXIII TEMPO ORDINARIO – 17 novembre 2019
CON LA VOSTRA PERSEVERANZA
SALVERETE LA VOSTRA VITA
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Lc 21,5-19
[In quel tempo,]
mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».
Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro!
Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, NON VI TERRORIZZATE, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro:
«Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza.
Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere.
Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto.
Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».
*
Per la comprensione del brano di questa domenica del vangelo di Luca 21, da 5 a 19 bisogna rifarsi alla storia di Israele e risalire a ben sette secoli prima, quando Sennacherib, il temibile re di Assiria, dopo aver devastato ben 46 città, cinse d’assedio pure Gerusalemme. Ebbene, l’ultima notte – la notte della paura per gli abitanti di Gerusalemme – quando pensavano che ormai il giorno dopo per loro sarebbe stato la fine, quella notte portò una grande sorpresa.
Al mattino non c’erano più gli occupanti, non c’erano più gli invasori; Sennacherib aveva tolto le tende. Questo venne interpretato nel II Libro dei Re 19, 35 come un’azione dell’angelo del Signore che colpì ben 185.000 dei guerrieri di Sennacherib.
Che cos’era successo? Probabilmente il re Ezechia aveva pagato il suo tributo, ma la tradizione pensò che era intervenuto Dio. Questo fece credere che, nel momento di massimo pericolo per Gerusalemme, ci sarebbe stato l’intervento divino che l’avrebbe salvata.
Questo fatto aveva dato luogo alla certezza, alla speranza che nel momento di maggior pericolo per Gerusalemme Dio sarebbe intervenuto. E veniva cantato nel salmo 46, versetto 6: “Dio è in mezzo ad essa, non potrà vacillare”: quindi quando Gerusalemme si trova nel momento di massimo pericolo Dio interviene.
Questo fa comprendere allora la domanda degli ascoltatori, probabilmente i discepoli, alle azioni di Gesù, scrive l’evangelista: “Mentre alcuni parlavano del tempio che era ornato di belle pietre e di doni votivi”. Il tempio di Gerusalemme, iniziato da Erode il Grande, era una delle magnificenze dell’epoca, uno splendore di ricchezze e di lusso. Era uno dei posti sacri più belli dell’antichità.
Ebbene, Gesù annuncia che “«Verranno giorni nei quali di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta»”. E’ quello che avverrà infatti con l’assedio dei romani nel 70, quando letteralmente scalzeranno le mura che componevano il tempio, le demoliranno fin sotto. Ebbene, di fronte a questo annuncio, gli ascoltatori, i discepoli, non solo non si spaventano, ma sembrano quasi eccitati.
“Gli domandarono: «Maestro, quando accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?»” Ecco, loro pensano, come era tradizione di Israele, che nel momento di massimo pericolo Dio sarebbe intervenuto. Quindi sperano in un intervento divino che impedisca questa catastrofe. La reazione degli ascoltatori non denota spavento, ma interesse.
Ebbene, Gesù in maniera imperativa dice: “«Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome …»” – cioè usurpando la sua persona – “«.. dicendo ‘Io sono’»”, che è il nome divino, quindi rivendicando di portare il messaggio divino.
“«Oppure ‘Il tempo è vicino’»” – nel dire “tempo”, l’evangelista adopera il termine kairós, che, a differenza di chrónos, che indica il tempo del calendario, significa un tempo propizio, un tempo opportuno, l’occasione; potremmo tradurre – “«’…l’occasione è vicina’»”. Gesù è molto chiaro, “«Non andate dietro a loro!»”
Gesù invita a non porre nessuna speranza in un intervento straordinario da parte di Dio, un intervento che impedisca la catastrofe. Ma, afferma Gesù, “«Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono»” – questo termine indica la volontà divina – “«avvenire queste cose, ma non è subito la fine»”.
Cioè, l’inaugurazione del regno di Dio è un susseguirsi di tappe di liberazione nella storia, ma la caduta di Gerusalemme e del suo tempio, non significa che arrivi subito l’inizio del regno di Dio. E’ una delle tappe che prepareranno la realizzazione di questo regno nella storia.
E poi Gesù, adoperando il linguaggio tipico dei profeti con i quali preannunciavano i grandi cambiamenti o sconvolgimenti sociali, dice: “«Si solleverà nazione contro nazione, regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, …»”, sono tutte immagini: il terremoto indica la violenza e la rapidità di una invasione. “«… Carestie e pestilenze»” – le conseguenze inevitabili di queste invasioni – “«Vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo»”, non ‘nel cielo’, ma ‘dal cielo’, cioè dalla sfera divina.
Ed ecco l’annuncio che Gesù dà a questi discepoli galvanizzati da questa prospettiva di un intervento divino a salvezza di Gerusalemme, che Gesù smentisce, “«Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi»”;
e Gesù presenta i tre valori sacri – Dio, patria e famiglia – che si vedono minacciati da Gesù. Sono i tre valori che si basano sul potere. L’istituzione religiosa, che adopera Dio per dominare le persone, la nazione dove il re e i potenti dominano le persone e la famiglia dove il maschio era il capo indiscusso dei suoi familiari.
Sono i tre ambiti dove si esercita il potere, l’uno si fa scudo e si difende con l’aiuto dell’altro, che si vedono minacciati da quest’amore-servizio proposto da Gesù.
Allora, dice Gesù, “«Prima di questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni…»” – quindi si tratta della persecuzione per motivi religiosi – “«…e trascinandovi davanti a re e governatori…»” – la persecuzione per motivi civili. E tutto questo – “«…a causa del mio nome»”, a causa dell’adesione a Gesù e al suo messaggio.
Ma tutto questo sarà occasione per dare testimonianza e si vedrà che i difensori di questi valori sacri sono, in realtà, i nemici degli uomini.
Gesù a Dio, patria e famiglia, nomi che richiamano l’imposizione di valori tradizionali, proporrà:
– di sostituire a Dio – nome comune di tutte le religioni – il Padre. Mentre in nome di Dio si può togliere la vita alle persone, in nome del Padre si può soltanto dare la propria;
– di sostituire alla patria con il regno di Dio, che non conosce limiti e confini, ma un amore universale;
– e di sostituire la famiglia, quella contraddistinta e legata dai vincoli del sangue, dalla condivisione di un ideale: l’amore, che allarga le dimensioni a tutta l’umanità.
E quindi questa persecuzione che si scatena dimostrerà che i difensori di questi falsi valori sono nemici dell’umanità.
E Gesù annuncia: “«Non preparate prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza…»”, perché, quando si vive in sintonia con Gesù per il bene dell’uomo, si vive la sua stessa vita, si assorbe il suo stesso linguaggio, che emana dalla vita del credente: “«…cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere»”.
L’evangelista adopera i termini che poi adopererà negli Atti degli Apostoli, la seconda parte di questo vangelo, per l’annuncio del primo martire cristiano, Stefano, i cui avversari non potevano resistere né controbattere alle sue affermazioni. E Stefano verrà accusato di aver parlato contro il tempio e contro la Legge: chi tocca questi valori sacri deve morire.
Quindi il messaggio universale del regno di Dio – che annulla il privilegio di Israele e il suo sogno di potere e di predominio – scatena una reazione tremenda contro i seguaci di Gesù, al punto che, conclude Gesù: “«Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi,…»”.
L’evangelista qui si richiama a una Legge prevista nel libro del Deuteronomio (13), dove, in caso di idolatria, si è autorizzati ad uccidere persino i propri familiari.
L’adesione a Gesù significherà, agli occhi della società di Israele, un tale sovvertimento dei valori, un crimine così grande da essere paragonato all’idolatria che riesce ad annullare persino i legami più stretti. Quindi l’adesione al messaggio di Gesù viene considerata come una idolatria, e per questo si può anche ammazzare la persona, anche se è il proprio familiare.
Ed ecco l’assicurazione di Gesù: – tutto questo non è un messaggio di angoscia, ma di speranza – di fronte alle inevitabili persecuzioni che il vivere con Gesù e come Gesù comporterà nella vita della comunità di credenti: “«…ma nemmeno un capello»” – il capello è la parte minima che una persona ha sul capo – “«andrà perduto…»”, perché, conclude Gesù, “«…con la vostra perseveranza», – con la vostra fedeltà al messaggio della buona notizia – “«salverete la vostra vita»”.
Il termine adoperato per vita è psyché, che indica la vita vera, quella che è capace di resistere alla morte. Anche se ci saranno le persecuzioni, anche se vi toglieranno la vita fisica, continuerà per sempre la vostra vita, quella vera, la realtà profonda.
Che non sia un messaggio di paura, di angoscia, ma di speranza, lo si vede continuando a leggere il brano al versetto 28. Gesù dice: “E quando cominceranno ad accadere queste cose alzatevi e levate il capo perché la vostra liberazione è vicina”. Quindi tutte queste persecuzioni, tutto questo male che vi si rivolta contro è una denuncia che quanti lo fanno sono i nemici dell’umanità ed è una conferma che con Gesù voi siete a favore degli uomini
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XXXII TEMPO ORDINARIO – 10 novembre 2019
DIO NON È DEI MORTI, MA DEI VIVENTI
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Lc 20, 27-38
(In quel tempo)
si avvicinarono a Gesù alcuni SADDUCÈI – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni (di quel mondo) della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio.
Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».
*
Dopo che Gesù ha denunciato nel tempio le massime autorità di aver trasformato il tempio in un covo di ladri, si scatena contro di lui un’offensiva da parte di tutto il sinedrio, dai sommi sacerdoti agli scribi e agli anziani, più i farisei, che erano rimasti meravigliati dalla sua risposta e avevano taciuto. Nei versetti precedenti era riferita la risposta di Gesù alla domanda insidiosa sulla moneta con l’effigie di Cesare.
Adesso è la volta dei sadducei, che fanno parte dell’aristocrazia sacerdotale ed economica del paese.
Scrive Luca al capitolo 20 del suo vangelo versetto 27: “Gli si avvicinarono alcuni sadducei…”. Il nome deriva da Sadoc, che era un sacerdote al tempo del re Davide, che consacrò Salomone al posto del legittimo re, Adonìa, come re d’Israele e venne ricompensato con la carica di sommo sacerdote; fu il primo sommo sacerdote della storia d’Israele;
“…i quali dicono che non c’è rIsurrezione”. Il termine “risurrezione” appare nella Bibbia la prima volta nel libro di Daniele, il capitolo 12, ma i sadducei, estremamente conservatori e tradizionalisti, riconoscono come parola ispirata, cioè parola divina, soltanto i libri di Mosè, la Torah, i primi cinque libri della Legge. Quindi non riconoscono né i profeti né gli scritti successivi ; e la risurrezione era una teoria abbastanza recente, una dottrina, portata avanti dai farisei, i quali annunciavano la 2a risurrezione dei giusti.
Detentori del potere economico – l’aristocrazia – i sadducei, non credono alla risurrezione…. stanno tanto bene di qua che non hanno bisogno di sperare in una vita migliore nell’aldilà!
“E gli posero questa domanda: maestro,…”: si rivolgono a Gesù con la parola “maestro”, questa tipica parola di falsità, perché non vanno per apprendere, ma vogliono giudicare e condannare; “…Mosè ci ha prescritto…” – si rifanno a Mosè perché è l’unico del quale essi riconoscono l’autorità – “se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. Questa era la legge chiamata del levirato, da “levir”, cognato, contenuta nel libro del Deuteronomio e citata anche in altri testi della Bibbia, che era stata stabilita perché il nome della persona non venisse estinto….: se una donna rimaneva vedova senza aver avuto figli, il cognato aveva l’obbligo di concepire con lei, e il bambino che sarebbe nato avrebbe portato il nome del marito defunto, così il suo nome si sarebbe perpetuato.
I sadducei, vogliono screditare Gesù con un racconto ridicolo: “C’erano dunque sette fratelli e il primo, dopo aver preso moglie, morì senza un figlio”. Si rifanno alla storia biblica di Tobia e Sara, la donna alla quale si narra che morirono sette mariti la stessa notte delle nozze (Tb 3,7seg). “Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciargli “figli”. Con questo i sadducei cercano di ridicolizzare il fatto della risurrezione e quindi di far cadere Gesù stesso nel ridicolo, negandogli così l’appoggio entusiastico da parte delle folle per poterlo poi prendere, catturare e uccidere.
“Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque alla resurrezione di chi sarà moglie?”. Qui il problema non è affettivo di chi avrà questa donna come moglie; la donna era considerata come lo strumento che serviva esclusivamente per fare figli per assicurare la discendenza del marito. Allora il problema non riguarda un problema affettivo, ma riguarda la discendenza.
Il problema posto dai Sadducei era questo: chi avrà la sua discendenza di questi sette mariti che hanno avuto questa donna? Perché, continuano i sadducei, “…perché tutti e sette l’hanno avuta in moglie”. Quali di questi sette fratelli potrà vantare da lei la sua discendenza?
E Gesù risponde ai sadducei ridicolizzandoli a sua volta “I figli di questo mondo” – afferma Gesù – “prendono moglie e prendono marito, ma quelli che sono giudicati degni della vita futura” – letteralmente l’evangelista scrive “di quel mondo”, il mondo dove la morte non interrompe la vita – “e della risurrezione dai morti non prendono né moglie né marito”.
Ed ecco la spiegazione di Gesù: “Infatti non possono più morire”; l’accento nel brano è posto sul fatto che la morte non interrompe la vita, ma permette all’esistenza di manifestarsi in una forma nuova, piena e definitiva. E Gesù afferma: “Non possono più morire perché sono uguali agli angeli”: con molta ironia Gesù parla degli angeli proprio perché i sadducei non credevano all’esistenza degli angeli.
Gli angeli da chi ricevono la vita? Non certo dai genitori, ma da Dio. Allora Gesù fa comprendere che non c’è più bisogno di rendere eterna la propria esistenza attraverso la nascita di un figlio, perché – come gli angeli – la vita la si riceve direttamente da Dio e, ricevendola da Dio, è eterna, indistruttibile.
“infatti “sono figli della risurrezione, sono figli di Dio”, cioè generati da Dio. È Dio che comunica loro la sua stessa vita e la vita che viene da Dio è una vita indistruttibile.
Loro si sono rifatti a Mosè, e Gesù cita proprio Mosè trattandoli da ignoranti: “Che poi i morti risorgono lo ha indicato anche Mosè…” – quindi lo dovevano sapere – “…a proposito del roveto quando dice: il signore è il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe”. È il famoso episodio del roveto ardente, quando Dio si è manifestato e ha parlato dei tre personaggi ai quali, per un intervento divino, è stato possibile avere una discendenza dalle mogli, anche se erano sterili.
E Gesù continua, ed è l’affermazione più importante di questo brano: “Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”. Gesù afferma: Dio non è il Dio che risuscita i morti, questa era la dottrina dei farisei, ma Dio comunica la vita di una qualità tale che la rende indistruttibile, quindi capace di superare la morte.
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J.M. CASTILLO – Lc 20, 27-38
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Per comprendere questo racconto, in particolare il caso stravagante posto dai sadducei, bisogna tenere presente che:
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la teologia del partito sadduceo non ammetteva la resurrezione dei morti, un tema sul quale si differenziavano radicalmente dai farisei, che credevano nella resurrezione dopo la morte;
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nell’antico Oriente era molto diffusa la “legge del levirato” (dal latino levir, cognato), che voleva perpetuare il nome ed assicurare il mantenimento della posterità, cioè della proprietà familiare. Questa legge era stata accettata dai giudei (Dt 25,5-10; Gen 38,8). Tutto ciò dimostra, tra le altre cose, che, a partire da molto tempo fa, il matrimonio è stato inteso come un’«unità economica» più che come l’«unione affettiva», emozionale o sessuale di un uomo e di una donna che sono innamorati.
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Quello che interessa di meno in questo racconto è il caso grottesco presentato a Gesù dai farisei. E nella risposta di Gesù non interessa neanche il tema della sessualità, in quanto qui il vangelo starebbe insegnando che il sesso è questione di questa vita e non dell’altra dopo la morte. Non dimentichiamo che nella legge del levirato la posta in gioco non era la sessualità, ma la discendenza ed il possesso dell’eredità, cosa che, nel caso in cui ci sia un’altra vita, non ci interessa più.
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Gesù vuole sottolineare che in ogni caso il Dio che si rivela a noi in Gesù è il Dio di vita. Ossia è un Dio necessariamente legato alla vita, non alla morte. Ecco perché, se Dio continua ad essere Dio per quelli che se ne vanno da questo mondo, il loro destino non è la morte, ma la vita. Non sappiamo come sarà quella vita. Quello che sappiamo è che con la morte non finisce la vita, la vita continua.
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XXVIII TEMPO ORDINARIO – 13 ottobre 2019
NON SI È TROVATO NESSUNO CHE TORNASSE INDIETRO A RENDERE GLORIA A DIO,
ALL’INFUORI DI QUESTO STRANIERO
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Lc 17,11-19
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!».
Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
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Il capitolo 17 del vangelo di Luca, versetti 11-19, presenta un brano che è esclusivo di questo evangelista. Per interpretarlo ci facciamo aiutare da quelle chiavi di lettura, da quelle cifre, da quelle indicazioni che l’autore, l’evangelista stesso, pone nel testo per una retta comprensione.
Vediamo allora questo brano.
Lungo il cammino verso Gerusalemme: Gerusalemme, nella lingua greca si scrive in due maniere. Una è Ierusalem, che è la traslitterazione del nome sacro ebraico Yerushalaym, che indica la città santa, l’istituzione. L’altro invece è il nome geografico, Jerozolima. Qui c’è il primo nome, Ierusalem, che indica che Gesù sta andando verso quella che è l’istituzione sacrale, il punto più importante della religione per il suo popolo. E sarà proprio là dove troverà la morte.
Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. E’ strano questo itinerario; per la comprensione del testo bisogna tener presente che, mentre la Galilea è la regione al nord della Palestina, al centro c’è la Samaria, e poi al sud c’è la Giudea con la capitale Gerusalemme. Quindi l’evangelista avrebbe dovuto scrivere “attraversava la Galilea”, quindi al nord, “e la Samaria per andare verso Gerusalemme”.
Perché l’evangelista mette questo itinerario strano? Attraversava la Samaria e la Galilea… Perché vuole centrare l’attenzione sulla Galilea, cioè sul territorio di Israele. È lì che succede questo fatto.
Entrando in un villaggio… Questa è un’altra delle indicazioni che l’evangelista (tutti gli evangelisti in effetti) pone per la comprensione del testo. Il villaggio, anonimo, nei vangeli ha sempre il significato di incomprensione o addirittura di opposizione e ostilità a Gesù e alla novità che lui porta. Perché il villaggio – si sa – è il luogo dove le mode, le novità arrivano sempre in ritardo, ma poi attecchiscono e quando mettono radici diventano una tradizione che è difficile sradicare. Quindi il villaggio nel vangelo significa il luogo del “si è sempre fatto così” e dove le novità vengono viste con sospetto. Questo villaggio è anonimo quindi indica questo tipo di ambiente.
Gli vennero incontro dieci lebbrosi. Questo è impossibile. E’ impossibile perché i lebbrosi, dal momento in cui veniva certificata l’esistenza, erano espulsi dal villaggio, dovevano vivere al di fuori del villaggio, in un luogo appartato.
Come mai l’evangelista dice che “entrando in un villaggio gli vennero incontro dieci lebbrosi”? I lebbrosi non possono vivere in un villaggio. Luca ci sta dicendo che la lebbra, questa impurità, si deve proprio al fatto che dimorano in questo villaggio. Chi dimora nella tradizione, chi rifiuta le novità che Dio propone, non ha più alcuna comunicazione con il Signore, poiché essere impuro significa non avere più alcuna comunicazione. Pertanto questa lebbra, questa impurità, si deve al fatto che vivono in questo villaggio.
Che si fermarono a distanza… vivono nel villaggio, nel luogo della tradizione, e osservano la legge. Il libro del Levitico 13,45-46 dà delle indicazioni precise su come si deve comportare il lebbroso.
E dissero ad alta voce: “Gesù, maestro…” letteralmente lo chiamano “capo”, proprio come i suoi discepoli, “Abbi pietà di noi!”. Quindi da una parte vivono nella tradizione e dall’altra vedono in Gesù la speranza di salvezza che ci può essere. Gesù non guarisce. Appena li vide, Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. Perché?
A quel tempo, sotto il nome lebbra, si intendeva qualunque malattia della pelle. E ci sono alcune malattie che, naturalmente, si possono guarire. Ma, per essere riammessi nel villaggio, bisognava andare dal sacerdote a Gerusalemme che certificasse la scomparsa di questa infezione, di questa malattia. Quindi si otteneva una sorta di certificato per essere riammessi nel villaggio. Allora Gesù per questo dice “Andate a presentarvi ai sacerdoti”.
E mentre essi andavano, furono purificati. E’ uscendo dal villaggio che diventano purificati. Gesù non guarisce, uscendo dal villaggio i lebbrosi guariscono. Quindi è la prova che questa impurità era dovuta alla loro permanenza in questo ambiente di tradizione.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, atteggiamento tipico dei discepoli, per ringraziarlo. Dal verbo ringraziare deriva l’eucaristia che significa appunto “ringraziamento”.
Ed ecco la novità, la sorpresa dell’evangelista: Era un Samaritano. E’ interessante che, mentre la malattia accomuna questi lebbrosi giudei, galilei e samaritani, poi, una volta guariti, l’unico che mostra un sentimento di gratitudine e di riconoscenza non è uno appartenente al popolo d’Israele, ma quello che era considerato l’essere più lontano, peccatore, impuro fin dalla nascita, escluso comunque da ogni rapporto con Dio. Era un Samaritano.
E’ una caratteristica di questo evangelista vedere che i modelli della fede in questo vangelo sono sempre gli stranieri o sempre le persone più lontane. Gesù già aveva elogiato la fede del centurione, la fede della prostituta, dell’emorroissa e quella del cieco. Più le persone sono ritenute lontane da Dio e più in loro c’è questo sentimento di gratitudine; percepiscono subito i segni di Dio nella loro vita.
Ma Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio…”; rendere gloria a Dio era il privilegio di Israele. Ebbene questo privilegio che era esclusivo di Israele, ora è per tutta l’umanità, compresi i samaritani. “All’infuori di questo straniero?”. È l’unica volta che nel vangelo appare il temine straniero, e straniero indicava il nemico, il rifiutato, ma qui in maniera positiva.
E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». Gesù, secondo Luca, continua questo insegnamento su che cos’è la fede. La fede non è un dono che Dio dà ad alcuni, ma la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio fa a tutti. Quelli che percepiscono questo amore e rispondono, dimostrano fede.
Qui abbiamo visto, Gesù stesso lo dice: tutti i dieci sono stati guariti, ma soltanto uno è tornato, ha risposto a questa guarigione. E questa è la fede. Quindi la fede non è un dono che Dio fa ad alcuni e ad altri meno, ma la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio fa. E che cos’è la fede?
La fede è saper rispondere positivamente a quegli avvenimenti che la vita ci fa incontrare.
XXVII TEMPO ORDINARIO – 6 ottobre 2019
SE AVESTE FEDE!
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Lc 17, 1-4
[1]Disse ancora ai suoi discepoli: «E’ inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono. [2]E’ meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli.
[3]State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli. [4]E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai».
Lc 17,5-10
[In quel tempo,]
Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «SE AVESTE FEDE quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
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I brani che la liturgia ci presenta devono essere sempre inseriti nel contesto, altrimenti il loro significato ne può venire snaturato. Ad esempio la liturgia oggi ci presenta cinque versetti, dal 5 al 10, ma vediamo come iniziava questo capitolo 17.
Gesù inizia con un monito molto severo verso chi è causa di scandalo, e dice sarebbe meglio per lui che si mettesse una pietra da mulino al collo e venisse gettato in mare.
Lo scandalo, cioè ‘far inciampare’ è rivolto ai piccoli; il termine greco adoperato dall’evangelista è mikro…, micrói che significa ‘gli ultimi, gli invisibili’.
Allora Gesù ha parole molto severe e dice: “Chi fa cadere, chi fa inciampare gli ultimi”, gli ultimi della società che avevano pensato di trovare nella comunità di Gesù quell’ideale di amore e di fraternità…. E qual è il motivo dello scandalo? Il motivo dello scandalo lo dice Gesù con parole molto severe: “Attenti a voi ! Se tuo fratello commette una colpa, rimproveralo, ma se si pentirà perdonagli! ”. Quindi il motivo dello scandalo, che fa inciampare, che fa cadere i piccoli, è la mancanza di perdono.
Hanno sentito parlare del gruppo di Gesù, dove l’amore e il perdono vicendevole è l’unica legge, e trovano ancora rancori e risentimenti, come ovunque.
E parlando ai suoi, Gesù dice: “E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te, e sette volte ritornerà a te dicendo ‘ sono pentito ’, tu gli perdonerai ! ”: Così Gesù sta invitando i suoi ad essere figli dell’Altissimo. Gesù aveva detto già nel capitolo 6 che il Padre, l’Altissimo, è colui che ha un amore incondizionato verso gli uomini, che ama pure gli ingrati e i malvagi.
Gesù propone ai suoi discepoli di arrivare a questo livello, di avere un amore simile a quello del Padre, a quello di Dio, cioè un amore incondizionato; e pertanto un perdono illimitato. Questo sembra troppo ai discepoli, che infatti intervengono. Perciò “Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!»”.
Di fronte all’esigenza di Gesù che gli apostoli abbiano un amore simile a quello di Dio, non se ne sentono capaci e chiedono un aiuto al Signore, gli chiedono di accrescere la fede.
Ma la fede non può essere aggiunta o accresciuta da Dio, perché la fede non viene data da Dio, ma è la risposta al dono d’amore che Dio fa a tutti. Come si vedrà in seguito nell’episodio dei dieci lebbrosi, dove solo uno ritornerà indietro; e di questi, che ritorna indietro a ringraziare per questo dono d’amore, Gesù indica la fede: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!” (v. 19)
Quindi la fede non è un dono che Dio fa e quindi può essere accresciuto da Dio, ma la fede è la risposta degli uomini al dono d’amore di Dio. E questo dono d’amore deve essere manifestato in un’uguale offerta d’amore agli altri.
Ecco perché Gesù replica: «Ma il Signore dice: ‘Se aveste fede quanto un granello di senape …’»” – cioè il chicco di senape che proverbialmente è il più piccolo seme – “«… potreste dire a questo gelso»” – o sicomoro – “«Sràdicati e piàntati nel mare»”. Gesù aveva detto: il mare: è il luogo dove deve andare colui che è autore dello scandalo e colui che fomenta lo scandalo. Questa difficoltà sentita dagli apostoli deve essere sradicata!
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Proprio perché invita ad essere figli dell’Altissimo, Gesù continua con parole che sono in aperta contraddizione con quanto aveva affermato in precedenza. Nel capitolo 12 Gesù aveva parlato di un signore che torna a casa a notte fonda, trova i servi ancora in piedi e “li farà mettere a tavola, si cingerà le vesti e si metterà a servirli”.
E’ l’immagine dell’eucaristia, dove il Signore, a quelli che l’hanno accolto e con lui e come lui orientano la propria vita per il bene degli altri, comunica la sua vita, la sua stessa energia, la sua capacità d’amore.
Gesù lo dice parlando di un signore che si cinge le vesti, ma il Padrone dice al servo “cingiti le vesti”: assumi l’atteggiamento di servizio. Gesù aveva parlato di un Signore che fa mettere i suoi a tavola. Ora dice che è Lui che si mette a tavola, e mentre aveva detto che sarebbe passato a servirli, qui dice che lui ordina e comanda: “Servimi!” E continua: “«Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato …»” – ordinare è un verbo che richiama l’obbedienza alla Legge dell’Antico Testamento – “« …dite ‘Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare’.»”
Qual è il significato di questa espressione? Contraddice apertamente quanto Gesù aveva detto poco prima. Gesù vuole rendere i discepoli Figli di Dio, cioè liberi, ma questa libertà si ha vivendo con un amore simile a quello del Padre. Gesù vuole portare i suoi da quella alleanza antica verso la nuova, da quella basata sull’obbedienza alla Legge, a quella dell’accoglienza dell’amore del Padre.
Gesù vuole rendere i discepoli Figli di Dio, ma per farlo bisogna innalzare la soglia del proprio amore; e per fare questo, bisogna abbandonare il rapporto servo-Signore che era stato previsto e chiesto da Mosè. Mosè, servo del Signore, aveva imposto un’alleanza tra dei servi e il loro Signore, un’alleanza basata appunto sull’obbedienza, in cui l’uomo era un servo.
Ma Gesù, il Figlio di Dio, propone un’alleanza tra dei figli e il loro Padre, non più basata sull’obbedienza, ma sulla libertà nell’accoglienza del suo amore. Se non lo faranno, rimarranno sempre nella condizione di servi.
XXVI TEMPO ORDINARIO – 29 settembre 2019
NELLA VITA, TU HAI RICEVUTO I TUOI BENI, E LAZZARO I SUOI MALI;
MA ORA LUI E’ CONSOLATO, TU INVECE SEI IN MEZZO AI TORMENTI
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Lc 16,19-31
[In quel tempo,]
Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti.
Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui.
Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti.
Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”.
Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”.
E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”.
Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
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Per la terza volta appare nel vangelo di Luca l’espressione “uomo ricco” (Ἄνθρωπος πλούσιος). Questa espressione è sempre negativa. E’ già apparsa una prima volta indicando l’uomo stolto, sciocco, ricco, ingordo, che demolisce i granai per costruirne degli altri e il Signore gli dice: “oh stupido! Questa notte muori e tutto quello che hai lasciato, per chi sarà?”
Abbiamo visto la settimana scorsa la stessa espressione nell’uomo ricco che loda il fattore disonesto e Gesù denunciava che i disonesti sono talmente perversi nel loro sistema di ricchezza e di valori, che ammirano i disonesti. E apertamente Gesù denuncia che la ricchezza è sempre disonesta.
Quanto abbiamo letto oggi riferisce per la terza volta di “un uomo ricco”, è la parabola conosciuta come quella del ricco e del povero Lazzaro. E’ il capitolo 16, 19 e segg. di Luca.
Notiamo che l’evangelista precisa che l’insegnamento di Gesù si rivolge in particolare ai farisei.
“«C’era un uomo ricco…»” – e con un’abile pennellata Luca ne fa un ritratto: “«…indossava vestiti di porpora e di lino finissimo…»”. Oggi potremmo dire che vestiva firmato da capo a piedi; la povertà interiore ha bisogno di esprimersi nel lusso esteriore; “«…e ogni giorno si dava a lauti banchetti»”: ha una fame insaziabile; è la fame interiore che crede di sopire ingurgitando dei cibi. L’unica descrizione che Luca dà del ricco è questa; non si dice che – come a volte si pensa – questo ricco sia malvagio, cattivo; nulla di tutto questo. E’ un uomo ricco e, secondo la tradizione biblica ebraica, era benedetto da Dio perché Dio premiava i buoni con la ricchezza e li malediva con la povertà.
“«Un povero, di nome Lazzaro,…»” – l’unica volta che un personaggio delle parabole ha un nome, e questo nome significa ‘Dio aiuta’ – “«…stava alla sua porta, coperto di piaghe,…»” : le piaghe erano considerate, secondo il libro del Deuteronomio 28, un castigo inviato da Dio. Quindi è un uomo che è colpevole della sua miseria e delle sue piaghe;
“«…bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani…»” – cioè gli animali considerati più impuri – “«…che venivano a leccare le sue piaghe»” : infatti è impuro chi vive fra gli impuri.
A sorpresa, Gesù dice: “«Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli…»: l’uomo che sulla terra aveva come unica compagnia gli esseri più impuri, i cani, viene portato dagli angeli, cioè gli esseri più puri, quelli più vicini a Dio. “«…accanto ad Abramo» : per comprendere bene questa parabola di Gesù, notiamo che è rivolta ai farisei che si beffavano di Gesù che aveva detto che non è possibile servire Dio e il denaro, e, proprio perché rivolta ai farisei, Gesù parla con le categorie farisaiche del premio e del castigo da ricevere nell’aldilà. E lo fa secondo un libro conosciutissimo a quell’epoca, il libro di Enoch, dove il regno dei morti veniva considerato un grande baratro, dove il punto più luminoso era il seno di Abramo, il punto più oscuro era dove andavano a finire i malvagi.
“«Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi…» : il termine ‘inferi’ traduce il termine greco ‘ade’ , che significa ‘regno dei morti’ – “«…tra i tormenti, alzò gli occhi»” : e finalmente si accorge di Lazzaro: il ricco di questa parabola non viene condannato per essere stato malvagio nei confronti del povero, per averlo maltrattato, ma semplicemente non si è accorto della sua esistenza. Solo adesso, quando è nel bisogno, finalmente se ne accorge.
Ma i ricchi non cambiano, i ricchi sono animati da una perversione che non è possibile sradicare dalla loro esistenza. E infatti non chiede, ancora comanda: “«’Padre Abramo, mostrami pietà’»” – mostrami misericordia, e ordina – “«’Manda Lazzaro’…»” : lui, il ricco pensa che tutto gli sia dovuto. Lui si serve delle persone, non ha mai servito.
E Abramo gli risponde, sempre facendo riferimento alla teologia farisaica, con il fatto del premio e del castigo: “«’Tu hai ricevuto i tuoi beni e Lazzaro i suoi mali’»” : e quindi, come in terra vivevano su due mondi differenti dove non si incontravano – ripeto il ricco ha ignorato l’esistenza del povero – adesso sono su due mondi completamente distanti.
Ma ecco, l’egoismo del ricco, che non si può sradicare, arriva fino in fondo e dice: “«’Allora padre, ti prego di mandare Lazzaro…’ »” – lui si serve di Lazzaro – “« …’a casa di mio padre perché ho cinque fratelli’…»” : gli interessa soltanto la sua famiglia, non dice “mandalo al popolo, alla gente, mandalo ad annunciare cosa succede se accumulano denari, se non pensano agli altri”. No! Il ricco è incurabilmente egoista, pensa soltanto a sé stesso e ritiene che tutto gli sia dovuto. Allora manda ai suoi fratelli, alla sua famiglia; degli altri non gli interessa.
Ed ecco la risposta di Abramo, “«Hanno Mosè e i Profeti !’»” – cioè quelli che hanno legiferato a favore dei poveri; Mosè ha detto “la parola del Signore è che nessuno sia bisognoso”, i profeti hanno tanto tuonato contro i ricchi, – “«’Ascoltino loro!’»”.
E la replica del ricco: “«No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno’»”.
Ed ecco la sentenza importante e drammatica di Gesù: “«Abramo rispose: ‘Se non ascoltano Mosè’…»”, la parabola è rivolta ai farisei, quelli che si fanno scudo della legge di Mosè e della dottrina, ma la Legge serve soltanto per coprire i propri interessi. Queste persone tanto pie, tanto devote, sono i zelanti custodi della tradizione e della fede, quando non conviene, sono i primi ad ignorare la Legge di cui sono difensori.
“«’Se non ascoltano Mosè e i Profeti non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti’»”: perché Gesù afferma questo? Perché quanti sono stati incapaci di condividere il pane con l’affamato, non riusciranno mai a credere nel Gesù risorto, che è riconoscibile soltanto – come scriverà Luca nell’episodio di Emmaus – nello spezzare del pane.
E’ un monito molto severo contro il cancro della ricchezza. Una persona che è affetta da questa malattia è incurabile e non si guarisce neanche nell’aldilà.
XXV TEMPO ORDINARIO – 22 settembre 2019
NON POTETE SERVIRE DIO E LA RICCHEZZA
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Lc 16,1-13
[In quel tempo, Gesù] diceva anche ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi.
Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”.
Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti.
Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».
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Il brano di Luca – 16,13 – non è di facile comprensione. Il significato, l’insegnamento che l’evangelista vuol dare, però, è molto chiaro: il denaro è uno strumento per gli altri, per farsi degli amici. Ma, invece di usarlo per farsi degli amici, c’è chi si fa amico del denaro e poi ne diventa servo. Quindi anziché servirsene lo si serve.
Solo l’evangelista Luca riporta questa parabola.
“Diceva anche ai discepoli…” – quindi Gesù rivolge questo insegnamento ai discepoli – “…«un uomo ricco»”: questa è una prima chiave di lettura da tenere presente. Tre volte appare nel Vangelo di Luca l’espressione uomo ricco ed è sempre in senso negativo:
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la prima volta è al capitolo 12, 16, quando un uomo ricco guadagna tanto, demolisce i granai, e ne vuole costruire di nuovi, e il Signore gli dice “Oh stupido! stanotte stessa morirai e tutto quello che hai accumulato, per chi sarà?”;
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l’altra è nel seguito di questo brano, sempre al capitolo 16, 19: l’uomo ricco è quello indicato nella parabola del povero Lazzaro, cioè un uomo, anche questo egoista, che non viene condannato perché maltratta l’altro, ma semplicemente perché non se n’è accorto della presenza. Il ricco vive ad un livello tale che il povero non entra nella sua visuale.
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La terza volta è in Luca 16,1 che ci è proposto oggi.
Quindi nelle tre volte in cui viene usato il termine ‘uomo ricco’ , gli viene attribuito sempre un significato negativo, e così lo dobbiamo prendere.
Quest’uomo ricco aveva un amministratore che fu accusato di sperperare i suoi averi. Lo chiama e gli chiede di rendere conto dell’amministrazione e poi gli annuncia che lo dovrà licenziare. Dice: “«Non potrai più amministrare»”.
Cosa fa allora questo amministratore? Si mette di fronte alle possibilità: nella prima considera l’impossibilità fisica: andare a zappare: non ne ha la forza; nell’altra considera l’impossibilità morale: andare a mendicare si vergogna. Dice allora: “«Cosa farò?»”.
Allora questo amministratore fa il furbo perché, quando sarà cacciato da questa casa, qualcuno lo accolga poi in casa sua; cioè pensa di farsi amici gli stessi debitori del padrone.
Chiama quindi i debitori e dice loro: “«Tu quanto devi al mio padrone?» Quello rispose: «Cento barili d’olio». Gli disse: «Prendi la tua ricevuta e scrivi cinquanta»”….
Qui non si capisce bene quale sia l’atteggiamento di questo amministratore. Rinuncia al suo compenso, alla sua percentuale? Non è possibile, perché su cento barili d’olio che egli doveva è eccessivo che la commissione dell’amministratore fosse di cinquanta. Comunque riduce il debito e fa un favore ai debitori. E continua poi ancora nella sua disonestà.
I termini “disonestà, disonesto” sono le parole chiave che ci fanno comprendere questo brano. Perché? Perché “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto”.
Come può lodare una persona disonesta? Il ricco o il disonesto nel vangelo di Luca viene sempre visto in chiave negativa. Questa è l’importanza del brano: Gesù fa una denuncia: Il ricco ammira il ricco; il disonesto ha ammirazione per i disonesti, anche se poi ci rimette, come qui di fatto si esprime questo padrone.
Quindi la perversione totale della ricchezza è tale che altera i criteri e i valori nel guardare le persone e la società: chi è disonesto ammira e sostiene i disonesti, anche se ci deve rimettere.
Ebbene, Gesù prende tutto questo dicendo: “« i figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce»”. Cosa vuol dire Gesù? Gesù loda la capacità di reagire di fronte a un’emergenza. Di fronte all’emergenza quest’uomo è in grado di reagire. Ma ecco il significato più profondo di questo brano: “«…io vi dico: ‘fatevi degli amici con la ricchezza disonesta…‘»”: il termine ‘ricchezza’ è detto mammona, da un termine aramaico mamon, che significa ‘quello che è sicuro, quello che è certo’.
E cos’è che è sicuro, che è certo? Quali sono le cose nelle quali normalmente gli uomini mettono la loro sicurezza? Po Il ssesso, il denaro, il profitto, la ricchezza; allora Gesù chiama questa ricchezza ‘disonesta’, la denuncia che fa Gesù è molto grave: non c’è ricchezza accanto all’onestà! : “«…’perché quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne’!»”.
Quindi: “fatevi amici con questo denaro”: il denaro serve indubbiamente per star bene, ma soprattutto per far star bene. Chi usa il denaro solo per far star bene se stesso si auto-distrugge.
E torna di nuovo questo termine ‘disonesto’.
Dice Gesù: “«Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti.»”
E continua ancora richiamando per la quarta volta il termine ‘disonesto’: “«Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta …»” – Gesù è chiaro, la ricchezza è disonesta – “«chi vi affiderà quella vera?»”
Ed ecco la sentenza finale, il monito molto severo di Gesù, e bisogna leggerlo con molta serietà: “«Nessun servitore può servire due padroni…»”, il termine è ‘signori’, tradotto bene con la parola ‘padroni’, ma il termine greco è kýrios, cioè signore: “«…perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.»”.
Ed ecco la sentenza di Gesù: «Non potete servire Dio e mammona»(= la ricchezza)! La sicurezza o la mettiamo in Dio o la mettiamo nelle ricchezze – e mettere la sicurezza in Dio significa impegnarsi a condividere quello che siamo e quello che abbiamo con chi non ha, sapendo che la nostra ricchezza è Dio … Questo è ciò ha detto Gesù: “Non vi preoccupatevi per la vostra vita, cercate il regno e tutto il resto vi sarà dato in più”: dobbiamo scegliere: o ci fidiamo di Dio e mettiamo la nostra ricchezza, la nostra sicurezza in lui, oppure ci affidiamo a mammona. Ma Gesù dice che è incompatibile servire Dio e servire mammona.
Quanto s’è illuso Gesù! Alle sue spalle sghignazzano quelli che da sempre sono riusciti a servire Dio e mammona, a riverire Dio e a fare i propri interessi. Infatti “i farisei”, le persone super-pie, i primi della classe, i devoti, “…erano attaccati alle cose e si beffavano di lui”.
Quindi … si direbbe che Gesù si è illuso che non si possa servire Dio e mammona; infatti i farisei e le persone pie e religiose, ci riescono da una vita!
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XXIV TEMPO ORDINARIO – 15 settembre 2019
CI SARA’ GIOIA IN CIELO PER UN SOLO PECCATORE CHE SI CONVERTE
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Lc 15,1-32
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.
Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”.
Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”.
Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito 2 più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare.
Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
*
Mentre scribi e farisei avevano l’ambizione di portare il popolo verso Dio, e quindi portarlo attraverso l’osservanza di regole, precetti religiosi, Gesù sceglie una strada diversa. Lui non vuole portare gli uomini verso Dio, perché sa che se si vuole portare gli uomini verso Dio inevitabilmente qualcuno rimane indietro e qualcuno rimane escluso, ma Gesù porta Dio verso gli uomini e Dio verso gli uomini si porta attraverso una sola maniera: la comunicazione della sua misericordia e della sua compassione. Ma proprio scribi e farisei, queste persone tanto pie e tanto devote, anziché essere contenti e collaborare con Gesù nella sua azione, gli sono contrari.
Capitolo 15 di Luca:
Si avvicinavano a lui (a Gesù) tutti i pubblicani e i peccatori…, quindi la feccia della società, gli esclusi, gli emarginati dalla religione, che sentono nel messaggio di Gesù la risposta al desiderio di pienezza di vita che ogni persona ha dentro. Per quanto la persona possa vivere in una direzione sbagliata della propria esistenza, per quanto sia immersa nel peccato, c’è sempre in lei un desiderio di felicità, di pienezza di vita, un desiderio che spesso purtroppo sceglie in maniera sbagliata, e la scelta lo ha sprofondato nella disperazione e nel dolore, ma questo desiderio è sempre sveglio. In Gesù trova la risposta al suo desiderio;
…per ascoltarlo: Gesù viene ascoltato dai pubblicani e dai peccatori, i farisei, cioè le persone pie, e gli scribi, cioè i teologi ufficiali, mormoravano dicendo….: è interessante notare come nei vangeli le autorità religiose, i maestri spirituali, gli scribi e i farisei, evitano di pronunziare il nome di Gesù. Gesù significa “il Signore salva”, e loro non hanno bisogno di questa salvezza da parte del Signore e si rivolgono a lui sempre con un termine rozzo e dispregiativo: “questo, costui”;
ed ecco lo scandalo: …“costui accoglie i peccatori e mangia con loro”: non solo Gesù li accoglie, ma addirittura mangia con loro: mangiare significa condividere la propria vita. Se si mangia con una persona che è infetta, inevitabilmente la sua impurità si trasmette a tutti gli altri. Non hanno compreso che con Gesù i peccatori, i miscredenti, gli impuri, non devono purificarsi per essere degni di mangiare con lui, ma è mangiare con lui quello che li purifica. Ma le persone religiose non lo capiscono!
Ed egli disse loro questa parabola…: questa parabola non è rivolta ai discepoli di Gesù, ma a scribi e farisei, cioè ai suoi nemici. E’ una parabola che è composta di tre parti: nelle prime due si parla della gioia di Dio, e nella terza, conosciuta come quella del figliol prodigo, delle motivazioni di questa gioia.
Gesù dice, e lo dà per scontato: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?” : Gesù dà per scontato quella che scribi e farisei reputano una follia. Nessuna persona sana di mente lascia novantanove pecore nel deserto in balia di animali, in balia di ladri, per andare in cerca di una che si è smarrita senza avere la certezza di trovarla. Ebbene, la logica della convenienza non è la logica di Gesù. La logica di Gesù è quella che fa il bene dell’uomo. E quindi Gesù presenta se stesso come il pastore che abbandona le novantanove per andare in cerca dell’unica che si era perduta.
“E quando l’ha trovata”… scribi e farisei immaginerebbero che il protagonista le legasse una corda al collo e, a forza di calci, la conducesse nell’ovile, la chiudesse a chiave e non la facesse più uscire, rimproverandola e castigandola. Invece, quando la ritrova…: “…pieno di gioia se la carica sulle spalle”. Questa pecora che si è perduta – il perdersi nel vangelo di Luca è immagine del peccato – viene trattata meglio delle altre novantanove. E’ debole e il pastore le comunica la sua forza. Quindi arriva ad avere un rapporto col pastore che nessuna delle altre novantanove pecore avrà. Infatti il pastore se la carica sulle spalle e le trasmette la sua gioia.
“Va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi”! Ma, mentre il pastore della parabola invita gli altri a rallegrarsi, qui invece scribi e farisei mugugnano.
“Perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Questa pecora non sarà più una pecora tra le altre, ma una pecora che ha un rapporto speciale con il suo pastore. E continua Gesù: “Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte…”: ecco perché Gesù comunica vita ai peccatori, perché sa che la forza della sua parola, la comunicazione della sua vita, se accolta, può far lasciare il mondo del peccato e della trasgressione e mettere in sintonia la propria vita con il progetto che Dio da sempre aveva avuto sulla creature: “…più che per novantanove giusti, i quali non hanno bisogno di conversione.”
Poi c’è la seconda parabola che mostra la delicatezza di Gesù. Tutte le volte che deve fare degli esempi, fa sempre un esempio al maschile, ma poi uno al femminile. Gesù non dimentica il mondo della donna, e se prima ha parlato di un uomo, il pastore, ecco che ora entra in scena la donna. Una donna che ha dieci monete e ne perde una: “Quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova?” E anche in questo caso la reazione è un’esplosione di gioia: “E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. E di nuovo la sentenza di Gesù: “Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”: Dio gioisce, i peccatori si convertono, il pastore e i suoi vicini gioiscono, la donna e le sue amiche si rallegrano.
Chi mugugna? Gli scribi e i farisei. Ecco allora che nella terza, che è rivolta a scribi e farisei, viene presentato il figlio maggiore, quello che viene rappresentato caricaturalmente, come la persona religiosa che ha sempre servito suo padre, come un servo verso il suo signore, ha sempre obbedito ai suoi comandi, ma proprio per questo il servizio e il comando non gli hanno fatto comprendere il cuore del Padre.
Allora, mentre il Padre gioisce per il ritorno del figlio che “era morto ed è tornato in vita”, il fratello maggiore, anziché rallegrarsi, lui che giudica tutto con i parametri religiosi della morale, si indigna, si arrabbia ed è lui che non vuole entrare nella casa.
XXIII TEMPO ORDINARIO – 8 settembre 2019
CHI NON RINUNCIA A TUTTI I SUOI AVERI
NON PUO’ ESSERE MIO DISCEPOLO
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI OSM
Lc 14,25-33
[In quel tempo]
Una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
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Nel vangelo di questa domenica Luca presenta le tre radicali condizioni che Gesù ha posto a quanti lo vogliono seguire.
Il contesto qual è? Gesù sta andando verso Gerusalemme ed è seguito da tanta gente che, per un malinteso senso del messia, lo segue pensando poi di andare a spartirsi il potere e il bottino. Pensano che Gesù sia il glorioso messia, il figlio di Davide, che va a restaurare il defunto regno di Israele, e non hanno compreso che Gesù è il figlio di Dio, quello che non va a togliere il potere, ma a donare la propria vita a Gerusalemme.
Luca 14, 25-33 scrive: “una folla numerosa” – molta folla – “andava con lui”. Allora Gesù, sentendo di questo equivoco, cioè che questa gente lo segue per un malinteso, cioè per interesse, “si voltò e disse loro …” –
è la prima radicale condizione: “«…Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle, e perfino la propria vita…»” – in greco adopera il termine psyché che significa ‘se stesso’ – “«…non può essere mio discepolo».
In precedenza, al pranzo con il fariseo, denunciando i legami di interesse che legavano questa cricca, questa setta, e i legami dettati dall’amicizia, dalla parentela, dagli interessi, Gesù affermava che nel suo gruppo tutto questo deve essere sciolto. Talmente sciolto che l’adesione a Gesù deve andare al di là dei vincoli familiari e, in particolare viene nominata anche la moglie perché nella parabola che Gesù ha comunicato ai suoi in precedenza, uno degli ostacoli che uno aveva presentato per andare a questo banchetto del regno era questo: “ho preso moglie perciò non posso venire”.
Quindi LA PRIMA CONDIZIONE RADICALE è che l’adesione a lui deve andare al di sopra dei vincoli familiari, il contrario di quanto si praticava nella cricca, nella setta dei farisei, dove tutto si faceva per l’interesse del proprio gruppo.
LA SECONDA CONDIZIONE RADICALE: è l’accettazione del disprezzo della società e quindi la grande solitudine. Infatti Gesù afferma: “«Colui che non porta la propria croce…»” – letteralmente “chi non solleva la propria croce” – “«…e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo»”.
E’ la seconda volta che appare il tema della croce, tema che non riguarda mai la sofferenza fisica, i momenti tristi che la vita inevitabilmente fa incontrare, mai la croce nei vangeli ha questo significato, ma sollevare la croce significa accettare il disprezzo della società perché quelli che venivano condannati a questa infamia erano considerati la feccia della società.
In particolare Gesù si rifà al momento preciso in cui il condannato doveva sollevare l’asse orizzontale della croce. Da quel momento doveva andare verso il luogo dell’esecuzione circondato da ali di folla per le quali era un dovere religioso insultare e malmenare il condannato. Quindi la seconda condizione radicale è: accettare la solitudine e il disprezzo da parte della società.
Poi Gesù, con due esempi – che riguardano la costruzione di una torre e il muovere guerra – chiede di calcolare le proprie forze. Gesù non vuole scoraggiare chi non ha forza, ma invita a mettere la propria forza nell’azione dello Spirito. E ciò significa conoscere i propri limiti e, proprio per questo, contare sulla potenza per eccellenza, la forza dello Spirito.
La conclusione di queste indicazioni è la sorpresa finale, è uno shock. A quanti lo seguono per spartirsi il bottino Gesù dichiara: “«Così chiunque di voi…»” – e qui a chi si attendeva chissà quale consiglio spirituale, chissà quale norma ascetica, Gesù pone la terza condizione per essere discepolo: “«…chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo»”.
Ciò significa che la sicurezza non può essere posta in quello che si ha, ma in quello che si dà, nella rinuncia a tutto quello che si possiede, perché Gesù vuole al suo seguito soltanto persone libere. Infatti le tre condizioni per la sequela sono tutte scelte di libertà.
La rinuncia agli averi si rifà a quanto Gesù aveva detto in precedenza nella parabola, dove tra i pretesti per non partecipare a questo banchetto c’era quello che aveva detto “ho comprato un campo” e l’altro “ho comprato cinque paia di buoi”. Quindi il possesso degli averi è un impedimento per il Regno.
SONO TRE LE CONDIZIONI RADICALI RICHIESTE, TUTTE ALL’INSEGNA DELLA LIBERTÀ; soltanto chi è pienamente libero può seguire il signore.
E gli altri? Tutti a casa!
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XXII TEMPO ORDINARIO – 1 SETTEMBRE 2019
CHIUNQUE SI ESALTA SARA’ UMILIATO, E CHI SI UMILIA SARA’ ESALTATO
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Lc 14,1.7-14
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
*
E’ la terza e ultima volta che Gesù pranza a casa di un fariseo. Ogni volta che Gesù si trova a mensa con i farisei, questi pii, questi leader spirituali, è sempre occasione di conflitto.
Questa volta il conflitto l’ha causato Gesù, perché in questa mensa c’è un ammalato e Gesù chiede se sia lecito o no curarlo in giorno di sabato, il giorno in cui c’è il riposo totale. Ebbene i farisei non rispondono. Allora Gesù li attacca dando loro degli ipocriti, dicendo: “Ma voi per interesse siete capaci invece di trasgredire la legge del Signore”. Dopo questa reprimenda Gesù continua.
Diceva agli invitati – che sono tutti farisei – una parabola, notando come sceglievano i primi posti. L’evangelista stigmatizza questa ambizione, questa vanità, che è tipica delle persone religiose, specialmente se ricoprono delle cariche di rilievo, che si sentono importanti, e quindi il bisogno di esibire e manifestare, di rendere nota a tutti la loro importanza scegliendo i primi posti.
La carica li fa sentire giustificati nella coscienza… “non è per me, ma per quello che rappresento…”
“Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te”. Gesù si riferisce a un detto famoso, molto popolare, contenuto nel libro dei Proverbi, al capitolo 25: “E colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece …..” .
Ed ecco la lezione che Gesù dà, è una lezione che va compresa bene: non è per umiltà, è un invito a mettersi all’ultimo posto… per amore!…: “quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto”.
Perché? Per permettere agli altri, quelli che spontaneamente si sarebbero seduti all’ultimo posto, di mettersi davanti. Quindi non si tratta di umiltà, ma di amore.
Gesù sta invertendo la scala di valori della società. “Perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Gesù invita questi farisei – che ha già rimproverato dicendo che tutto quello che fanno lo fanno per interesse – a passare dalla categoria dell’interesse a quella del dono.
“Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”: Gesù si è fatto ultimo, si mette a fianco dei rifiutati e degli esclusi, e afferma che coloro che si fanno ultimi hanno la comunione con lui, la pienezza della condizione divina, quanti invece pretendono di mettersi al di sopra degli altri, separandosi dagli altri, ne saranno esclusi.
Poi, al fariseo che l’ha invitato, Gesù rivolge un monito molto importante che va compreso alla luce di quei legami di amicizia, di parentela, di interesse; legami che sostengono la società, che sostengono molti gruppi ecclesiali, molti gruppi religiosi, che si auto-proteggono a scapito degli altri. Quindi è un monito molto severo e molto attuale.
Disse poi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini”: Gesù parla di una sorta di cricca dove c’è un’amicizia, c’è una parentela, e soprattutto ci sono interessi comuni. Una cricca che si auto-protegge dagli altri e che esclude gli altri e che cura soltanto il proprio interesse. “Perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio”: l’intenzione non palesata, ma vissuta nella più vera interiorità.
Quindi Gesù denuncia nell’ambito farisaico l’atteggiamento dei farisei : tutto quello che fanno lo fanno per interesse. Non conoscono il disinteresse, la generosità, il dono.
Ed ecco l’offerta di soluzione che Gesù dà loro: Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri…”, che naturalmente non hanno da ricambiarti. Poi Gesù inserisce, “…storpi, zoppi, ciechi”: quelle categorie di persone che per la loro infermità erano escluse dal tempio e dal sacerdozio.
Quindi Gesù in un ambito molto pio, molto religioso, come quello dei farisei che si ritenevano i più vicini a Dio e in base alle loro norme, alle loro regole religiose, si separavano ed escludevano gli altri da Dio. Gesù dice: “No, invita proprio quelli che sono esclusi”.
Come si può tradurre, come si può interpretare oggi? Quelle categorie di persone che noi, in base a convinzioni religiose, spirituali, etniche, razziali, consideriamo gli esclusi, gli invisibili, i rifiutati: sono questi a cui deve andare la nostra attenzione.
“E sarai beato”: beato lo sappiamo che significa pienamente felice, “perché non hanno da ricambiarti. Quindi Gesù invita questa comunità ad agire non più con l’interesse, ma con il disinteresse, sempre per la generosità e l’amore verso gli altri.
E poi aggiunge – Gesù sta parlando ai farisei quindi adopera categorie religiose che i farisei potevano comprendere …- “…Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”. Quindi Gesù invita a non calcolare la ricompensa immediata: “io faccio un favore a te perché tu ne fai a me”, realizzando questa cricca che esclude gli altri dai propri interessi e dal proprio benessere, ma a rivolgere tutta la propria attenzione al bene e al benessere degli altri e allora Dio sarà la tua ricompensa.
XXI TEMPO ORDINARIO – 25 agosto 2019
VERRANNO DA ORIENTE E OCCIDENTE E SIEDERANNO A MENSA NEL REGNO DI DIO
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Lc 13,22-30
(In quel tempo,)
Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme.
Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?».
Disse loro: «Sforzatevi (= lottate) di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno.
Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!” (=voi che fate il male). Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori.
Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».
*
Per comprendere il brano dell’evangelista Luca 13, 22 occorre sapere che al tempo di Gesù il popolo di Israele pensava di essere l’unico a salvarsi, i pagani no !
Particolare attenzione alla comprensione di alcune frasi:
Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”: vuole sapere quanti sono quelli che si salvano perché si credeva che la salvezza fosse un privilegio riservato al popolo di Israele. All’individuo che gli ha chiesto quanti sono quelli che si salvano Gesù risponde affermando non quanti, ma chi sono quelli che si salvano.
“Sforzatevi (letteralmente lottate) di entrare per la porta stretta..”: Gesù non sta invitando ad affrontare chissà quali sforzi ascetici, chissà quali difficoltà rappresentate da questa porta. In questa porta non si riesce ad entrare non perché sia difficile, ma perché – come dice Gesù “molti cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno”… – la porta è già chiusa. Quindi Gesù non sta invitando a chissà quali penosi sforzi o sacrifici per entrare, ma di aprire gli occhi, perché c’è il rischio che questa porta sia chiusa. Perché?
“Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”.…“Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete!”, cioè non vi conosco. E’ una frase molto dura per quanti vogliono essere suoi discepoli!
Perché Gesù non li conosce?
Sentiamo la replica di quelli che sono rimasti fuori: “Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza…”: è un’allusione all’Eucaristia, un’allusione a quelli che hanno celebrato l’Eucaristia del Signore: hanno mangiato lo stesso Pane “…e tu hai insegnato nelle nostre piazze”: quindi si sono nutriti della sua parola e della sua vita. Eppure Gesù dice: …“… “VOI, NON SO DI DOVE SIETE!”: Gesù ripete quello che ha già detto aggiungendo una frase che è già nel salmo 6,8: “Allontanatevi da me, voi tutti, operatori di ingiustizia!”. Il salmo dice “voi tutti che fate il male”. Perché questa durezza da parte di Gesù? Perché a Gesù non importa il rapporto che i discepoli possono avere con lui o con il Padre, ma il frutto che emerge verso i fratelli da questo rapporto con lui e con il Padre, con azioni di amore, di misericordia, di compassione, di perdono, di condivisione generosa… E’ questo quello che permette la comunione con Dio.
Dio non ci chiederà se abbiamo creduto in lui, ma se abbiamo amato come lui. Questo è il motivo della risposta molto severa di Gesù: “non vi conosco!”: non importa che relazione avete con Dio, interessa piuttosto la relazione che avete con gli altri ! Hanno partecipato all’Eucaristia, ma poi non sono stati capaci di farsi pane, di fare della loro vita pane, alimento di vita per gli altri. Hanno ascoltato il suo insegnamento, ma l’ascolto non ha trasformato la loro esistenza.
E le parole di Gesù sono molto severe, ma dobbiamo capirle:
“Là ci sarà pianto e stridore di denti”: è un’immagine che noi non usiamo più e che indica il fallimento della propria vita. Noi diremmo: “ed essi si metteranno le mani nei capelli”.
“Quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe (i grandi patriarchi) e tutti i profeti nel regno di Dio…” (i profeti sono coloro che hanno denunciato il vero culto verso Dio assieme al disinteresse verso i poveri) “…e voi invece cacciati fuori”.
Il popolo di Israele credeva di avere il diritto di far parte del regno di Dio, invece Gesù afferma: se uno non trasforma questa conoscenza di Dio in amore verso gli altri, ne rimane escluso.
Non solo! …e il suo posto lo prendono proprio quei popoli che loro ritenevano esclusi, cioè i pagani.
E Gesù conclude: “Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno (quindi saranno genti provenienti da tutte le parti del mondo che è pagano) e siederanno a mensa nel regno di Dio.”
Gesù non presenta il Regno di Dio con simboli liturgici religiosi, ma sempre con simboli conviviali, una mensa. Ebbene, da questa mensa, alla quale credevano di appartenere per diritto, saranno allontanati e quelli invece che si ritenevano esclusi ci parteciperanno.
La conclusione di Gesù: “Ed ecco, vi sono ultimi”, cioè quelli che voi considerate ultimi, cioè esclusi, “che saranno primi, e vi sono primi – quelli che credevano di avere diritto di entrare nel Regno di Dio – che saranno ultimi””.
E’ un monito molto severo e molto attuale quello che Gesù ci dà. Ci può essere la presunzione – per l’appartenenza a una fede religiosa, per la partecipazione ad atti di culto – di avere dei diritti dai quali le persone possono essere escluse dal Regno di Dio perché non appartengono alla nostra fede, alla nostra cultura, alla nostra etnia, perché credono in altre divinità, perché si comportano in maniere differenti: Gesù invita a fare molta attenzione!
Quelli che voi ritenete gli esclusi, quelli che voi rifiutate, prenderanno il vostro posto nel Regno dei cieli.
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XX TEMPO ORDINARIO – 18 agosto 2019
NON SONO VENUTO A PORTARE PACE SULLA TERRA, MA DIVISIONE
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Lc 12,49-53
(In quel tempo)
Gesù disse ai suoi discepoli: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!
Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione.
D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».
*
Luca è indubbiamente l’evangelista che, più di tutti gli altri, tratta il tema della PACE. Il suo vangelo si apre con l’immagine della pace nel coro angelico che proclama la “pace in terra agli uomini amati dal Signore”. Si conclude con Gesù risuscitato che, quando si presenta ai suoi discepoli, dona a loro la pace: “Pace a voi”, laddove pace significa pienezza della vita, felicità.
Eppure in questa pagina sembra che ci sia quasi una contraddizione. Gesù dichiara: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra”: per la terza volta in questo vangelo appare la tematica del fuoco.
La prima volta era apparsa nelle parole terribili di Giovanni Battista che aveva annunciato: il messia avrebbe battezzato in Spirito Santo e fuoco. Spirito Santo, cioè energia divina per chi accoglie Gesù e il suo messaggio, e fuoco, immagine del castigo distruttore per chi lo rifiuta, per i peccatori.
Il riferimento al fuoco era apparso anche nelle parole di Giacomo e Giovanni che, vedendo che un villaggio di Samaritani non aveva accolto Gesù, aveva chiesto a Signore: “Diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi”: quindi il riferimento indica ancora un fuoco distruttore; l’immagine è presentata come il castigo di Dio. Ma non è questo il fuoco che vuole portare Gesù.
Dopo la morte di Gesù, Luca presenta la Pentecoste come la discesa dello Spirito sotto forma di lingue di fuoco. E’ la realtà della nuova comunità, dell’alleanza tra Dio e il popolo: non più basata sull’osservanza delle Leggi, ma sull’accoglienza del suo Spirito, cioè del suo amore. Allora Gesù dice: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra…”: il fuoco dello Spirito, “…e come vorrei che fosse già acceso!”: Gesù non vede l’ora che la comunità dei suoi discepoli, il suo popolo, instauri con Dio un rapporto diverso, che non è quello imposto da Mosè attraverso l’osservanza della Legge, ma quello che lui, il Figlio, propone: una relazione tra i figli e il Padre.
Gesù continua: “C’è un battesimo”: qui la parola battesimo non riferisce l’immagine del rito di purificazione, del sacramento della liturgia, che avrà il termine battesimo, ma richiama il significato etimologico di immersione, qualcosa che travolge, qualcosa che trascina. Quindi Gesù dice: “C’è qualcosa che sta per travolgermi e “…che devo ricevere…”; “… e come sono angosciato…” : qui il vocabolo usato da Luca indica essere pressato, essere dominato da un forte desiderio. Quindi Gesù ha questa passione per l’avvenimento che lo travolgerà; “…finché non sia compiuto!”: quindi potremmo tradurre “c’è un’immersione nella quale dovrò essere immerso!”: è l’immersione nella violenza, nella morte.
Ed ecco la sorpresa: Luca è l’evangelista della pace, ma Gesù toglie qualche dubbio su cosa significhi questa pace e dice: “Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione!” Sorprende sentire queste parole di Gesù.
Ma che significa questa divisione? La pace che Gesù è venuto a portare, frutto di una nuova relazione tra gli uomini e Dio, come quella di figli con il padre, troverà la reazione, troverà l’avversione di tante forze che si scateneranno.
Quali sono queste forze? Gesù parla di divisione, prendendo l’immagine di una famiglia normale:
“D’ora innanzi, in una casa di cinque persone, si divideranno tre contro due e due contro tre” : si divide così quello che rappresenta il vecchio contro il nuovo. Infatti Gesù aggiunge: “Si divideranno il padre contro il figlio e il figlio contro il padre, la madre contro la figlia e la figlia contro la madre, la suocera contro la nuora e la nuora contro la suocera”: l’iniziativa di questa divisione viene dai rappresentanti del passato: il padre, la madre, la suocera, che non accolgono questa novità del messaggio di Gesù che viene invece accolto dai suoi discepoli. Ecco la causa della divisione.
Bisogna notare che qui Gesù non sta parlando di divisione di figlio contro figlio, di fratello contro fratello. No! La divisione nella comunità dei credenti non è ammessa, perché dove c’è divisione la comunità si distrugge. L’evangelista si rifà ad un’immagine conosciuta, quella del profeta Michea, che al capitolo 7,6 aveva parlato di un figlio “che insulta il padre, della figlia che si rivolta contro la madre e la nuora contro la suocera”.
E aveva aggiunto: “E i nemici dell’uomo sono quelli di casa sua”. I nemici di questa nuova realtà, di questa nuova relazione con il padre, non saranno quelli al di fuori della religione, ma proprio coloro che sono all’interno della religione, che non accetteranno questa novità. Eppure Gesù è quel Dio che è venuto a fare nuove tutte le cose: chi si ferma al passato non potrà mai comprendere la novità che propone lo Spirito!
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19° Domenica del Tempo Liturgico-11.08.2019
Lc 12,32-48
Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!
Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».
dalla Riflessione di d. Paolo FARINELLA
Sembra scontato dire che viviamo in un tempo di crisi a tutti i livelli: ecclesiale, sociale, economico, politico, progettuale. Il lamento è generalizzato, lo sconforto è grande, le speranze poche. I cristiani perdono terreno e hanno paura e temono di essere sorpassati numericamente dai Musulmani.
Solo il pensiero mette angoscia e stimola pensieri di guerra e di crociata, dimostrando così di non avere fede nello Spirito di Gesù risorto che guida la Storia. La Chiesa dei numeri, la Chiesa che conta, la Chiesa che col numero vuole mostrare i muscoli è una Chiesa miscredente che è tronfia di sé, ma non crede in Dio.
La prima parola di Gesù nel vangelo di oggi è chiara: «Non temere piccolo gregge» (Lc 12,32). Queste parole dicono che la Chiesa non potrà mai aspirare ad essere nel mondo una maggioranza. E chi lavora per questo scopo contrasta il Regno di Dio. La Chiesa per natura e per vocazione è «piccolo gregge» cioè solo un pizzico di lievito nella pasta (cf Lc 13,21) o una luce posta sul candelabro (cf Lc 8,16). Il lievito e la luce sono minoranza in rapporto alla pasta e alla casa.
La Chiesa è minoranza perché ha coscienza di non essere eterna: il suo compito è legato alla storia e finirà con essa, quando Cristo prenderà possesso definitivo del suo Regno.
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La fine (ogni fine) di un millennio porta in sé un periodo più o meno lungo (in genere non meno di cinquant’anni) di spossatezza e di voglia di rilassamento: come se le persone singole, in gruppo o popoli fossero stremati per il lungo cammino effettuato lungo il millennio e ora sentano il bisogno di sedersi, dormire e non pensare a nulla.
Nei tempi di crisi si è portati ad aggrapparsi al passato perché offre le sicurezze che il presente non è in grado di garantire: la Bibbia ne è una testimonianza vivente….
Nella prima lettura l’intervento di Dio è presentato come un’applicazione della legge del taglione, in una parola una vendetta. La paura dello straniero, il terrore di essere contaminati, spingono gli Ebrei di Alessandria a stringersi tra loro e a dichiarare la pericolosità degli altri, i nuovi arrivati con nuove religioni, con nuovi modelli di vita, con nuovi criteri di ragionamento, con nuovi sistemi di comportamento. E’ quello che accade tra noi di fronte alla immigrazione che somiglia sempre più ad una transumanza biblica.
Gli immigrati, è inevitabile, portano problemi e destabilizzazione, insieme a bisogni inappagati che generano delinquenza perché sono negati coscientemente i diritti di migliaia di uomini, donne e bambini che invece sono considerati solo come merce. Da un lato è merce pericolosa da buttare; dall’altro è merce di lavoro, se e quando serve. Quando non serve più la si butta via come merce avariata. Eppure sono persone, soggetti di diritto e prima di tutto soggetti al diritto alla vita.
Lo scandalo sacrilego è che i fautori di questi atteggiamenti che si traducono in legge dicono espressamente di professare la religione cattolica e di essere credenti e praticanti.
Costoro fanno sempre professione di sottomissione alla gerarchia cattolica, la quale si lascia incantare e tace di fronte a leggi che gridano al cospetto di Dio per la loro immoralità e diventa complice in cambio di favori e promesse di vario genere.
L’ateismo clericale fa coppia stabile con la religione civile senza Cristo con cui gli «atei devoti» vogliono sostituire il Cristianesimo, colpevole di appellarsi alla coscienza.
Di fronte alla massiccia presenza di immigrati che scappano dalle guerre, dalle persecuzioni, dalla fame e dalla siccità, si reagisce irrazionalmente, con la paura da una parte e con lo sfruttamento dall’altra.
Gli immigrati molto facilmente sono presi a lavoro fuori da ogni regola di controllo perché possono essere ricattati e perché il lavoro in nero è un investimento economico. Coloro che sfruttano gli immigrati sono gli stessi che vanno in piazza a gridare contro il pericolo «extracomunitario», invocando anche l’uso delle armi.
Su questi sentimenti di paura e di insicurezza si innestano colpevolmente alcuni partiti che alimentano il terrore nello stesso momento in cui chiedono un ritorno al passato anche in campo religioso. Questa è la prova che le due questioni sono correlate.
Oggi intere regioni che un tempo formavano la «vandea bianca» perché dominata dalla religione cattolica a livello di coscienza e politicamente dal partito dei cattolici, cercano di fare coincidere il razzismo e la religione: invocano un Dio vendicativo perché egli non può che essere un «dio esclusivo»: il «dio-idolo» della razza bianca, cattolica, padana, veneta e conservatrice.
Non è un caso che questi cattolici della tradizione invocano a una sola voce il ritorno alla Messa di Pio V, il papa della battaglia di Lepanto, quando l’esercito cristiano sconfisse quello musulmano. Per loro la colpa del degrado di oggi è di papa Giovanni XXIII e Paolo VI: « Una volta c’era la tradizione che funzionava da freno e l’illuminismo che faceva da acceleratore, ora stiamo uscendo in curva perché qualcuno ha cambiato rotta. Tutto parte dal Concilio vaticano secondo. C’è un clima che è la logica conseguenza della fine dei simboli del cristianesimo. Quando si dice che tutte le religioni sono uguali, quando l’Europa propone il mandato di cattura europeo, mi sembra che ci si [sic!] cacci in un tunnel senza uscita, al fondo ci vedo la dittatura, uno stato che nega la tradizione e che vuole reggersi sui magistrati, è una impostura contro il popolo».
L’ingresso nel Regno è una «porta stretta» da cui può transitare appena l’indispensabile: una persona ingombra di averi non entra e se porta bagagli non può passare. Deve dimagrire e liberarsi dei pesi superflui se vuole passare. E’ la porta dell’essenzialità, da dove può transitare appena l’anima e la sua speranza di vedere il volto di Dio. E’ l’immagine della morte che costringe a lasciare tutto tranne se stessi.
Anche nell’immagine del servo che attende il padrone si ha la stessa conclusione: bisogna sapere «adesso» quello che si vuole, prima che accada: o stare in attesa del padrone in base alla sua consegna o rischiare e fare come si vuole….
Di fronte al mondo moderno che il concilio ecumenico Vaticano II aveva invitato a guardare con benevolenza e simpatia e che Paolo VI nel suo testamento spirituale aveva definito «drammatico e meraviglioso», egli si rifugia nel passato, convalidando posizioni immature di gruppi che non sanno camminare al passo con i loro tempi e per questo non arriveranno mai in tempo.
Per alcuni gruppi che non hanno un sufficiente senso di fede nello Spirito Santo, il mondo moderno è nemico di Dio solo perché essi non sono in grado di coglierne i fermenti e di leggervi i segni dei tempi. Sono spiriti fragili psicologicamente che hanno bisogno di chiudersi nel recinto di un passato selettivo che corrisponde alle loro logiche: sono uomini senza speranza….
Le cronache ci dicono che la quasi totalità dei preti e religiosi pedofili appartengono a questo gruppo. Inflessibili con gli altri quanto decadenti dentro il loro psicologismo che si attorciglia nell’immaturità affettiva e religiosa. Vivono tanto di simboli da non essere più in grado di vedere, leggere e interpretare la realtà.
Si torna alla Chiesa piramidale in cui il popolo è solo il sostegno materiale della gerarchia e il mondo è accettato solo se diventa «cristianità», cioè dipendente dall’autorità della Chiesa, di cui rappresenta il braccio secolare. In questo contesto non c’è posto per la profezia perché i sacerdoti diventano funzionali al sistema, dipendenti del potere e addirittura cappellani militari dell’esercito dello Stato laico e miscredente. Un ingranaggio di un sistema perverso.
In tutte le manifestazioni pubbliche, per es., le cronache riferiscono che «erano presenti autorità civili, militari e religiose», diventata una formula stereotipa, espressione di una mentalità che nulla ha da spartire con il vangelo. Cosa ci fa il prete «ufficialmente» insieme alle autorità militari?
Allo stesso modo quando i vescovi porgono i loro saluti in occasioni di celebrazioni solenni, cominciano invariabilmente i loro discorsi rivolgendosi alle «Eccellenze Reverendissime, Onorevoli Autorità, Rappresentanti delle Forse Armate» [le maiuscole sono d’obbligo] con cui si chiude il cerchio di un connubio contro natura. E’ la porta larga che ritiene quella stretta riservata alle persone insignificanti.
Quando l’autorità ecclesiale lascia la porta stretta dell’austerità, abdica al suo mandato e acquisisce lo spirito del mondo, quello per cui Cristo si rifiuta di pregare (cf Gv 17,9).
Essere pronti, vigili e attenti significa stare sempre con un occhio fisso all’orizzonte perché il Signore può arrivare all’improvviso da un momento all’altro: dobbiamo farci trovare svegli e premurosi verso i figli e le figlie di Dio senza angariarli, senza sfruttarli, ma amandoli e servendoli. Non siamo noi i padroni della Chiesa!
Credere è affidarsi a Dio, consapevoli che il mondo, come la Chiesa, è nelle sue mani.
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XVIII TEMPO ORDINARIO – 4 agosto 2019
QUELLO CHE HAI PREPARATO, DI CHI SARA’?
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Lc 12,13-21
[In quel tempo,]
Uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità».
Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo RICCO aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere I MIEI raccolti?
Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni.
Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”.
Ma Dio gli disse: “STOLTO, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».
*
Mentre Gesù sta parlando di fiducia nel Padre viene interrotto da chi invece la fiducia la pone nel denaro. Gesù parla di sicurezza in Dio e c’è chi invece la sicurezza la pone nei suoi beni.
“Uno della folla gli disse: «Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità»” – il verbo è all’imperativo – il problema è la solita antica questione della spartizione dell’eredità.
Ma Gesù rifiuta. Per Gesù ogni eredità è frutto dell’avarizia e della cupidigia, atteggiamenti che chiudono irrimediabilmente l’uomo a Dio.
Allora Gesù gli risponde “«O uomo, chi mi ha costituito giudice o divisore…»” – il sostantivo ha la stessa radice del verbo “dividere” – “«… sopra di voi?»”.
Poi si rivolge ai discepoli. Quindi Gesù rifiuta di porsi come mediatore in questioni di eredità e di interesse e mette in guardia i discepoli con queste parole molto severe: “E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontano da ogni cupidigia!»”. Gesù pone con molta severità questo richiamo: tenersi lontano dall’ingordigia, dall’accumulo dei beni.
Perché? Dice Gesù: “«Anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni»”. E qui l’evangelista mette tre volte questo termine sintomo dell’avere: la cupidigia, l’abbondanza, i beni.
La vita di un uomo non dipende da quello che ha, ma da quello che dà !
“Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé…»“ – attenzione su questo verbo ‘ragionare’ che Gesù poi ridicolizzerà. Lui pensa di ragionare tra sé. Il ricco pensa sempre per sé, pensa che tutto gli sia dovuto. Non pensa minimamente che possa regalare, o condividere o aiutare gli altri con questa abbondanza.
“«Che farò poiché non ho dove mettere I MIEI raccolti?»”.
Allora lo sappiamo qual è il suo ragionamento: “«demolisco i miei magazzini e ne costruisco di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni»”.
Ecco di nuovo questa ossessione dei beni, della roba che uno ha: “’Poi dirò’” – letteralmente ‘”Anima mia…’ »– “anima” significa la persona stessa – “…hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!’ ” : quindi pensa esclusivamente a sé, al suo tornaconto, al suo interesse.
Ecco la sorpresa, tanto più sorprendente in un ambiente culturale dove si pensava che la ricchezza fosse una benedizione divina. Il ricco era colui che era benedetto da Dio, e il povero maledetto. Ed ecco il Dio di Gesù completamente diverso.
“Ma Dio gli disse: «Scemo»”. So che i traduttori traducono con ‘stolto’, ma “stolto” è troppo leggero; il termine adoperato dall’evangelista è molto forte. Noi non diciamo a una persona ‘stolto’, ma “scemo”. E dice scemo a quello che pensava di ragionare. Quindi i ragionamenti del ricco sono ragionamenti di uno scemo: “«Scemo! Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato per chi sarà?»”. Quindi tutta questa tua fatica, tutto questo tuo avere, tutta questa tua bramosia, e poi?
Questo termine “scemo” Gesù l’ha adoperato (Lc 11,40:) già per i farisei che ha rimproverato perché fanno tutto per il proprio interesse, e anche se dall’aspetto sembrano puri, dice “il loro interno è pieno di rapina e di iniquità” (Lc 11,39). Quindi il richiamo è a questa categoria di persone religiose che sanno però al contempo essere anche tanto attaccate ai soldi, tra un salmo e l’altro controllare la cassa era un esercizio che le persone religiose, le persone pie sanno fare.
Ed ecco allora il monito finale di Gesù: “«Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio»”. Il tesoro è quello che dà la fiducia: o uno mette la fiducia nel Padre e quindi liberamente mette la propria vita – con quello che è e quello che ha – a servizio degli altri o lo mette nei suoi beni.
XVII TEMPO ORDINARIO – 28 luglio 2019
CHIEDETE E VI SARA’ DATO
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI OSM
Lc 11,1-13
Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
“Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”».
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?
Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».
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Il Padre Nostro ci è giunto in tre versioni:
1. quella di Matteo (6, 9-13),
2. quella di Luca (Lc 11,1-13)
3. e una nel primo catechismo della chiesa, chiamato Didaché, cioè insegnamento.
Probabilmente quella del Vangelo di Luca è la più antica, perché era caratteristica degli scrittori quella di aggiungere alle parole, all’insegnamento di Gesù, ma mai di togliere. E quella di Luca, come vedremo, è la più breve. Quindi forse qui abbiamo la preghiera originale insegnata da Gesù.
Il contesto qual è? Gesù sta in un luogo a pregare. L’evangelista Luca presenta Gesù in preghiera più degli altri, ma mai in sinagoga o nel tempio. Quando Gesù va nel tempio o nella sinagoga, va per insegnare e il suo insegnamento significa liberare le persone dalla dottrina religiosa che veniva loro imposta per aprirle all’amore del Padre. Per farli passare dall’obbedienza alla Legge, all’accoglienza del suo amore.
Ebbene, i discepoli non chiedono a Gesù che insegni loro a pregare come lui prega e neanche pregano con lui, ma vogliono una preghiera come quella che Giovanni Battista ha insegnato ai suoi discepoli, che li distingua dagli altri. Ebbene Gesù non dà regole, non dà formule, né orari, ma dà uno stile di vita.
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Anzitutto, per rivolgersi a Dio, non ci si rivolge in maniera religiosa, con tutti quei termini altisonanti “Altissimo, Eccelso, ecc.”, ma nella comunità dei seguaci di Gesù ci si rivolge a Dio chiamandolo “Padre”. Dio non vuole dei devoti incensanti, ma vuole dei figli.
PADRE, nella cultura dell’epoca, è colui che trasmette al figlio la propria vita, tutta la propria esistenza. Quindi si riconosce in Dio la fonte della vita, e nella preghiera Gesù suggerisce di rivolgersi a lui chiamandolo “Padre”.
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La prima richiesta è “Sia santificato il tuo nome”. Il verbo “santificare” significa “consacrare”, cioè “riconoscere il valore di qualcosa”. Allora la comunità, nella preghiera che Gesù insegna, dice “sia riconosciuto questo tuo nome”, cioè Dio deve essere riconosciuto come Padre e il Padre che Gesù ha presentato è il Padre il cui amore non distingue tra buoni e cattivi, ma si riversa su tutti, il Padre non guarda i meriti delle persone, ma guarda i loro bisogni.
Allora Gesù invita la comunità a chiedere “sia il nome con cui devi essere riconosciuto, cioè un Padre”, non il Dio che premia e che castiga, il Dio da temere, ma un Padre, il cui amore è incondizionato.
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Poi la richiesta è non tanto “Venga il tuo Regno”, ma il verbo significa “si estenda il tuo regno”: dal momento che c’è una comunità di discepoli che ha accolto le beatitudini di Gesù, il Regno di Dio c’è già. Per “Regno di Dio” si intende quell’ambito dove Dio governa i suoi figli e non governa imponendo leggi da osservare, ma Dio governa comunicando il suo Spirito, la sua stessa capacità d’amore.
Poi abbiamo detto che il Padre Nostro ci è stato consegnato in tre versioni; ebbene, tutte e tre le versioni contengono un aggettivo greco che nella lingua greca non esiste, e tuttora non si sa cosa significhi esattamente.
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“Dacci oggi il nostro pane …”, e poi c’è un termine che Girolamo, il primo grande traduttore del Vangelo, tradusse in latino nel Vangelo di Matteo con il termine “supersostanziale”, cioè un pane che va al di là della sostanza, e nel Vangelo di Luca tradusse con “quotidiano”, il pane di ogni giorno.
Nella versione liturgica è stato scelto il Vangelo di Matteo, ma è stato sostituito il termine “supersostanziale” con il più facile “quotidiano”, che però crea un equivoco: come se a Dio dovesse chiedere il pane, mentre Gesù ha detto chiaramente “non preoccupatevi di quello che mangerete”. Allora questo pane che va al di là della sostanza, che cosa è? E’ la figura di Gesù. Gesù è la fonte di vita della comunità; fonte di vita come Parola e come pane nell’Eucaristia.
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E poi vi è la richiesta di cancellare le colpe e i peccati degli uomini, motivandoli dal fatto che vengono cancellate non le colpe degli altri nei nostri confronti, ma vengono cancellati i debiti dei debitori. Qui si tratta proprio di debiti materiali: una comunità che ha ricevuto e raccolto il messaggio delle Beatitudini non può essere composta da debitori e creditori, ma tutti sono fratelli che condividono tutto quello che hanno gli uni con gli altri.
Allora la prova, la sicurezza, che si è a posto con Dio, che c’è la presenza di Dio, è che al nostro interno non esistono debitori e creditori, ma tutti sono fratelli.
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E infine, l’ultima richiesta, “non abbandonarci nella tentazione” – letteralmente “la prova”. Qual è questa prova nella quale la comunità chiede di non essere abbandonata? E’ la prova nella quale è già caduta la comunità dei fedeli: Gesù, portando i discepoli al monte degli ulivi, aveva chiesto ai discepoli di pregare con lui per essergli vicini, per affrontare il momento della cattura e della morte. E hanno fallito. Allora la comunità, cosciente di questo, chiede di non essere abbandonata nel momento della prova e della persecuzione.
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E l’insegnamento di Gesù continua invitando ad avere una piena fiducia nell’amore del Padre e, moltiplicando i verbi per tre volte: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”: è l’invito ad avere piena fiducia nel Signore. Ma Gesù dice anche: “«Se dunque voi che siete cattivi»” – cattivi in rapporto all’amore del Padre – “«sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà Spirito Santo a quelli che glielo chiedono»”.
Ecco, qui Gesù garantisce che nella preghiera verrà dato Spirito Santo. Che cos’è lo Spirito Santo? E’ la forza che serve per realizzare il progetto del Padre. Come abbiamo detto, Dio non governa gli uomini emanando leggi, ma comunicando il suo Spirito: Gesù garantisce che questa richiesta dello Spirito verrà senz’altro esaudita.
Tutte le altre cose sono già esaudite perché il Padre, che è un Padre che è buono nei confronti dei figli, si preoccupa già di loro prima che i figli glielo richiedano.
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XVI TEMPO ORDINARIO – 17 luglio 2016
MARTA LO OSPITO’. MARIA HA SCELTO LA PARTE MIGLIORE
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Lc 10,38-42
(In quel tempo)
Mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò.
Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti».
Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
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Ogni volta che leggiamo il vangelo dobbiamo sempre inserirlo nel contesto culturale del tempo. Se non lo facciamo rischiamo di dare un’interpretazione che non è assolutamente nelle intenzioni dell’evangelista, come in questo brano. Questo è un brano dal quale è nata la distinzione tra la vita attiva, quella delle persone comuni, e la vita contemplativa, quelle che scelgono una vita di particolare consacrazione, con una preferenza di Gesù per quest’ultima. Ma questa non è l’interpretazione corretta.
Mentre Gesù e i discepoli erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio : ecco la prima incongruenza: sono in cammino e solo Gesù entra. Perché? I discepoli non sono ancora in grado di comprendere la lezione che ora darà.
L’espressione “villaggio” nei vangeli è una chiave di lettura: con questo termine (villaggio) gli evangelisti ci indicano la resistenza, l’incomprensione, o anche l’ostilità all’annuncio di Gesù, alla novità che Gesù porta. Il villaggio è il luogo più attaccato alla tradizione, al passato. Nel villaggio vige l’imperativo: “perché cambiare? Si è sempre fatto così!” Il villaggio rappresenta una mentalità che vede con sospetto ogni novità.
E una donna, di nome Marta lo ospitò …: il nome è tutto un programma, Marta significa “signora”, è la padrona di casa.
Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola: questa immagine della sorella Maria – seduta ai piedi del Signore – va compresa nel contesto culturale dell’epoca. Non significa che Maria esprima un senso di adorazione o di venerazione nei confronti di Gesù. Quella posizione indica invece che Maria si mette nella posizione del discepolo verso il maestro. Perché sedersi ai piedi di qualcuno significava riconoscerlo come maestro che insegna.
Nel Talmud, libro sacro di Israele, si legge: “Sia la tua casa un luogo di convegno per i dotti, impòlverati della polvere dei loro piedi e bevi con sete la loro parola”.
Allora l’atteggiamento di Maria è un atteggiamento di ascolto, come ogni discepolo nei confronti del maestro. Ma, secondo la convinzione comune, lei non può assumere questo atteggiamento; è qualcosa di strano quello che compie Maria: è una donna e le donne non hanno gli stessi diritti e gli stessi privilegi degli uomini; la donna deve stare in cucina, deve rendersi invisibile…
Nel Talmud si legge ancora: le parole della Legge vengono distrutte dal fuoco piuttosto che essere insegnate alle donne. E i rabbini si vantavano dicendo che Dio mai aveva rivolto la parola ad una donna! L’aveva fatto una volta sola, rivolgendo la parola a Sara, ma poi se n’era pentito, per la bugia di Sara, e da quella volta non aveva più rivolto la parola ad una donna.
Quindi, in questo testo del vangelo di Luca, Maria assume un atteggiamento scandaloso. Trasgredisce il ruolo dove la tradizione ha sempre confinato le donne e prende l’atteggiamento di un discepolo, che era riservato a un maschio.
Marta invece era distolta per i molti servizi. Marta è la fedele della tradizione: Marta addirittura si sente autorizzata a rimproverare Gesù, ritenendolo responsabile dell’assenza della sorella nei molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: “Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire?” : qui è un moltiplicarsi del pronome personale “me” : lei è tutta centrata su se stessa.
Il verbo è all’imperativo: “dille dunque che mi aiuti”: Marta non sopporta che la sorella abbia trasgredito le regole che la tradizione – e quindi la morale – hanno assegnato alle donne; Marta non sopporta che Maria faccia il ruolo di un uomo, di un discepolo, e chiede a Gesù di ricacciarla nel ruolo dove da sempre la tradizione pone le donne.
Ma Gesù, anziché rimproverare Maria, rimprovera la sorella: “Ma il Signore le rispose: “Marta, Marta…” : la ripetizione del nome può significare rimprovero, dipende dal tono con cui la si dice, come quando Gesù, vedendo la città, dirà: “Gerusalemme, Gerusalemme…”,
“…tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno”: letteralmente “di una sola cosa c’è bisogno”.
Ed ecco la sentenza: “Maria ha scelto la parte migliore, (letteralmente la parte buona) che non le sarà tolta”.
Che cos’è che non le sarà tolto e quindi non può essere tolto a una persona? Anche la vita può essere tolta! Allora perché Gesù dice che Maria ha scelto una parte che non può esserle tolta?
Perché Maria ha scelto la libertà, attraverso la trasgressione delle regole e delle norme di comportamento. Un conto è la libertà quando ci viene concessa – e quando viene concessa può anche essere ritirata – un conto è quando la libertà è frutto di una conquista personale, avendo il coraggio di trasgredire le regole della tradizione e le regole della religione. Allora quando uno conquista questa libertà nessuno gliela può togliere.
Allora le parole di Gesù non indicano una preferenza per la vita contemplativa a scapito della vita attiva, ma è un invito a fare la scelta della libertà. Ed è interessante che per fare questa scelta della libertà l’evangelista non ci ponga l’esempio di un uomo, ma di una donna.
Da questo brano di Luca è nata la distinzione tra la vita attiva, la vita delle persone comuni e la vita contemplativa, delle persone che scelgono una vita monacale, la clausura, con una netta preferenza di Gesù per quest’ultima. Ma da questo tratto del vangelo di Luca non lo si può ricavare!
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Vincent van Gogh (1853 – 1890) Il buon Samaritano, 1890, olio su tela, Kröller Müller Museum di Otterlo (Olanda).
Clicca sull’immagine per il commento a questo dipinto.
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XV TEMPO ORDINARIO – 10 luglio 2016
VA’ E FA’ ANCHE TU LO STESSO
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Lc 10,25-37
(cf. Mt 22,34-40 – Mc 12,28-34)
(In quel tempo)
Un dottore della legge si alzò per mettere alla prova (tentare) Gesù: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?».
Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.
Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, (lo) vide e passò oltre.
Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto (lo) vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui.
Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.
Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così» .
*
La legge divina va osservata anche quando causa sofferenza nell’uomo?
Un dottore della legge… I dottori della legge sono gli scribi, i massimi legislatori. La loro era un’autorità divina perché la loro parola era ritenuta la stessa parola di Dio. …Si alzò per mettere alla prova Gesù. Letteralmente “per tentarlo”. L’evangelista adopera qui lo stesso verbo che ha adoperato nel deserto per le tentazioni del diavolo.
Don Paolo Farinella commenta: Il dottore della Legge è lo specialista della Parola, colui che la interpreta anche in nome di Dio. Egli è un competente che è chiamato a dare risposte definitive. Possiamo dire che è il rappresentante della religiosità ufficiale.
Egli «si alzò per metterlo alla prova» (Lc 10,25), come dice la traduzione addolcendo alquanto il significato letterale dei due verbi.
Il primo verbo greco è «anèstē» e indica l’atto del sorgere/risorgere (Mc 5,42), dunque un atteggiamento solenne, di autorità, perché egli «sta in piedi» come colui che ha l’ultima parola, consapevole del proprio ruolo di «dottore della Legge».
Il secondo verbo dice lo scopo del «sorgere/risorgere»: il verbo «ekpeiràzōn» è un participio presente con valore finale ed esprime un’azione continua. È il verbo della tentazione del diavolo, oppure degli scribi e dei farisei, e qui del dottore della Legge. Nel NT ricorre 27 volte e sempre nel senso di «io tento» come attività demoniaca.
Il testo della traduzione liturgica è povero e non esprime la drammaticità che sottolinea Luca. Il testo greco dice: «Si alzò/sorse e continuando a tentarlo, disse». Bisogna mettere in evidenza questa persistenza diabolica: «persistendo nello sforzo di tentarlo».
Quindi l’evangelista ci mette in guardia, attenzione, questi zelanti difensori della dottrina e della tradizione, in realtà sono strumenti del diavolo.
“Maestro,… “: atteggiamento tipico della falsità curiale; costui si rivolge a Gesù per tentarlo, quindi per accusarlo, e invece gli si rivolge con questo titolo di ossequio, come se volesse apprendere, ma in realtà vuole soltanto giudicare; “…che devo fare per ereditare la vita eterna?” Ecco la tematica che gli interessa. Gesù non ne parla, Gesù non è interessato alla vita eterna, Gesù è venuto a cambiare questa vita qui.
Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge?” E’ provocatorio e ironico da parte di Gesù. Il dottore della Legge è uno dei massimi esperti. E’ uno che tutta la sua vita, tutto il giorno è stato sopra la Legge per scrutarne i reconditi significati. Gesù gli chiede “Che cosa sta scritto nella legge?” E poi con profondo sarcasmo: “Come leggi?”, cioè “Cosa capisci?” Non basta leggere la Scrittura, bisogna anche comprenderla! Se non si mette al primo posto nella propria vita il bene dell’uomo, la Sacra Scrittura la si legge, ma non la si capisce.
Costui rispose – e qui cita Deuteronomio 6, 5 – : “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente…”, cioè l’amore a Dio è totale, assorbe tutte le energie dell’uomo. E aggiunge un precetto del libro del Levitico: “…e il prossimo tuo come te stesso”.
C’è una differenza tra questi due amori: mentre l’amore verso Dio assorbe tutte le energie dell’uomo, l’amore verso il prossimo è relativo, amo il prossimo come amo me.
E Gesù: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”: non parla di vita eterna, ma parla di vita, di questa vita.
Ma quegli, volendo giustificarsi,… Cosa significa? Al tempo di Gesù c’era un ampio dibattito tra due scuole rabbiniche, la scuola di Rabbi Shammai, molto più rigoroso e severo, e quella di Rabbi Hillel, di manica larga, sul concetto di “prossimo”. Allora per Hillel il concetto di prossimo significava anche lo straniero che risiede in Israele, per Shammai, la posizione più rigorosa, soltanto l’appartenente al proprio clan familiare o al massimo la tribù. Il fatto che si vuole giustificare ci fa capire che lui è per la posizione più ristretta.
Infatti …disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?” : Gesù non risponde in maniera teologica, ma con una narrazione, una parabola, nella quale cambia radicalmente due concetti fondamentali della religione: il concetto di credente e il concetto di prossimo.
Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico…” : Gerusalemme è sita nella montagna di Giuda, a più di 818 m di altitudine sul livello del mare, mentre Gerico, giù nel deserto, è a ben 258 m sotto il livello del mare. Sono poche decine di chilometri, una trentina, quindi c’è un grande dislivello. E’ una zona arida e desertica, dove si fa fatica a camminare…
“…e cadde nelle mani nei briganti”: la zona era pericolosa ed è tuttora pericoloso percorrerla da soli, “…che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”: in quella strada, in quella situazione, in quel clima, non ha alcuna speranza. Deve soltanto attendere di morire, a meno che, provvidenzialmente, passi qualche anima buona. E’ quello che Gesù ci fa comprendere.
Per caso … : Gesù presenta il meglio che poteva capitare, la persona più adatta – …un sacerdote scendeva per quella medesima strada…: è importante che Gesù parli di un sacerdote che scende. Gerico era una città sacerdotale dove i sacerdoti, secondo il loro turno, salivano al tempio di Gerusalemme e, attraverso complicati rituali di purificazione, per una settimana esercitavano il loro ministero liturgico.
Quindi il sacerdote non è che va a Gerusalemme per essere purificato, ma è già stato per una settimana in servizio nel santuario (si può dire che i suoi abiti ancora profumano d’incenso) ed è nella pienezza della purità rituale. Quindi è il meglio che poteva capitare!
“Quando lo vide…” – “ecco, è la salvezza a portata di mano” e invece, ecco la doccia gelata …: “passò oltre, dall’altra parte”.
Perché questo? E’ una persona crudele? E’ una persona insensibile? No! Peggio! E’ una persona religiosa! Per una persona religiosa i doveri verso Dio vengono prima di quelli verso gli uomini. Del resto cosa ha risposto il dottore della Legge? L’amore a Dio è totale e l’amore al prossimo è relativo. Lui è un sacerdote in condizione di purezza e la legge nel libro del Levitico e nel libro dei Numeri gli proibisce di entrare in contatto con un morto o con un ferito, perché altrimenti diventa impuro!
Allora si trova di fronte al dilemma: osservo la Legge divina o soccorro la persona? Cos’è più importante? Il bene di Dio o il bene del prossimo? LE PERSONE RELIGIOSE NON HANNO ALCUN DUBBIO: IL BENE DI DIO!
Anche un levita… i leviti erano gli addetti al culto, anche loro dovevano restare in condizioni di purità per le cerimonie del tempio; …giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre: “non c’è speranza!”
E poi c’è il colpo di grazia: Invece un Samaritano…- è il nemico più tremendo, la persona più orrenda, l’essere umano più schifoso agli occhi di un ebreo – che era in viaggio, passandogli accanto… – e noi ci aspetteremmo “arrivò lì e gli diede il colpo di grazia” – e invece, dice Gesù: “… vide…”; va bene, l’ha visto anche il sacerdote e il levita lo videro, ma Gesù afferma qualcosa di straordinario: “e ne ebbe compassione!”: “avere compassione” è un verbo riservato soltanto a Dio. E’ soltanto Dio che ha compassione, perché avere compassione significa un’azione con la quale si comunica vita a chi vita non ce l’ha.
Allora per Gesù questo Samaritano, un eretico, un meticcio, un peccatore, una persona impura, si comporta come Dio! Chi è il credente per Gesù? Non colui che ubbidisce a Dio osservando le sue leggi – e abbiamo visto i risultati con il sacerdote – ma colui che assomiglia a Dio praticando un amore simile al suo.
… Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui.
Il Samaritano gli si avvicina, cura la persona malcapitata e addirittura lo porta in una locanda prendendosi cura di lui, e alla fine Gesù si rivolge di nuovo al dottore della Legge e gli chiede: “Chi di questi tre (un sacerdote, un levita, un samaritano) ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”.
Gesù ha ribaltato la domanda del dottore della Legge. Lui voleva sapere “chi è il mio prossimo”, cioè “Fin dove deve arrivare il mio amore?”, Gesù gli chiede: “chi si è fatto prossimo?”, cioè da dove parte l’amore? Il prossimo è colui che si approssima a chi ha bisogno. La risposta è facilissima, ma inaccettabile per il dottore della Legge.
Quegli rispose (e neanche lo nomina tanto gli fa orrore il Samaritano!): “Quello che …” – non dice “il samaritano”, – nonostante qui la traduzione parli di compassione, il testo greco parla di misericordia, perché solo Dio è colui che ha compassione, e gli uomini hanno misericordia – non accetta che un uomo possa amare come Dio. Per il dottore della Legge è inaccettabile che un uomo possa amare come Dio: “…ha avuto misericordia di lui”.
Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ così!”: quindi per Gesù il credente non è più colui che ubbidisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo.
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J.M. CASTILLO
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La chiave per comprendere questa parabola sta in questo: nessuno nutre dubbi sul fatto che la parabola vuole insegnarci che la prima cosa che Dio vuole da noi è la fedeltà al comportamento etico, che si riassume nell’amore al prossimo. Ma come si deve intendere questo comportamento? A questa domanda fondamentale la parabola risponde dicendo che ci sono due modelli di etica.
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L’etica dell’«osservanza religiosa» (quella del sacerdote e del levita).
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L’etica della «vicinanza umana», specialmente nei confronti di chi soffre (quella del samaritano). In teoria questi due modelli di etica sono perfettamente compatibili. Nella pratica, tuttavia, capita che chi si sente tranquillo in coscienza a causa dell’osservanza religiosa, per questo stesso motivo è solito «tergiversare e passare alla larga» davanti alla sofferenza umana.
2. Questo ci dice perché Gesù, per spiegare come si deve concretizzare l’amore al prossimo, propone come modello di chi passa alla larga di fronte alla sofferenza altrui i «professionisti dell’osservanza religiosa», i funzionari della religione, che venivano da questo, dal compimento dei rituali del tempio. Mentre il modello di chi si è accollato il dolore altrui e si fa carico di porvi rimedio è l’eretico samaritano, l’uomo lontano dal tempio e dai sacerdoti.
3. La parabola, quindi, non si limita a dirci che bisogna amare il prossimo. La parabola ci insegna, soprattutto, che, se la prima cosa che ci tranquillizza la coscienza è l’osservanza religiosa, questo fatto ha solitamente la fatale conseguenza che siamo capaci di disinteressarci delle vittime di questo mondo. Ed anzi possiamo arrivare ad essere causa di indicibili sofferenze, con la coscienza tranquilla di chi si sente perfettamente giustificato davanti a Dio. In questo consiste il pericolo più grande che comportano le religioni e l’esperienza delle persone molto religiose.
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XIV TEMPO ORDINARIO – 7 luglio 2019
INVIO’ ALTRI 72 DISCEPOLI …
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Lc 10,1-12.17-20
[In quel tempo]
Il Signore designò altri settanta [due] e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa.
Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. (fine della forma breve)
Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città».
I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo:
«Signore, anche I DEMÒNI SI SOTTOMETTONO A NOI nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi, però, perché I DEMÒNI SI SOTTOMETTONO A VOI; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
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Il brano è esclusivo di Luca.
“Dopo questi fatti…”, quali sono questi fatti?
Gesù ha inviato i 12 ad annunciare la novità, ma ritornano riferendo l’insuccesso, inviati a liberare le persone, non solo non sono riusciti a liberarle, ma addirittura vogliono impedirlo, si oppongono. Allora Gesù ha chiamato al suo seguito i Samaritani.
Dopo questi fatti, “il Signore…” – titolo con il quale nella comunità viene indicato Gesù risorto – “…designò altri Settantadue…”. Perché Settantadue? Perché :
12 è il numero che riguarda le dodici tribù d’Israele, quindi questo riferimento significa che il messaggio è fatto per Israele;
72, secondo quanto si trova nel libro della Genesi al cap. 10, sono le nazioni pagane. Quindi è una missione universale, e Gesù manda i Samaritani, cioè quelli che non provengono da Israele, a tutti..
“…e li inviò a due a due…” – perché siano una comunità, ma soprattutto perché il numero due era indispensabile per essere testimoni – “…in ogni città e luogo dove stava per recarsi.
E diceva loro: «La messe è abbondante…»” – cioè la risposta all’annuncio della buona notizia sarà abbondante, Gesù lo assicura: quando si proclama la Buona Notizia, il risultato sarà straordinario – “«…però sono pochi gli operai»”.
Allora questa è la richiesta di Gesù: “«Pregate dunque il Signore della messe perché mandi operai nella sua messe»”: ciò non riguarda soltanto le categorie dei preti, dei frati e delle suore – come a volte si pensa –ma è un invito rivolto a tutti i discepoli, affinché ognuno prenda coscienza dell’urgenza di svolgere questa missione. Poi Gesù dà delle indicazioni molto chiare:
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non si può smentire con il proprio comportamento il messaggio che si va ad annunciare: “«Vi mando come agnelli in mezzo a lupi»”: è l’opposizione della società, che, vedendosi minacciata nelle basi dell’AVERE, del SALIRE e del COMANDARE, sarà tremenda! Ma Gesù dice: “andate indifesi perché il Signore, lo Spirito, sarà la vostra difesa”.
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Ma non basta! «Non portate borsa, né sacca, né sandali»”: cioè non pensate al vostro sostentamento, non preoccupatevi di quello che mangerete o berrete, perché il Signore provvederà; questo significa andare in maniera che lo stile di vita non smentisca la fede che annunciate.
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“Non fermarsi a salutare nessuno lungo la strada”: ricordiamo che il saluto orientale era tipicamente interminabile.
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Poi il Signore dà ancora delle indicazioni: “«In qualunque casa entriate prima dite: ‘Pace a questa casa!’ »”: questo è l’augurio: PACE : è un invito alla pienezza della felicità. “«Se vi sarà un figlio della pace…»” – cioè se ci sarà qualcuno che ha dentro di sé questo desiderio di pienezza di vita – “«…la pace scenderà su di lui»”.
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Gesù avverte poi: “«Restate in quella casa mangiando e bevendo di quello che hanno»”: si sapeva che nel mondo ebraico, ma anche in quello samaritano, si stava attenti a non mangiare e a non toccare nulla che fosse classificato come ‘impuro’ dalla Legge antica; per questo motivo non si entrava nelle case dei pagani che erano considerate impure. Con questa raccomandazione Gesù vuole dire ai discepoli: “Non abbiate di questi scrupoli legalistici”. Gesù già aveva detto altrove che non è quello che entra nell’uomo, ma quello che esce che lo rende impuro, quindi: “perciò andate senza preoccuparvi di ciò che vi sarà dato”.
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“«E non passate da una casa all’altra»”: negli Atti degli Apostoli Pietro dice : “non è lecito per un Giudeo unirsi o incontrarsi con persone di altra razza”. Gesù dice “Non abbiate nemmeno questi scrupoli, non fatevi questi problemi. Quindi possiamo tradurre nel nostro linguaggio: quando andate in una casa, non fate gli schizzinosi, non fate i difficili per motivi religiosi”, “«ma lì rimanete!»”.
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E di nuovo Gesù insiste. L’insistenza ci fa capire che quanto Gesù stava dicendo portava una certa resistenza in questi inviati: “«Mangiate quello che vi sarà offerto»”: quindi “non fate i difficili pensando e dicendo “questo è puro, questo è impuro, questo sì può e questo non si può”; “«Curate i malati che vi si trovano… »” : “«curate…»” – non ‘guarite’, come troviamo tradotto, “«e dite loro: è vicino a voi il Regno di Dio!»: nel regno di Dio ci si prende cura dei bisogni e dei mali dell’umanità. Il regno di Dio è venuto ad alleviare i mali e le sofferenze che ci sono negli uomini e questi vanno curati.
E se non vi accolgono? Dice Gesù: non insistete! Si vede che l’ambiente non è ancora pronto; quindi “non perdete tempo” – rispettate la loro scelta.
Poi Gesù dice che la risposta dei pagani sarà superiore a quella di Israele. Ed elenca tre città pagane contrapposte a tre città di Israele, che sono Cafarnao, Corazin e Betsaida, che non lo hanno ricevuto. – ma questa parte è eliminata nella liturgia di oggi. –
Ecco il risultato: “I Settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome»”:
cioè grazie al messaggio di Gesù gli uomini sono stati liberati da quelle false ideologie che li rendevano refrattari, ostili a questa buona notizia. Solo chi è libero può liberare, ecco perché i Dodici non ci sono riusciti.
Ed ecco, importantissima, l’affermazione di Gesù: “«Vedevo satana cadere dal cielo come una folgore»”.
Nella concezione dell’epoca Satana stava nei cieli, era una specie di funzionario della corte divina. Nel libro di Giobbe si racconta che Dio riceve i suoi figli e fra questi c’è anche il Satana. Egli era come un ispettore generale di Dio; il suo compito era di sorvegliare gli uomini, per poi poterli anche accusare presso Dio e poter infliggere loro la pena per i loro peccati, per il comportamento riprovevole.
Ebbene, con l’annuncio dei Settantadue, la Buona Notizia ha avuto successo. E qual è la Buona Notizia? La Buona Notizia è che Dio è esclusivamente buono; il Dio di Gesù non è il Dio della religione che premia i buoni e castiga i malvagi, ma il Dio di Gesù comunica amore a tutti.
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Corpo e Sangue di Cristo
Commento di ENZO BIANCHI
23 giugno 2019
Luca Lc 9,11b-17
In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.
Il cosiddetto racconto della “moltiplicazione dei pani” è attestato sei volte nei vangeli: due in Marco, due in Matteo, una in Luca e una in Giovanni, il che ci dice come quell’evento fosse ritenuto di particolare importanza nella vita di Gesù.
Nel vangelo secondo Luca, Gesù invia i suoi discepoli ad annunciare la venuta del regno di Dio e a guarire i malati (cf. Lc 9,2), mostrando che la missione affidatagli da Dio con la discesa su di lui dello Spirito santo (cf. Lc 3,21-22), rivelata nella sinagoga di Nazaret (cf. Lc 4,18-19), era da lui estesa anche alla sua comunità. Compiuta questa missione, i discepoli fanno ritorno da Gesù e gli raccontano la loro esperienza.
Gesù allora li prende con sé, portandoli in disparte, in un luogo vicino alla città di Betsaida (cf. Lc 9,10). Ma le folle, saputo dove Gesù si era ritirato, lo seguono ostinatamente.
Ed ecco che Gesù le accoglie: aveva cercato un luogo di silenzio, solitudine e riposo per i discepoli tornati dalla missione, ma di fronte a quella gente che lo cerca, che viene a lui e lo segue, Gesù la accoglie con grande capacità di misericordia. È lo stile di Gesù, stile ospitale, stile che non allontana né dichiara estraneo nessuno. Queste persone vogliono ascoltarlo, sentono che egli può dare loro fiducia e liberarle, guarirle dai loro mali e dai pesi che gravano sulle loro vite, e Gesù senza risparmiarsi annuncia loro il regno di Dio, le cura e le guarisce. Questa è la sua vita, la vita di un servo di Dio, di un annunciatore di una parola affidagli da Dio.
Giunge però la sera, il sole tramonta, la luce declina, e i dodici discepoli entrano in ansia; “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta!”. La loro richiesta è all’insegna della saggezza umana, eppure Gesù non approva quella possibilità razionale, ma chiede loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Con questo invito li esorta a entrare nella dinamica della fiducia, che è presente in ogni cuore e che Gesù vuole ravvivare. Ma i discepoli non comprendono e insistono nel porre di fronte a Gesù la loro povertà: hanno solo cinque pani e due pesci, un cibo sufficiente solo per loro!
Allora Gesù prende l’iniziativa: ordina di far sedere tutta quella gente, a gruppi di cinquanta, perché non si tratta solo di sfamarsi, ma di vivere un banchetto, una vera e propria cena, nell’ora in cui il sole tramonta.
Prende i pani e i pesci, davanti a tutti, alza gli occhi al cielo, come azione di preghiera al Padre, benedice Dio e spezza i pani, presentandoli ai discepoli perché li servano, come a tavola: è un banchetto, il cibo è abbondante e viene condiviso da tutti.
Quelli che conoscevano la profezia di Israele, si accorgono che è accaduto un prodigio che già il profeta Eliseo aveva fatto in tempo di carestia, nutrendo il popolo affamato a partire dalla condivisione di pochi pani d’orzo (cf. 2Re 4,42-44).
Lo stesso compie ora Gesù e, dopo il suo gesto, avanza una quantità di cibo ancora maggiore: dodici ceste. Nel cuore dei discepoli e di alcuni dei presenti sorge la convinzione che Gesù è profeta ben più di Elia e di Eliseo, è profeta anche più di Mosè, che nel deserto aveva dato da mangiare la manna al popolo uscito dall’Egitto (cf. Es 16).
Ma cosa significa questo evento? Normalmente si parla di “moltiplicazione” dei pani, ma nel racconto non c’è questo termine. Dovremmo dire che c’è stata condivisione del pane, c’è stato lo spezzare il pane, e questo gesto è fonte di cibo abbondante per tutti. E’ una prefigurazione di ciò che Gesù farà a Gerusalemme la sera dell’Ultima Cena: “prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: ‘Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me’” (Lc 22,19).
Lo stesso gesto è ripetuto da Gesù risorto sulla strada verso Emmaus, di fronte ai due discepoli. Anche in quel caso, al declinare del giorno, invitato dai due a restare con loro (cf. Lc 24,29), “quando fu a tavola, prese il pane, pronunciò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (Lc 24,30).
Tre episodi che recano lo stesso messaggio: le folle, la gente, il mondo ha fame del regno di Dio, e Gesù, che ne è il messaggero e lo incarna, sazia questa fame con la condivisione del cibo, con lo spezzare il suo corpo, la sua vita, offerta a tutti.
Accogliamo il mistero nella sua semplicità. Cristo si dà a noi ed è cibo abbondante per tutti. Una volta spezzato (sulla croce), si dà a tutti coloro che lo cercano e tentano di seguirlo, a tutti quelli che hanno fame e sete della sua parola e desiderano condividere la sua vita. Se è vero che la dinamica dello spezzare il pane e del condividerlo trova nella celebrazione della cena eucaristica un paradigma di condivisione del nostro cibo materiale, il pane di ogni giorno.
L’eucaristia vuole essere magistero per le nostre tavole quotidiane, dove il cibo è abbondante, ma non è condiviso con quanti hanno fame e ne sono privi. Per questo, se alla nostra eucaristia non partecipano i poveri, se non c’è condivisione del cibo con chi non ne ha, allora anche la celebrazione eucaristica è vuota, perché le manca l’essenziale. Non è più la cena del Signore, bensì una scena rituale che soddisfa le anime dei devoti, ma in profondità è una grave menomazione del segno voluto da Gesù per la sua chiesa!
Con la condivisone dei pani e dei pesci insieme alle folle Gesù inaugura un nuovo spazio relazionale tra gli umani: quello della comunione nella differenza, perché le differenze non sono abolite, ma affermate senza che ne patisca la relazione segnata da fraternità, solidarietà, condivisione. E se nel mondo esiste la fame, se i poveri sono accanto a noi e l’eucaristia non ha per loro conseguenze concrete, allora la nostra eucaristia appare solo come scena religiosa.
In realtà restiamo ingabbiati nei riti e non riusciamo a celebrare il vero “rito cristiano”, “il culto secondo la Parola, che è offerta attraverso il servizio dei poveri e l’amore fraterno vissuto “fino all’estremo” (Gv 13,1).
Fonte: Monastero di Bose
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LO SPIRITO SANTO VI INSEGNERA’ OGNI COSA
PENTECOSTE – 09.06.2019
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Gv 14, 15-16.23b-26
[In quel tempo]:
Gesù disse ai suoi discepoli:
«Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre.
[…] Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».
*
Solo dopo aver reso i suoi discepoli capaci di amare, attraverso il dono del suo amore espresso nella lavanda dei piedi, amore che si fa servizio, Gesù chiede amore per sé. Infatti, per la prima volta, Gesù dice “«Se mi amate osserverete i miei comandamenti»”: è strano quello che chiede Gesù.
Gesù ha lasciato un unico comandamento. Come mai ora parla di comandamenti al plurale? C’è un unico comandamento, quello dell’amore vicendevole “amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”, cioè servitevi – l’amore non é reale se non si esprime attraverso forme di servizio. Questo è l’unico comandamento.
Le manifestazioni visibili di questo unico comandamento, per Gesù hanno valore di comandamenti. Ma non sono dei precetti esterni che l’uomo deve osservare, ma la manifestazione esteriore di una realtà interiore. Il fatto di sentirmi tanto amato dal Padre, immeritatamente e incondizionatamente, mi porta ad amare gli altri. Questi sono i comandamenti;
“«…e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito»” – questo è un termine greco, Paràclito, che significa esattamente “colui che viene chiamato in aiuto”, in soccorso. Allora può essere anche protettore.
Paràclito non è il nome dello Spirito, ma è la sua funzione. Quindi la funzione dello Spirito è colui che viene chiamato in aiuto, ma la funzione di questo Spirito che Gesù invia, non è che risponde ai bisogni della comunità, infatti Gesù dice “«perché rimanga con voi per sempre»”.
Mentre il paràclito nel linguaggio comune è colui che viene chiamato in aiuto nei momenti di emergenza, questo Spirito che viene chiamato Paràclito, cioè protettore, soccorritore, è costante; la sua presenza non è dovuta a situazioni di pericolo della comunità.
Gesù sta invitando i suoi alla piena serenità, alla piena fiducia, come dicesse: “non preoccupatevi di nulla!”. Lo Spirito non interverrà solamente quando ne avrete bisogno, ma lo Spirito è sempre presente per cui precede i vostri momenti di necessità, i momenti di difficoltà della comunità. Quindi il suo aiuto, l’aiuto dello Spirito, non nasce dalle difficoltà, ma le precede. Questa è la base della serenità della comunità.
E continua Gesù: “«Se uno mi ama…»” – e qui Gesù raggiungerà il vertice della sua rivelazione – “«osserverà la mia parola»”: che significa aver riconosciuto nel messaggio di Gesù la risposta al desiderio di pienezza di vita che ogni persona si porta dentro;
ed ecco la clamorosa rivelazione: “«… il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui»”. Si realizza il progetto di Dio per l’uomo: è un Dio che non è lontano, è un Dio che non è distante. Non è un Dio che assorbe le energie dell’uomo, non è un Dio che attira l’uomo a sé, ma è un Dio che chiede all’uomo di essere accolto per fondersi con lui e dilatarne la capacità d’amore.
Potremmo dire con un’espressione che non siamo noi che andiamo in Cielo, ma è il Cielo che viene ad abitare in noi, ecco perché questa nostra vita è indistruttibile. Quindi ogni comunità, ogni credente, è l’unico vero santuario dal quale si irradia l’amore di Dio.
Mentre nel vecchio santuario le persone dovevano andare, e non tutte erano ammesse, questo nuovo santuario sarà lui che andrà incontro alle persone, specialmente richiama gli esclusi e gli emarginati dalla religione.
Si realizza quello che l’evangelista Giovanni aveva scritto nel Prologo: il Verbo, la parola di Dio, il progetto di Dio ha messo la sua tenda fra noi. L’unico vero santuario è l’uomo e la comunità cristiana, quindi è un Dio che chiede di essere accolto per fondersi con l’uomo. E’ un Dio che non chiede all’uomo che viva per lui, ma sia un dono d’amore per tutta l’umanità. Quindi “…verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”: è la manifestazione stupenda del progetto di Dio sull’umanità.
Gesù continua: “«Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi, ma il Paràclito, lo Spirito Santo…»”, per la prima volta lo chiama ‘santo’, che non indica soltanto la qualità, la sua santità, ma l’attività: l’attività dello Spirito è separare l’uomo dalla sfera delle tenebre, della morte, per portarlo nella luce e nella vita;
“«…che il Padre manderà nel mio nome…»”, – il nome di Gesù, in ebraico Jeshua, significa ‘il Signore che salva’, quindi il salvatore – «egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà …»”: ‘ricordare’ significa ‘comprendere’, “«tutto ciò che io vi ho detto»”. Perché? Perché più si ama e più si permette allo Spirito di entrare dentro di noi, e più le realtà di Dio-amore saranno visibili e più le potremo comprendere.
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VI DOMENICA DI PASQUA – 26 maggio 2019
LO SPIRITO SANTO VI RICORDERA’
TUTTO CIO’ CHE IO VI HO DETTO
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Gv 14,23-29
[In quel tempo] Gesù disse [a Giuda]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.
Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me.
Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».
*
Queste parole di Gesù sono di estrema importanza. Se comprese, cambiano radicalmente il nostro rapporto con Dio e, di conseguenza, con i fratelli. Vediamole. Gesù sta rispondendo a Giuda, non l’Iscariota, che gli ha chiesto (v. 22) “come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?”. Giuda si rivolge a Gesù come i suoi fratelli che dicevano: “Se fai queste cose manifesta te stesso al mondo”; non capiscono come mai Gesù non si manifesti alla gente in maniera straordinaria e spettacolare.
Ed ecco l’importante risposta di Gesù, “«Se uno mi ama, osserverà la mia parola»”: osservare la parola di Gesù significa aver riconosciuto in questa parola la forza creatrice di Dio, e in questa parola, la risposta di Dio al desiderio di pienezza di vita che ogni persona si porta dentro.
Come risposta di Dio a questa adesione a Gesù, “«Il Padre mio lo amerà»” . Ed ecco la novità straordinaria : “«…e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui»”: il Dio di Gesù non è un Dio che assorbe l’uomo per sé, ma è il Dio che lo potenzia; è un Dio talmente innamorato degli uomini, che chiede di essere accolto nella loro vita per fondersi con loro e potenziarne, dilatarne la loro capacità d’amore. L’uomo non va in cielo, ma è il cielo che viene ad abitare nell’uomo e rende ogni uomo, ogni comunità, l’unico vero santuario nel quale si manifesta l’amore di Dio per tutta l’umanità.
L’evangelista qui sta ricordando quanto già aveva scritto nel Prologo (1,14), all’inizio del suo Vangelo: “Dio ha posto la sua tenda fra noi”. Ogni creatura, ogni persona, è questo santuario. Questa non è una promessa per l’aldilà, ma una risposta del Padre a quanti danno adesione a Gesù. Chi non lo ama non osserva le sue parole perché non riconosce in queste parole la forza creatrice e “«la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.»”, assicura Gesù.
Il Padre di Gesù continua la sua stessa azione creatrice, attraverso opere che comunicano vita all’uomo. E poi ecco la promessa di Gesù della venuta del Paràclito, termine greco che indica colui che aiuta, colui che va in soccorso, ed è l’attività dello Spirito Santo, Spirito che viene chiamato “Santo”, non tanto per la qualità, quanto per la sua attività, che è quella di santificare, cioè separare le persone dalla sfera del male.
L’azione dello Spirito nel credente e nella comunità è questa: «Lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto»”. La parola di Gesù e il suo messaggio sono talmente grandi, talmente enormi, che l’uomo con i suoi limiti non può comprenderli in una sola volta, in una sola esperienza, ma, man mano che accoglie questa parola e la traduce in opere che comunicano vita agli altri, si allarga, si dilata la sua capacità d’amore e permette a questa parola di essere sempre più compresa. Gesù assicura che la funzione dello Spirito nella sua comunità non è quella di annunciare un nuovo messaggio, ma di ricordare e di far prendere coscienza della potenza di questo messaggio. Gesù assicura che, di fronte ai nuovi bisogni, alle nuove situazioni, alle nuove emergenze che avverranno nella sua comunità, lo Spirito Santo saprà dare sempre nuove risposte ai nuovi bisogni.
V DOMENICA DI PASQUA – 19 maggio 2019
VI DO UN COMANDAMENTO NUOVO,
CHE VI AMIATE GLI UNI GLI ALTRI
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Gv 13,31-33a.34-35
Quando Giuda fu uscito dal cenacolo, Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui.
Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. ……
Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri.
Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
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Alla base dell’unico comandamento della comunità cristiana, non c’è un dottrina rivelata, ma c’è un gesto d’amore.
“Quando fu uscito…”: Giuda è uscito e non ha accettato l’offerta incondizionata d’amore che Gesù gli sta riproponendo nella cena, ed esce. E aggiunge l’evangelista: “Ed era notte”: Giuda è immerso nelle tenebre, è sprofondato, è stato inghiottito dalle tenebre, la luce che Gesù gli offre non lo raggiunge.
“….Gesù disse: «Ora»” – questa è l’‘ora’ annunciata da tempo in tutto il Vangelo adesso si realizza – “«il Figlio dell’uomo è stato glorificato e Dio è stato glorificato in lui»”: Gesù ha offerto amore incondizionato a tutti, anche al discepolo traditore; al suo odio Gesù ha riproposto l’amore fino a donargli quel boccone che rappresentava se stesso. Giuda lo ha rifiutato. Ebbene, quando l’amore si manifesta in maniera incondizionata, lì si manifesta la gloria di Dio.
Gesù dice: “il figlio dell’uomo è stato glorificato”: Gesù è Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo; è Figlio di Dio, e Dio manifesta in lui la sua condizione pienamente umana; è Figlio dell’Uomo, cioè in Gesù Dio manifesta l’uomo nella condizione divina: quando l’uomo è capace di arrivare ad amare in maniera incondizionata, in lui si manifesta la condizione divina.
E Gesù continua: “«Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito»”. Gesù sta anticipando quello che accadrà nel momento della passione, dove, man mano che le tenebre s’addenseranno su Gesù, brillerà più che mai la luce del suo amore, fino a diventare insostenibile. Gesù sarà la luce che splende nelle tenebre.
In questo momento drammatico, Gesù si rivolge con una tenerezza infinita ai discepoli chiamandoli “Figliolini” – è l’unica volta che appare questo termine nel Vangelo di Giovanni –, letteralmente si potrebbe tradurre con un termine vezzeggiativo: ‘bambini’; “«figliolini, ancora per poco sarò con voi»” – infatti tra poco Gesù sarà arrestato – “«Voi mi cercherete, ma come ho detto ai giudei ora lo dico anche a voi, dove vado io voi non potete venire»”: perché i discepoli non possono andare dove va Gesù (Gesù in quel momento va verso la morte)? Perché i discepoli non hanno ancora lo forza dello Spirito che li sostiene e che Gesù effonderà su di loro dalla croce e al momento della prima apparizione da risorto. I discepoli sono disposti a dare la vita per Gesù, a morire per Gesù, ma non ancora a morire con lui e, soprattutto, come lui.
Ebbene, in questo momento delicato, Gesù lascia alla sua comunità l’unico comandamento: “«Vi do un comandamento nuovo»”. L’evangelista non dice che Gesù lascia un nuovo comandamento, cioè ci sono già quelli della legge di Mosè, i 10 Comandamenti, e Gesù ne aggiungerebbe uno suo; no, Gesù non lascia un nuovo comandamento, ma un comandamento che è nuovo. L’aggettivo “nuovo” in greco indica ‘di una qualità migliore’, un comandamento migliore, che sostituisce tutto il resto.
d. Lucio specifica:
Non ci tragga in inganno la parola comandamento, che, in questo caso, sarebbe riduttiva. Il testo greco non usa più legge di Mosè, realtà positiva ma superata; usa = manifestazione della volontà di Dio.
E il verbo in Giovanni significa sì “dare”, ma con la sfumatura di “donare”.
Il comandamento è un dono, in linea con la tradizione biblica che indicava la Legge data da Dio non per salvare i privilegi di Dio, ma per il suo popolo, per noi, e indica una strada di vita e una luce sul cammino.
Il comandamento nuovo è il punto centrale di tutto il “lieto messaggio” di Gesù.
E’ un riferimento a ciò che l’evangelista aveva già anticipato nel Prologo, quando aveva detto “la legge fu data per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù”. Allora Gesù dà un comandamento e, se lo chiama comandamento è per contrapporlo a quelli di Mosè, perché Gesù comanda l’unica cosa che non può essere comandata ad un uomo. In realtà non è un comandamento! L’amore, infatti, è ciò che non si può comandare a un uomo. Puoi comandare di obbedire, di servire, ma non di amare.
Ed ecco il comandamento: “«Che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi»”: Gesù non dice “come io amerò voi”, al futuro, non si riferisce al dono totale e supremo che manifesterà tra poco sulla croce, ma dice “come io vi ho amato”.
E Gesù come ha mostrato di amare? Il contesto dell’ultima cena ci riporta al momento nel quale Gesù, portando al massimo la sua capacità d’amore, si è fatto dono per i suoi e si è messo a lavare loro i piedi. Quindi è un amore che si esprime nel servire. Cioè è un amore che diventa visibile attraverso il servire: “«così amatevi anche voi gli uni gli altri»”
L’unico comandamento della comunità cristiana è un amore che si manifesta visibilmente nel servizio. Questo è l’unico distintivo dei credenti in Gesù. Essere discepoli di Gesù non si vede da distintivi, da abiti, da ornamenti, o da chissà che, l’unico distintivo che indica che si è discepoli di Gesù è l’amore che si trasforma in servizio per gli altri. Infatti Gesù dice: “«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri»”.
In questo comandamento Dio, che si manifesta in Gesù, non assorbe le energie dei suoi, ma comunica le sue a loro, dice “come io vi ho amato”, così Gesù comunica l’amore. Il Dio di Gesù non assorbe gli uomini, ma chiede di essere accolto per fondersi con loro e donare loro la sua stessa capacità d’amore, dilatando al massimo la loro generosità, il loro dono, il loro servizio e il loro altruismo.
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IV DOMENICA DI PASQUA – 12 maggio 2019
ALLE MIE PECORE IO DO LA VITA ETERNA
Commento al Vangelo di P. Alberto Maggi OSM
Gv 10,27-30
In quel tempo,
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Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
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Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
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Il Padre mio me le ha date, e il gregge è più grande di tutti
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e nessuno può strapparle dalla mano del Padre.
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Io e il Padre siamo una cosa sola».
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Ogni volta che Gesù, il figlio di Dio, e Dio lui stesso, si trova nel tempio di Gerusalemme – il luogo più sacro della terra, il luogo più santo di Gerusalemme, il luogo dove si riteneva fosse presente Dio stesso – è sempre una situazione di conflitto.
In questo brano di Giovanni è l’ultima volta che Gesù si trova nel tempio, nel santuario di Gerusalemme, e questa volta addirittura tenteranno di lapidarlo. Vediamo cosa è successo.
Il contesto più ampio nel quale l’evangelista li inserisce: è una delle feste più importanti di Israele, la festa della dedicazione, – in ebraico Hanukkah – cioè la riconsacrazione del tempio, fatta da Giuda il Maccabeo nel 165 a.C. Per l’occasione si accendeva un grandissimo candelabro ed era chiamata la festa delle luci. Chiaramente c’è un conflitto tra questa festa delle luci e Gesù che si presenta – lui – come luce del mondo.
Infatti quando Gesù entra nel tempio viene subito accerchiato dalle autorità che gli chiedono letteralmente: “fino a quando ci togli la vita?” La missione di Gesù di restituire vita al popolo significa toglierla alle autorità che dominano questo popolo. Questa volta Gesù rivolge alle autorità religiose, i rappresentanti di Dio, parole molto severe.
Gesù dice: “Voi non credete perché non fate parte delle mie pecore”:
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Gesù si era presentato come il vero pastore inviato da Dio per adunare il popolo, il gregge;
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eppure Gesù dice che ci sono alcuni che non fanno parte di questo gregge.
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Proprio le autorità religiose, i capi spirituali, quelli che ritenevano per diritto di essere i più vicini a Dio, Gesù dice che sono esclusi. Ed ecco i versetti che la liturgia ci presenta:
Gesù afferma: “Le mie pecore…”: quindi Gesù sottolinea ancora una volta che le pecore sono sue, lui è il vero pastore, perché il pastore è colui che dà la vita per le proprie pecore;
“… ascoltano la mia voce…”: la voce di Gesù, che è la voce di Dio, è la risposta di Dio al bisogno di pienezza di Dio che ogni persona si porta dentro. Quello che caratterizza la voce di Gesù è che il messaggio d’amore non viene imposto, ma viene offerto, semplicemente proposto;
“…e io le conosco …” : è importante in questo brano l’uso del verbo “conoscere”. Indica una conoscenza veramente intima, profonda dei suoi;
“…ed esse mi seguono.” : lo seguono perché trovano in Gesù la risposta al proprio ideale di vita, cosa che invece non trovano i capi, perché Gesù aveva detto: “almeno credete alle opere”. Ma loro non possono credere in queste opere perché le opere di Gesù sono tutte tese a restituire vita al popolo. E loro sono quelli che invece soffocano questa vita.
E Gesù continua: “Io do loro la vita eterna”: è un tema caro all’evangelista questo. La vita eterna non è un merito, ma è un dono da parte di Dio e si chiama eterna non tanto per la durata, indefinita, ma per la qualità, che è indistruttibile;
“e non andranno perdute in eterno” – cioè mai – “e nessuno le strapperà dalla mia mano”. Ecco, Gesù dà un avviso molto severo, molto chiaro alle autorità religiose: non tentino di strappare queste pecore dalla sua mano. Lui sarà il pastore che darà la vita per le sue pecore.
“Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti”: questo è un versetto un po’ difficile e complesso. Ci sono ben cinque varianti perché il problema è capire cos’è più grande, il padre o il gregge? In fondo il senso, il significato, non cambia. Noi proponiamo la versione in cui quello che è più grande, più importante, è il gregge, che il Padre ha dato al figlio. Quindi il Padre che ha dato questo popolo a Gesù, è il dono più grande che poteva fargli. E se prima Gesù aveva parlato della sua mano (nessuno le può strappare dalla mia mano) ora arriva a dire “e nessuno può strapparle dalla mano del Padre”: quindi non si può distinguere tra Gesù e Dio come facevano le autorità religiose. Dio e Gesù sono la stessa cosa. E il gregge sta nella mano di Gesù che è la mano del Padre. E nessuno tenti di rubare di nuovo questo gregge come avevano fatto le autorità.
Ed ecco la frase che gli sarà fatale, la bestemmia, subito dopo la quale scatterà l’azione di linciare Gesù, di lapidarlo. Gesù afferma: “Io e il Padre siamo una cosa sola”: la traduzione non è corretta. Il testo dice: “Io e il Padre siamo uno”. Uno nella simbologia biblica è il numero che indica la divinità. Gesù sta dicendo che lui è Dio, come il Padre è Dio. “Io e il Padre siamo uno”. Questa è una bestemmia insopportabile.
L’evangelista qui realizza quello che aveva scritto nel prologo all’inizio del suo vangelo, quando aveva affermato che Dio nessuno l’ha mai visto, solo il figlio ne è la rivelazione. Gesù non è un inviato da Dio, Gesù non è un profeta di Dio, Gesù è la manifestazione visibile e terrena di quello che Dio è. Ed ecco perché Gesù dice: “Io e il Padre siamo uno”.
Dopo di questo succede il finimondo. Scriverà l’evangelista che le autorità, i capi, prenderanno delle pietre per lapidarlo e diranno il motivo: “non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia. Perché tu che sei uomo ti fai Dio” : quello che era il progetto di Dio sull’umanità, che ogni creatura diventasse suo figlio e avesse la sua stessa vita divina, per le autorità religiose che dovevano far conoscere questo progetto al popolo, era in realtà una bestemmia da punire con la morte.
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PASQUA – 21 aprile 2019
EGLI DOVEVA RISUSCITARE DAI MORTI
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Gv 20, 1-9
II primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
*
Se Maria di Magdala si fosse recata al sepolcro un giorno prima, avremmo celebrato la Pasqua un giorno prima. Scrive Giovanni nel capitolo 20: “Il primo giorno della settimana” – letteralmente “nel primo dopo il sabato, Maria di Magdala si recò al sepolcro”. Perché Maria di Magdala non si è recata al sepolcro subito dopo la sepoltura di Gesù, ma ha atteso il primo giorno dopo il sabato? Perché è ancora condizionata dall’osservanza della Legge, il riposo del sabato. E quindi l’osservanza della Legge ha impedito di sperimentare subito la potenza della vita che c’era in Gesù, una vita capace di superare la morte. L’evangelista, attraverso questa indicazione, vuole segnalare ai suoi lettori che l’osservanza della Legge ritarda l’esperienza della nuova creazione che viene inaugurata da Gesù.
L’espressione “il primo giorno della settimana” richiama infatti il primo giorno della creazione, in Gesù c’è la nuova creazione, quella che veramente è creata da Dio e come tale non conosce la morte, non conosce la fine. Ma la comunità, rappresentata da Maria di Magdala, è ancora condizionata dall’osservanza della Legge e questo ritarda l’esperienza della resurrezione.
“Si recò al sepolcro di mattino quando era ancora buio”. Le tenebre sono immagine dell’incomprensione della comunità, che ancora non ha compreso Gesù, che si è definito “luce del mondo”, il suo messaggio, la sua verità.
“E vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro”. Ebbene la prima reazione di Maria di Magdala è correre da Simon Pietro e dall’altro discepolo. Gesù aveva detto (Gv 16,32a): “Viene l’ora in cui vi disperderete ciascuno per conto suo”. Ebbene, l’evangelista attribuisce a questa donna, Maria di Magdala, il ruolo del pastore che raduna le pecore che si erano disperse.
E annuncia loro: “«Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto»”. Non parla di un corpo, ma parla del Signore, quindi c’è già l’allusione che è vivo questo Gesù. Ebbene cosa fanno Pietro e l’altro discepolo?
“Si recano al sepolcro”. L’unico posto dove non dovevano andare. Nel vangelo di Luca (24,5) sarà espresso molto chiaramente dagli uomini che frenano le donne che vanno al sepolcro: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”.
Pietro e l’altro discepolo vanno in cerca del Signore nell’unico posto dove lui non c’è, cioè nel luogo della morte. Come Maria per l’osservanza del sabato ha ritardato l’esperienza di una vita più forte della morte, perché Gesù non può essere trattenuto nel sepolcro, luogo di morte – lui è il vivente – così i discepoli vanno al sepolcro, l’unico posto dove non si può trovare Gesù.
Se si piange la persona come morta, cioè se ci si rivolge al sepolcro, non la si può sperimentare viva e vivificante nella propria esistenza.
Entrambi i discepoli corrono, giunge prima il discepolo amato, quello che ha l’esperienza dell’amore di Gesù. Pietro, che ha rifiutato di farsi lavare i piedi e quindi non ha voluto accettare l’amore che Gesù ha espresso nel servizio, arriva più tardi…. Ma l’altro discepolo si ferma e permette che sia Pietro il primo ad entrare. Perché? E’ importante che il discepolo che ha tradito Gesù e per il quale la morte è la fine di tutto – e questo era il motivo del tradimento – faccia per primo l’esperienza della vita.
E poi entra anche l’altro discepolo. “Vide e credette”. Ma il monito fondamentale dell’evangelista è: “non avevano compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”. La preoccupazione di Giovanni è che si possa credere alla risurrezione di Gesù solo vedendo i segni della sua vittoria sulla morte. No! La risurrezione di Gesù non è un privilegio concesso a qualche personaggio duemila anni fa, ma una possibilità per tutti i credenti.
Come? Lo dice l’evangelista: “Non avevano compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”. L’accoglienza della Scrittura, la parola del Signore, nel discepolo, la radicalizzazione di questo messaggio nella sua vita, la sua trasformazione, permettono al discepolo di avere una vita di una qualità tale che gli fa poi sperimentare il Risorto nella sua esistenza. Non si crede che Gesù è risorto perché c’è un sepolcro vuoto, ma soltanto se lo si incontra vivo e vivificante nella propria vita.
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DOMENICA DELLE PALME – 14 aprile 2019
BENEDETTO COLUI CHE VIENE NEL NOME DEL SIGNORE
Commento al Vangelo di P. Alberto Maggi OSM
Lc 19,28-40
In quel tempo, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme. Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: «Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. E se qualcuno vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne ha bisogno”».
Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto. Mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il puledro?». Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno».
Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo:
«Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!». Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». Ma egli rispose: «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».
*
Nella domenica delle Palme la chiesa ci presenta nella liturgia l’ingresso di Gesù a Gerusalemme secondo il vangelo di Luca capitolo 19, dai versetti 28 al 40. Per comprendere quello che l’evangelista ci scrive dobbiamo tener presente la profezia nel libro del profeta Zaccaria, capitolo 9 versetto 9.
Leggiamo questa profezia che ci fa comprendere quanto poi l’evangelista svilupperà:
“Esulta grandemente figlia di Sion – cioè Gerusalemme, ma indica anche tutto il popolo – giubila figlia di Gerusalemme. Ecco a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso”.
E fino a qui era l’attesa del re, del messia, del liberatore di Israele; ma poi Zaccaria presenta una novità, un’immagine clamorosa:
“Umile cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”.
La cavalcatura regale normalmente era la mula o il cavallo. Non si era mai visto un re cavalcare un puledro d’asino. Il profeta vuole indicare che c’è una modalità di essere messia completamente differente da quella che era l’attesa. Un messia modesto, un messia umile, un messia che cavalca la cavalcatura che era quella del popolo, ma non solo: “Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme. – I carri sono i carri da guerra – L’arco di guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle genti.
Questa era la profezia di Zaccaria. Ma una profezia che era stata come accantonata, come dimenticata, perché il messia che doveva venire doveva essere il figlio di Davide, cioè uno che, come il grande re che riuscì ad unificare le tribù di Israele, attraverso il potere, la forza e la violenza, restaurasse il defunto regno di Israele.
Allora leggiamo come l’evangelista ci presenta tutto questo.
Dette queste cose, – si riferisce alla parabola delle mine nelle quali c’è un gruppo di persone che non desidera che un tale venga nominato loro re: è il rifiuto della regalità che anticipa il rifiuto di Gesù come re da parte del popolo.
Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme. È la tappa finale del suo viaggio. Quando fu vicino a Bètfage e a Betània… : è una caratteristica di tutti gli evangelisti di non alludere mai alla morte di Gesù senza poi mettere un riferimento alla sua risurrezione. Se Gerusalemme sarà la città in cui Gesù sarà assassinato, Betania sarà il luogo della risurrezione e dell’ascensione di Gesù.
Presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: “Andate nel villaggio di fronte”: il villaggio nei vangeli ha sempre un significato negativo, il villaggio è il luogo della tradizione, il luogo dove le novità vengono sempre viste con sospetto, quindi quest’immagine del villaggio è quella di un luogo attaccato al passato e che rifiuta il nuovo.
Entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno (letteralmente nessuno mai degli uomini). Slegatelo e conducetelo qui: è importante in questo brano l’uso del verbo slegare che sarà ripetuto per quattro volte. Qual è il significato che l’evangelista vuole dare a questo che di per sé sembra illogico. Cos’è che devono slegare? Devono slegare questa profezia che era stata come incatenata, come legata, perché non volevano un messia modesto, un messia di pace. Ma per primi sono i discepoli che si devono convincere di questo!
E se qualcuno vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne ha bisogno”». Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto: abbiamo detto che il discorso sembra irreale, illogico. Questi che arrivano lì e slegano questo puledro e, scrive l’evangelista, mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il puledro?». Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno». “Ah va bene!”. Quindi è un discorso irreale. Ma l’evangelista, attraverso questa illogicità della narrazione, ci vuol far comprendere il significato: Gesù slega questa profezia che era rimasta legata perché a nessuno interessava un re così.
E mentre i signori (cioè i proprietari) legano, il Signore Gesù è colui che scioglie.
Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro…: il mantello nella simbologia ebraica indica la persona, l’identità della persona, allora i discepoli accettano questo messia di pace e lo gettano sul puledro, questo veicolo di pace. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. Cioè ci sono altri che non comprendono questo, allora si rifanno al gesto di intronizzazione del re quando il popolo stendeva il mantello – il mantello come abbiamo detto indica la persona – sulla strada e il re ci passava sopra, o a cavallo o a piedi, e significava sottomissione.
Questa ambiguità nel testo porterà alla fine tragica di Gesù quando verrà abbandonato. Quando si accorgono che non è il re, il messia, il liberatore, il trionfatore con la violenza, lo stesso popolo che ora lo acclama, sarà quello che griderà poi: “Crocifiggi!” .
Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo … – e qui c’è la citazione di un salmo, il salmo 118, quello dell’intronizzazione del messia: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore”. E poi l’evangelista ci aggiunge l’annuncio che gli angeli hanno fatto ai pastori per indicare la nascita di Gesù: “Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!». Gesù è un messia di pace, è un messia che è il dono di Dio.
Questa acclamazione da parte dei discepoli provoca la reazione furibonda dei farisei: alcuni farisei tra la folla gli dissero: “Maestro, rimprovera i tuoi discepoli”: questo verbo rimproverare si usa per i demoni, per gli indemoniati. Per i farisei è come se i discepoli fossero posseduti da un’ideologia demoniaca acclamando un messia non violento, non l’accettano.
Ma egli rispose: “Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre”: e si rifà ad una profezia conosciuta, quella del profeta Abacuc in cui le pietre gridano contro l’ingiustizia. L’ingiustizia sarà la morte del messia liberatore.
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V QUARESIMA – 7 APRILE 2018
CHI DI VOI E’ SENZA PECCATO, GETTI PER PRIMO LA PIETRA CONTRO DI LEI – Commento al
Vangelo di P. Alberto Maggi OSM
Gv 8,1-11
In quel tempo,
Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.
Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
*
Nel vangelo di Luca ci sono undici versetti che, per molto tempo, nessuna comunità cristiana voleva al suo interno. Ai primi tempi i vangeli non erano riuniti. Ogni comunità aveva il suo vangelo e lo trasmetteva alle altre comunità. Ebbene, quando in una comunità arrivava il vangelo di Luca venivano tolti questi undici versetti.
Sono i versetti che poi hanno trovato alloggio e ospitalità al capitolo 8 del vangelo di Giovanni, dal primo versetto all’undicesimo. In realtà se togliessimo questo brano dal vangelo di Giovanni e lo inserissimo al suo posto originario, nel capitolo 21 dopo il versetto 38 del vangelo di Luca, vedremmo che era quello il suo contesto.
Ma come mai nessuna comunità ha voluto questo brano, addirittura per un secolo, e per cinque secoli questo brano di vangelo non è apparso nella liturgia e fino al 900, quindi sono passati tanti anni, non è stato commentato dai padri di lingua greca? Ebbene, abbiamo la testimonianza preziosa di S. Agostino, quindi nel IV secolo che scrive:
Per timore di concedere alle loro mogli l’impunità di peccare, i componenti delle comunità cristiane tolgono dai loro codici (cioè il testo del vangelo) il gesto di indulgenza che il Signore compì verso l’adultera, come se colui che disse “neanch’io ti condanno!” avesse concesso il permesso di peccare. Quindi erano gli uomini, i mariti, che non volevano questo brano, perché l’indulgenza di Gesù verso la donna adultera sembrava mettesse in pericolo la loro famiglia, la loro unità coniugale.
Leggiamo questo brano importante che è di Luca.
“Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino…- letteralmente all’alba: ed è importante questa indicazione – … si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui”: ogni volta che il popolo va verso Gesù e che Gesù tenta di liberare, di far crescere, di far maturare, subito interviene la reazione delle autorità religiose. Essi vogliono sottomettere il popolo, non renderlo indipendente. Infatti “…gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio”: sappiamo perché sta scritto che è l’alba, probabilmente avevano creato questa situazione.
“La posero in mezzo e gli dissero: «Maestro,…” : è l’ipocrisia delle persone religiose: lo chiamano “maestro”, ma non vogliono apprendere nulla da Gesù, vogliono solo ingannarlo, vogliono condannarlo;
“…questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa.” : notiamo il disprezzo per questa creatura; “…Tu che ne dici?»: dal fatto che la pena richiesta sia la lapidazione, si comprende che questa donna è nella prima fase del matrimonio.
Il matrimonio in Israele avveniva in due tempi. Il primo quando la ragazza aveva dodici anni e il ragazzo diciotto, c’era la fase chiamata il tempo dello sposalizio; un anno dopo cominciava la convivenza e in questa seconda fase iniziavano le nozze.
Se la donna commetteva adulterio nella prima fase, quella dello sposalizio, veniva lapidata. Se, al contrario, l’adulterio era commesso nella seconda fase, veniva strozzata. Il fatto che chiedono per questa ragazzina, la lapidazione, significa che è una ragazzina tra i dodici e i tredici anni.
“Tu che ne dici?»: è una trappola. Gesù, comunque risponda, si dà la zappa sui piedi. Se dice: “ubbidiamo alla Legge divina”, tutto il popolo che ha seguito Gesù perché ha sentito in lui un afflato diverso, ha sentito l’eco dell’amore e della misericordia di Dio, rimarrebbe deluso e lo lascerebbe. Se al contrario Gesù dice: “No, non lapidiamola”: siamo nel tempio, qui c’è sempre la polizia, e Gesù può essere arrestato perché contravviene alla Legge divina, la Legge di Mosè. Infatti l’evangelista commenta: “dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo” : letteralmente “per tentarlo”: è il verbo che l’evangelista adopera per indicare l’azione del diavolo. Quindi questi zelanti difensori della tradizione e dell’ortodossia in realtà, per l’evangelista, non sono altro che strumenti del diavolo. L’evangelista è feroce: le autorità religiose svolgono l’azione del diavolo, di colui che tenta, di colui che accusa.
“Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra”: quale può essere il significato di questo silenzio di Gesù e l’azione di scrivere? È probabilmente un rimando al profeta Geremia 17,13, dove si legge: “Saranno scritti nella polvere quanti hanno abbandonato il Signore”. E’ la denuncia di Gesù: questi zelanti difensori dell’ortodossia, della tradizione, queste persone tanto religiose, in realtà hanno abbandonato il Signore perché covano sentimenti di odio, sentimenti di morte. Nella prima lettera Giovanni dirà poi: “Chi non ama rimane nella morte”.
“Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo una pietra contro di lei»” : non si tratta, come a volte nelle immagini vediamo la gente che prende delle pietre e le lancia. La prima pietra era quella che lanciavano i testimoni dell’accusa; era un masso che poteva pesare anche circa 50 Kg, e veniva gettato sulla donna che era stata calata in una fossa. In pratica era la pietra che la uccideva. Quindi Gesù dice: “Chi è senza peccato esegua la sentenza di morte!”.
“E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani” : il termine adoperato dall’evangelista non vuole indicare tanto “i vecchi”, ma il termine greco è “presbitero”, che allude ai componenti del sinedrio, quelli che nel Sinedrio giudicavano. Il sinedrio era il massimo organo giuridico di Israele, ed era composto dai sommi sacerdoti, dagli scribi e dai presbiteri. Questi che se ne vanno per primi.
“Lo lasciarono solo, e la donna era là, in mezzo” : il finale è carico di grande tenerezza.
“Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore»”. Gesù si rivolge con grande rispetto a questa donna. “E Gesù disse …” : Gesù è l’unico in cui non c’è peccato, l’unico che avrebbe potuto condannarla, che poteva scagliare la prima pietra e poteva rimproverarla, ma Gesù non rimprovera e le dice: “«Neanch’io ti condanno; va’, e d’ora in poi non peccare più». Gesù le comunica la forza per tornare a vivere. Gesù non scaglia su questa donna la pietra che la schiaccia, ma le offre la sua parola che l’aiuti a continuare a vivere.
p. José María CASTILLO:
L’episodio suscita indignazione, non tanto per l’adulterio della donna, ma soprattutto per il cinismo e l’ipocrisia di coloro che l’accusano, tutti uomini. Quei «dotti» scribi e quegli «osservanti» farisei portano a Gesù una donna sorpresa in flagrante adulterio. Come è logico, in quell’adulterio ci doveva essere non solo un’«adultera», ma anche (e con lei) un «adultero». Gli accusatori basano la loro accusa sulla Legge di Mosè, che dice: «Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte» (Lv 20,10; cf. Dt 22,22). E chi ha commesso adulterio con lei? Probabilmente è stato uno di quelli che se ne andarono uno per uno….
IV di QUARESIMA –31 MARZO 2019 QUESTO TUO FRATELLO ERA MORTO ED E’ TORNATO IN VITA di P. Alberto Maggi OSM
Lc 15,1-3.11-32 In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”». * Gesù annuncia il suo messaggio, espone il suo programma, e l’evangelista Luca nel capitolo 15 scrive che si avvicinavano a lui tutti – quindi la globalità – i pubblicani. Quindi i pubblicani sono considerate le persone più lontane da Dio, le escluse, impure per eccellenza, quelle per le quali non c’è alcuna speranza, anche se un domani si pentissero e si convertissero. Quindi si avvicinano a Gesù le persone disprezzate, le più lontane dalla religione e da Dio. E i peccatori per ascoltarlo. Perché trovano nel messaggio di Gesù quella risposta al bisogno di pienezza di vita che ciascuno si porta dentro. Ebbene, mentre gli esclusi dalla religione, i disprezzati dalla società si avvicinano per ascoltare Gesù, c’è chi invece protesta. Scrive l’evangelista: I farisei, cioè i super-pii, i devoti, gli zelanti custodi della tradizione, e gli scribi, i teologi ufficiali del magistero, mormoravano. Quindi mentre i lontani da Dio ascoltano la parola di Gesù perché vedono nel suo messaggio quello che loro attendono, questo stesso messaggio provoca la mormorazione da parte dell’élite spirituale e religiosa. Mormoravano dicendo … ed è tanto il disprezzo che manifestano verso Gesù che evitano di nominarlo, usano un termine dispregiativo, costui, questo. “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Ecco il grande crimine compiuto da Gesù: anziché giudicare, castigare, condannare e tenersi lontano dai peccatori, non soltanto li accoglie, ma mangia con loro. Mangiare indica comunione di vita. Quindi sono scandalizzati dall’atteggiamento di Gesù. Il loro Dio è completamento dal Dio presentato da Gesù. Quello che farisei e scribi non hanno mai capito è che Dio, anziché preoccuparsi di essere obbedito e rispettato nelle sue leggi, è preoccupato per la felicità degli uomini. Ed è a scribi e farisei che Gesù rivolge questa parabola. Quindi non è tanto un insegnamento per la comunità dei discepoli di Gesù, quanto per i suoi avversari. Ed è un insieme di tre parabole, quella della pecora perduta e della moneta smarrita, ma la più conosciuta, la più importante e significativa, è questa del figliol prodigo. La parabola è abbastanza lunga e normalmente nella spiegazione ci si centra su questo figlio che ritorna alla casa del padre e ottiene il perdono da parte di Dio prima ancora di doverlo richiedere. Il padre lo ricostituisce in una dignità, in una onorificenza mai conosciuta prima. Rischia di passare in secondo ordine invece il fratello maggiore che rappresenta quegli scribi e farisei ai quali è diretta la parabola. Pertanto oggi sorvoliamo sulla prima parte, quella del ritorno del figlio, e arriviamo invece alla reazione del figlio maggiore, quindi dal versetto 35. L’evangelista adopera il termine greco presbitero, l’anziano, perché i presbiteri erano, insieme ai sommi sacerdoti e agli scribi, componenti del sinedrio e avevano la potestà di giudicare. Quindi appunto il riferimento è a questi scribi e farisei, ai quali viene rivolta questa parabola. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze. Cosa poteva essere successo? La casa è una casa di lutto perché il padre piangeva come morto il figlio che era andato via. Se all’improvviso in questa casa, ricolmata di tristezza e di lutto, si sente risuonare musica e danze, cosa può essere successo, se non che è tornato il figlio? Ma lui si insospettisce. Il ritratto ironico e severo di Gesù delle persone religiose, per le quali ogni forma di vita, di gioia e di allegria non solo non le attrae, ma le insospettisce. La musica nella casa del padre, non sia mai! Si blocca, Chiamò uno dei servi e gli domandò cosa fosse tutto questo. Avrebbe potuto capirlo da solo. Quello gli rispose, con entusiasmo: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Quindi gli dice il motivo della gioia. Ebbene il fratello maggiore, non solo non si rallegra né si precipita a casa, ma Egli si indignò, letteralmente si arrabbiò, si adirò profondamente e non voleva entrare. Il ritorno del fratello, la gioia del padre, a lui sono estranei. Adesso vedremo che egli ragiona in base al diritto, alla giustizia; gli sembra un’ingiustizia quella che sta accadendo, tanto che il padre deve uscire a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre – e qui c’è il severo ritratto delle persone religiose da parte di Gesù – “Ecco, io ti servo da tanti anni…”. Il verbo servire non è quello che conosciamo anche nella lingua italiana diakono, che significa un servizio fatto volontariamente, ma l’evangelista utilizza un altro termine che indica il servizio dello schiavo, quindi è lui che si comporta come uno schiavo nei confronti del padre. “…e non ho mai disobbedito a un tuo comando…”: l’evangelista adopera lo stesso termine dei comandamenti, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici”. Attraverso questi tre elementi Gesù ridicolizza l’atteggiamento infantile di questi religiosi. L’obbedienza alla legge sostenuta dagli scribi e praticata dai farisei, rende le persone puerili, immature e incapaci. Lui nei confronti del padre – e qui è l’atteggiamento di scribi e farisei nei confronti di Dio – ha un atteggiamento di sottomissione, di servizio. Non è un figlio nei confronti del padre, ma uno schiavo nei confronti di un signore. E la relazione con il padre è basata sull’obbedienza ai suoi comandi e si aspetta una ricompensa. E’ colui che obbedisce a Dio osservando la sua Legge, e si aspetta un premio per i suoi meriti. Non ha capito la novità portata da Gesù: il credente non è più colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo. Quindi Gesù ridicolizza l’atteggiamento di questi scribi e farisei che rimangono infantili. “Non mi hai dato neanche un capretto!...”. Ma era tutta roba tua, la potevi usare! “…Ma ora che è tornato questo tuo figlio…”. E’ terribile ! Anziché dire “è tornato mio fratello”, dice “tuo figlio”, prende le distanze. La religiosità esasperata fa sì che si vedano sempre le persone con astio, con livore, capaci di annullare anche i vincoli di sangue. La trave dello zelo deforma la vista e fa dimenticare l’unica cosa necessaria, che è l’amore. “… che ha divorato le tue sostanze con le prostitute…”, come fa a saperlo? E’ la malizia delle persone religiose; “…per lui hai ammazzato il vitello grasso!”. E la risposta del padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo”, ma fintanto che si vive una relazione con il padre – e secondo il senso della parabola quindi con Dio – fatta di obbedienza, non si può sperimentare l’amore del Padre. Coloro il cui atteggiamento verso Dio è basato sull’obbedienza ai suoi comandi e quindi vedono la trasgressione a questi comandi come una minaccia di castighi, non possono mai sperimentare l’amore gratuito del Padre. Il Dio di Gesù è un Dio che non ama gli uomini per i loro meriti, ma per i loro bisogni. Il suo amore non è concesso alle persone come un premio per la buona condotta, ma come un regalo per i loro bisogni. Questi non lo capiscono. Allora il padre dice: “ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché ….”, e gli ricorda la fratellanza, “tuo fratello era morto ed è tornato in vita”. Ecco questo è il motivo della gioia, ma scribi e farisei, abituati a giudicare tutto secondo il metro della legge e del diritto, non comprenderanno la carità, l’amore e la compassione del Padre. |
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III QUARESIMA – 24 MARZO 2019
SE NON VI CONVERTITE, PERIRETE TUTTI ALLO STESSO MODO
Commento al Vangelo di P. Alberto Maggi OSM
Lc 13,1-9
In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.
O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
*
Ogniqualvolta Gesù tenta di liberare le persone subito appaiono coloro che sono contro questo processo di liberazione. È quanto emerge nel capitolo 13 di Luca. È un episodio che ha soltanto questo evangelista.
Scrive l’evangelista: “In quello stesso tempo…”: quale tempo? Nel capitolo precedente Gesù aveva detto alla folla: “Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” Gesù cerca di emancipare il popolo dall’influsso e dalla dottrina degli scribi, dei farisei. Sono le autorità religiose che determinano quello che la gente deve credere e come deve credere, cosa deve praticare. Allora Gesù invita le persone a crescere, ad essere persone mature, che ragionano con la propria testa e camminano con le proprie gambe. Questo era ritenuto inammissibile per il potere religioso.
Ed ecco la reazione. “…si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei…” : dire “Galileo”, al tempo di Gesù, non indicava soltanto la provenienza da una determinata regione. Galileo significa “rivoluzionario” e indicava gli zeloti, i terroristi dell’epoca. Ricordiamo la grande rivolta di Giuda il Galileo che è scritta negli Atti degli Apostoli. Quindi riferirgli “il fatto di quei Galilei” – Gesù è galileo – “il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere (letteralmente mescolato) insieme a quello dei loro sacrifici…”: equivale a dire: : “Attento Galileo, che qui da noi i Galilei fanno una gran brutta fine”. Gesù sta tentando di liberare il popolo dall’influsso delle autorità religiose e gli arriva questa minaccia, un avvertimento di chiaro stampo mafioso.
Ebbene, Gesù non solo non si lascia intimorire, ma passa all’attacco reagendo: “Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte?” : Gesù smentisce il nesso che vede il castigo come un’azione da parte di Dio per punire i peccati degli uomini. “No, io vi dico, ma se non vi convertite…” : cioè se non cambiate vita. La conversione nel vangelo indica mettere il bene dell’altro come principale valore della propria esistenza, “…perirete tutti allo stesso modo.” : quindi Gesù dice: “attenti! Siete voi che se non cambiate vita farete una brutta fine”.
E Gesù continua. Prima ha fatto un esempio generale, indicando i Galilei, ora parla proprio di Gerusalemme: “O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe…”: Siloe è un quartiere di Gerusalemme, ancora oggi si vede il basamento di questa torre che crollò, “… e le uccise, credete che fossero più colpevoli (letteralmente più debitori) di tutti gli abitanti di Gerusalemme?”
Se prima l’esempio era stato per i galilei, ora Gesù lo porta proprio a Gerusalemme: “No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Gesù riafferma nuovamente quanto detto prima. Quindi Gesù esclude in maniera tassativa il castigo divino e li invita di nuovo alla conversione.
Commenta J.M. CASTILLO: le due disgrazie raccontate non sono necessariamente due fatti storici. Tutto il racconto compone una parabola che ci insegna come dobbiamo interpretare e cercare una spiegazione alle disgrazie che capitano nella vita. La tendenza naturale e frequente si concentra nel cercare chi è il colpevole di tale o talaltra disgrazia. Quando le cose ci vanno male nella vita, molta gente si chiede: cosa abbiamo fatto di male perché ci succeda questo? Gesù risponde: il problema non sta nel cercare il “colpevole”. Le disgrazie ed i mali che ci accadono nella vita, non sono un castigo di Dio contro nessuno. Dio non va cercando i colpevoli per castigarli. La soluzione dei mali che ci piombano addosso, non sta nel “placare” Dio offeso o irritato. La soluzione sta nella “conversione”; parola che traduce il termine greco metánoia, che significa “cambiamento di mentalità”. Gesù ci dice: “dovete cambiare nel vostro modo di pensare”: e tra tutti gli uomini, pensando e agendo con più bontà, con rettitudine e con onestà, trasformiamo gli atteggiamenti vicendevoli e rendiamo più accettabile la vita.
Poi Gesù allarga la tematica; che è una risposta a Giovanni Battista, l’ultimo erede di questa tradizione che vedeva Dio come colui che puniva i peccatori. Ricordiamo che Giovanni aveva detto: “Ogni albero che non porta frutto sarà tagliato e buttato nel fuoco”. Gesù allarga il discorso e Luca prosegue: “diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna”: il fico e la vigna nell’Antico Testamento sono immagini di Israele, del popolo di Israele; “…e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò”. Giovanni Battista diceva: se non porta frutti si taglia e si butta nel fuoco. Gesù non è d’accordo: “allora disse al vignaiolo: “Sono tre anni…” – a rappresentare un tempo completo – “che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose …” – questa è l’azione di Gesù che è contrario a un’azione che distrugge, a un’azione che punisce; Gesù non è venuto a distruggere, ma a portare vita, a vivificare; “…padrone (il termine esatto è “signore”: indica un rapporto con Dio), lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime….” : l’azione di Gesù di fronte ai peccatori, di fronte alle persone sterili, di fronte a coloro che non portano frutto, non è un’azione punitiva, ma vivificante; offre ancora nuove possibilità di portare frutto, di portare vita; e non solo offre la possibilità, ma collabora perché questo si realizzi. E Gesù continua: “…vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”». Il Dio di Gesù, che Luca ci presenta, è il Dio per il quale nulla è impossibile.
Come aveva scritto al momento dell’annunciazione, parlando di Elisabetta, la parente di Maria, che tutti dicevano sterile: questo è il sesto mese per lei, così anche un albero che sembra sterile, per l’azione di Dio e per la collaborazione dell’uomo, può portare frutto.
L’insegnamento di Luca è molto chiaro, molto preciso. A quanti vedono una relazione tra il peccato e il castigo Gesù annuncia in maniera chiara, tassativa e definitiva che l’azione di Dio con i peccatori non è mai punitiva, distruttiva, ma vivificante.
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II QUARESIMA – 17 marzo 2019
MENTRE GESU’ PREGAVA IL SUO VOLTO CAMBIO’ D’ASPETTO
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Lc 9, 28-36
Circa otto giorni dopo questi discorsi, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
*
“Circa otto giorni dopo…”: la datazione è precisa. C’è stato il primo annuncio della passione di Gesù e l’evangelista considera gli effetti della passione, della morte di Gesù e della sua risurrezione.
Il numero otto indica il giorno della risurrezione. La cifra otto indica perciò la vita che non viene interrotta dalla morte.
“…dopo questi discorsi…” – in riferimento all’annuncio della passione – ;
“…Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo…”, i tre discepoli più difficili e che tendono ad essere leader del gruppo;
“…e salì su il monte…”: non è un monte qualunque, è un monte determinato, indicato con l’articolo determinativo, un monte conosciuto. Qual è questo monte? E’ il monte della sfera divina: Gesù presenta loro la sua condizione divina.
“…a pregare”: è tipico di Luca che i momenti importanti della vita di Gesù siano cadenzati da questo stare in preghiera.
“Mentre pregava, il volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante”: ….sfolgorante come i due uomini che annunceranno alle donne la risurrezione e che diranno alle donne: “perché cercate tra i morti colui che è vivente?” (Lc 24,5). Gesù mostra qual è la condizione dell’uomo che passa attraverso la morte. Questa non lo diminuisce, ma lo potenzia.
“Ed ecco…”: l’evangelista ci richiama una sorpresa, “…due uomini…” – esattamente come i due annunciatori della risurrezione (Lc 24,4) – “…conversavano con lui…”: non conversano né con Pietro, né con Giacomo, né con Giovanni;
Sono Mosè, il grande legislatore, ed Elia, il grande profeta, quelli che noi chiamiamo l’Antico Testamento, diviso nelle parti della Legge e dei Profeti;
“…apparsi nella gloria e parlavano del suo esodo…” – Luca è l’evangelista che pone l’itinerario di Gesù come un esodo – “…che stava per compiersi a Gerusalemme”.
La denuncia che fa l’evangelista è drammatica: Gerusalemme, la città santa, ora è diventata luogo di prigionia, esattamente come era stato l’Egitto e, come Mosè ha dovuto far uscire il popolo ebraico dalla schiavitù egiziana, così ora Gesù deve portare via il popolo di Israele dalla schiavitù… della casta sacerdotale che a Gerusalemme deteneva il suo potere e sottometteva il popolo.
“Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno”: questo significa che non ascoltano, e pertanto non seguono e non sono solidali con Gesù. La stessa scena la ritroveremo al momento della passione, quando Gesù, sul Monte degli Ulivi, si metterà a pregare e anche allora i discepoli saranno oppressi dal sonno (Lc 22,45-46). Il sonno significa incomprensione di quello che Gesù sta dicendo.
“Ma quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui, mentre questi si separavano da lui” : il momento è drammatico: Mosè ed Elia, quelli che danno sicurezza al gruppo, la Legge e i Profeti – “si separavano da lui”. Pietro, che svolge il ruolo del satana, cioè del tentatore, viene presentato soltanto col suo soprannome negativo, tenta di impedire questa separazione;
“Pietro disse a Gesù: «Capo»…”, non ‘Maestro’, come qui viene tradotto il termine greco (epistàta), che significa “capo, padrone” (per indicare “maestro” gli evangelisti usano la parola didascalos); questo termine fa capire che Pietro ha ancora un’idea di sottomissione rispetto a Gesù;
“«…è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne…»”. Perché capanne? C’era una festa in Israele, talmente importante che non aveva bisogno di essere nominata, era chiamata semplicemente ‘la festa’. Era la festa delle capanne, che ricordava la liberazione dalla schiavitù egiziana e per una settimana il popolo viveva sotto delle capanne. La tradizione diceva che, come nell’antica liberazione si viveva sotto le capanne, in quella festa, si sarebbe manifestato il messia liberatore. Quindi Pietro invita Gesù ad essere il messia atteso, secondo la tradizione.
“«…una per te, una per Mosè, e una per Elìa»”: quando ci sono tre personaggi il più importante viene indicato sempre al centro; ebbene per Pietro al centro non c’è Gesù, ma Mosè che dà la sicurezza della Legge, e Gesù è in disparte, come Elia. Al centro c’è la Legge, poi ci sono i profeti e poi c’è Gesù. Quello che Pietro sta dicendo è: “Ecco il messia che io voglio: un messia che guidi il popolo all’osservanza della Legge, e con lo zelo profetico e violento di Elia”. E l’evangelista commenta: “E non sapeva quello che diceva”.
“Mentre parlava così, venne una nube…” : la nube è il simbolo dell’azione divina – “…che li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura”: è la paura della manifestazione divina. “E dalla nube uscì una voce che diceva: «Questi è il figlio mio…»” – ‘figlio’ significa colui che assomiglia al padre – ”«…l’eletto»” . E poi il verbo è all’imperativo : “«lui ascoltate!»”: cioè non dovete ascoltare né Mosè, né Elia, ma è lui che dovete ascoltare.
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QUARESIMA – 10 marzo 2019
GESU’ FU GUIDATO DALLO SPIRITO NEL DESERTO
E TENTATO DAL DIAVOLO
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Lc 4,1-13
[In quel tempo]
Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame.
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Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”».
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Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
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Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.
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Per la prima domenica di Quaresima, la chiesa per la liturgia ci offre il brano conosciuto come le tentazioni di Gesù (Lc 4 , 1-13). Per comprendere bene quello che l’evangelista ci vuole presentare, dovremmo abbandonare il termine “tentazione”, perché per “tentazione” si intende qualcosa che incita al male, al peccato; invece, qui, nulla di tutto questo.
Il diavolo, lo vedremo, non si presenta come un avversario che tenta Gesù al male, al peccato, ma come un suo collaboratore, un fidato collaboratore, che gli consiglia tutti i mezzi per affermarsi come messia e si mette a sua disposizione.
“Gesù, pieno di Spirito Santo”: è dopo il battesimo e ha ricevuto lo Spirito, cioè la forza, la capacità d’amore di Dio – “si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto”.
Perché nel deserto? Luca pone tutta al sua opera sotto la direttiva dell’esodo di Gesù. C’era stato un antico esodo, quello in cui gli ebrei erano stati liberati da Mosè dalla schiavitù egiziana per entrare nella terra promessa. Ora la terra promessa è diventata terra di schiavitù dalla quale Gesù deve uscire.
“Per quaranta giorni” : i numeri nella Scrittura hanno sempre valore figurato, mai matematico, aritmetico: il numero quaranta indica ‘una generazione’. Quello che l’evangelista ci vuole presentare, come del resto gli altri evangelisti, non è un periodo di tempo limitato nella vita di Gesù in cui Gesù ha vinto in questa gara contro il diavolo. No, l’evangelista ci dice che tutta la vita di Gesù è stata sotto l’insegna di queste tentazioni, o meglio di queste seduzioni. Quindi questo numero ‘quaranta’ rappresentata tutta la vita di Gesù.
“Tentato dal diavolo”: chi è il diavolo? Se Dio è amore che si mette a servizio, il diavolo è l’immagine del potere che toglie.
“Non mangiò nulla”: qui non si tratta di digiuno; l’evangelista evita il termine “digiuno” per non far pensare che Gesù abbia praticato il digiuno religioso, ma dice che “non mangiò nulla in quei giorni”. “Ma quando furono terminati, ebbe fame”: non è una fame fisica, la fame di Gesù è qualcosa di più. Gesù dirà più avanti (Lc 22,15-16), al momento della sua passione, “ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché non la mangerò più finché essa non si compia nel Regno di Dio”. Quindi la fame di Gesù, l’uomo pieno di Spirito Santo, è manifestare questo Spirito attraverso il dono totale di sé, la pienezza della sua missione. Ecco allora che sopraggiunge il diavolo, che, ripeto, non viene come un avversario, ma come un collaboratore, anzi, un fidato collaboratore.
PRIMA TENTAZIONE/SEDUZIONE
“Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei il Figlio di Dio»”: attenzione: il diavolo non mette in dubbio la figliolanza di Dio, anzi, ma dice “giacché sei il Figlio di Dio”, questo è il significato, cioè “sei il Figlio di Dio, usa le tue capacità a tuo vantaggio”, “«dì a questa pietra che diventi pane»”. C’è qui un’eco di quello che più volte verrà ripetuto a Gesù durante la sua esistenza. Per questo dicevamo che non sono un periodo limitato di tempo, ma tutta la vita di Gesù, all’insegna di queste tentazioni. Quando Gesù a Nazareth predica in una sinagoga, la gente gli dirà “medico, cura te stesso” (Lc 4,23), o più ancora, quando, appeso già alla croce, i capi gli diranno “ha salvato gli altri, salvi se stesso se è il Cristo di Dio” (Lc 23,35). Ecco: la stessa tentazione: giacché sei il Figlio di Dio usa le tue capacità per te, usi le sue forze per salvarsi. Quindi la prima tentazione è usare a proprio vantaggio le sue capacità. E Gesù risponde con un brano preso dal Libro del Deuteronomio (8,3), “«Non di solo pane vivrà l’uomo»”, quindi c’è qualcosa di più importante.
SECONDA TENTAZIONE /SEDUZIONE
“Il diavolo lo condusse in alto” : ’condurre in alto’ è un’ espressione che indica la sfera divina, quindi gli offre la condizione divina – “e gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria perché a me è stata data e io la do a chi voglio»”. La denuncia dell’evangelista è drammatica, non è Dio, ma è il diavolo colui che conferisce il potere e la ricchezza. Potere e gloria sono del diavolo e lui le dà a chi vuole.
C’è un’unica condizione, “«Se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo»”. Il potere, la ricchezza e la gloria sono del diavolo, e il diavolo è disposto a darli perfino a Gesù. Perché? Fintanto che ci sarà potere ci sarà ingiustizia e non potrà realizzarsi il Regno di Dio. Quindi il diavolo sta tentando, sta seducendo Gesù con la presa del potere che è il vero peccato di idolatria: usare il potere per affermare il Regno di Dio. Il Regno di Dio non si afferma con il potere, ma con l’amore.
Gesù gli risponde, sempre prendendo una frase dal libro del Deuteronomio (6,13s), «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”»: cioè l’incompatibilità tra Dio e il potere, tra l’amore che si fa servizio e il dominio. L’incompatibilità è assoluta.
TERZA TENTAZIONE/SEDUZIONE
L’ultima carta che ha il diavolo è quella di portarlo nella città santa, a Gerusalemme, e lo mette addirittura sul punto più alto del tempio e, mentre con questa nuova seduzione ripete “Giacché sei il Figlio di Dio”, abbiamo notato che in quella di mezzo non gliel’ha proposta. La tentazione del potere e della ricchezza non è importante rivolgerla a uno perché è Figlio di Dio, perché è una tentazione alla quale – e il diavolo lo sa – ogni uomo (religioso o no) soccombe. Alla tentazione della ricchezza e del potere pochi riescono a resistere. E qui invece di nuovo dice «Giacché sei il Figlio di Dio, gettati giù»”: cioè fa’ un segno spettacolare, straordinario, delle tue capacità così il popolo di crederà.
E qui il diavolo sembra un esperto dottore della legge, infatti cita il Salmo 91, due versetti (11 e 12): “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Quindi qui l’evangelista fa comprendere che, sotto la figura di questo diavolo, si nascondono in realtà i dottori della legge che tenteranno Gesù.
E Gesù mette fine alla disputa. “Gli rispose: È stato detto: “Non metterai alla prova», cioè esattamente ‘non tenterai’, «il Signore Dio tuo”». E, di nuovo citando il libro del Deuteronomio (6,16), Gesù afferma la piena fiducia nel Padre.
“Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato”: Qual è questo momento fissato? Nel Vangelo c’è un punto ben preciso, al capitolo 10, versetto 25, quando sarà proprio un dottore della legge colui che tenterà Gesù.
Il verbo “tentare” riapparirà di nuovo; quindi queste tentazioni non sono un episodio isolato della vita di Gesù, ma tutta l’esistenza di Gesù è stata sotto il segno della tentazione, della seduzione, di prendere il potere e la ricchezza per affermare il Regno di Dio. Ma Gesù ha rifiutato assolutamente.
Commento al Vangelo di p. José María CASTILLO
Lc 4,1-13
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La prima cosa che qui bisogna considerare è che il racconto delle tentazioni non ha valore storico. È quello che nel giudaismo si chiama una haggadá (F. Bovon), una narrazione che contiene un insegnamento che serve come norma nella vita. In questo caso non si tratta semplicemente del fatto che il diavolo possa tentarci per fare il male. Così come viene fuori l’attività del diavolo, in questo racconto non chiede a Gesù che faccia del male a qualcuno. Tutto il contrario: che ci sia pane, che Gesù abbia potere e gloria nel mondo e che tra ali di angeli cada come piovuto dal cielo. Ci può essere una cosa migliore di tutto questo? In cosa consiste qui la tentazione?
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È curioso che i buoni commenti generali ai vangeli di Matteo e Luca, che sono quelli che contengono quest’episodio, non spiegano il senso profondo di questo racconto fondamentale nel progetto di vita proposto dai due vangeli. Se non mi sbaglio, a mano a mano che passano gli anni ed i secoli, noi cristiani possiamo avere più elementi di giudizio per comprendere e spiegare il livello straordinario di questo strano racconto. Con la prospettiva del tempo e dei secoli scopriamo la portata del Vangelo. Dove ed in cosa sta la chiave di tutto quello che qui ci viene detto?
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Spesso si prende tra le mani F. Dostoevskij (Fratelli Karamazov, V,5). In quest’haggadá questo è per noi il significato, che la più grande perversione del Vangelo che si possa fare in questo mondo consiste nel presentare l’opera ed il messaggio di Gesù in tre cose: “miracoli”, “misteri” ed “autorità”. E’ ciò che ha fatto la Chiesa servendosi del Vangelo o spiegandolo a partire da queste tre parole e dal loro contenuto. Così il Vangelo è stato emarginato e praticamente annullato e lo abbiamo messo nelle mani di vescovi, preti e frati. A volte protestiamo contro di loro, ma ci va bene il consegnare loro la nostra libertà.
In questo modo ci va bene la religione e ci siamo liberati del carico che suppone il Vangelo. Voglio dire: la religione non trasforma questo mondo ed il Vangelo non ci rende più umani e più felici. Aspettiamo e desideriamo che il papa sistemi tutto, ma questo non si mette a posto cambiando il papa ma cambiando noi stessi. Sta succedendo che non vogliamo fare quest’ultima cosa, sebbene pensiamo altre cose che non servono a nulla.
VIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – 3 MARZO 2019
LA BOCCA ESPRIME CIÒ CHE DAL CUORE SOVRABBONDA.
COMMENTO AL VANGELO DI: P. ALBERTO MAGGI OSM – J.M. CASTILLO
Lc 6, 39.45
In quel tempo,
Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.
Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo.
L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».
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Gesù, dopo aver invitato i suoi discepoli ad essere figli dell’Altissimo, cioè ad essere benevoli verso gli ingrati e i malvagi, a non escludere nessuno dal raggio d’azione di questo amore e provare sentimenti addirittura materni nei confronti degli altri, ora mette in guardia i discepoli dai rischi della spiritualità farisaica, sempre presenti in ogni comunità, la pretesa dei discepoli di mettersi a fare da guida degli altri. Nella comunità di Gesù c’è una sola guida e un solo maestro: il Cristo.
Allora Gesù nel suo insegnamento dice ai discepoli: ” Può forse un cieco guidare un altro cieco?”: Ecco, la sola pretesa di essere la guida dell’altro rende cieca la persona. Il credente non è chiamato a fare da guida; l’unica guida è il Cristo, il credente è compagno di viaggio che sostiene, che incoraggia, non è la guida.
E dice Gesù: “Se un cieco guida un altro cieco cadono tutte e due nella fossa”: Gesù ricorda la maledizione biblica del libro del Deuteronomio “maledetto chi fa smarrire il cammino al cieco”.
E poi Gesù mette in guardia: “un discepolo non è più del maestro, ma ognuno – che sia ben preparato – sarà come il suo maestro”: Gesù invita il discepolo a crescere, a diventare indipendente, a essere realizzato nella persona, a non avere più bisogno di un maestro perché è lo Spirito che lo guida.
Il Padre di Gesù governa gli uomini comunicando interiormente il suo Spirito che rende liberi e indipendenti.
Gesù ritorna poi di nuovo sul tema della cecità: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?”: la pretesa di essere guida, maestro dell’altro, e il fatto che tu pretendi di correggere l’altro è perché hai una trave conficcata nel tuo occhio. E Gesù continua in maniera ironica: “ Come puoi dire a tuo fratello lascia che ti tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio?” : non vedere la trave nell’occhio significa una presunzione, un senso di superiorità; è quella che Gesù definisce una ipocrisia.
E Gesù invita: “togli prima la trave nel tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. È quella che nella spiritualità si chiama la correzione fraterna, ma quando uno è riuscito a togliersi la trave che ha conficcato nell’occhio, gli passa la voglia di andare a cercare le pagliuzze negli occhi dei fratelli.
Poi Gesù dà un criterio per garantire l’autenticità del discepolo: quando i frutti sono frutti che comunicano vita, allora vengono da Dio. Gesù fa l’esempio comprensibile a tutti: “Non vi è albero buono – letteralmente bello – che produca un frutto cattivo, è ovvio, né vi è d’altronde un albero cattivo che produca un frutto buono, bello: quindi il criterio dell’autenticità non è la dottrina, l’ortodossia, ma il frutto che si produce. Se uno stile di vita, se un messaggio produce vita, arricchisce la vita, allora viene senz’altro da Dio perché Dio è l’autore della vita.
E conclude Gesù: “l’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore – il cuore in quella cultura è la mente, è la coscienza – trae fuori il bene. Cosa significa? Chi si alimenta di bene, inevitabilmente produce il bene per gli altri. Ecco perché è importante alimentarsi soltanto di quello che Luca indica come bello, buono, perché quanto in noi diventa fonte di alimento è quello che poi produce alimento per gli altri.
E allora; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro tira fuori il male: è un invito di Gesù di mettersi sempre a fianco del bello, alimentarsi del bello per essere persone belle che trasmettono il buono agli altri!
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p. José María CASTILLO
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Colui che cade così in basso è l’«ipocrita», a giudizio di Gesù. Non nel senso moderno di “falsità cosciente”, ma è l’ipocrisia nel senso biblico antico, indica la cecità incosciente su se stesso. Cioè, chi vive come un cieco, ma non si rende conto della sua propria cecità. Troppo spesso non vediamo la realtà così come è e non ci rendiamo conto del fatto che non vediamo quello che succede intorno (cf. F. Bovon).
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Queste “ipocrisie”, queste “cecità” sono il frutto inevitabile di chi vive separato dalla realtà della vita, lontano da ciò che vive la gente e da come vive la gente, la società in generale. Questo è tipico di ambienti chiusi, le “clausure” che separano dal reale, da quello che succede nel nostro ambiente. Il Vangelo parla sempre della vita, della società, dell’ambiente nel quale ci muoviamo.
Come possiamo parlare del Vangelo, se non viviamo tra la gente e con la gente come è vissuto Gesù?
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VII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – 24 FEBBRAIO 2019
SIATE MISERICORDIOSI, COME IL PADRE VOSTRO È MISERICORDIOSO
COMMENTO AL VANGELO DI P. ALBERTO MAGGI OSM
Lc 6,27-38
(In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli
….«A voi che ascoltate, io dico:
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amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano,
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benedite coloro che vi maledicono,
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pregate per coloro che vi trattano male.
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A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra;
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a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica.
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Da’ a chiunque ti chiede,
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e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.
E “COME VOLETE CHE GLI UOMINI FACCIANO A VOI, COSÌ ANCHE VOI FATE A LORO”!
Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano.
E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso.
E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto.
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Amate invece i vostri nemici,
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fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.
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Non giudicate e non sarete giudicati;
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non condannate e non sarete condannati;
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perdonate e sarete perdonati.
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Date e vi sarà dato:
una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».
***
“Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso”:
tutto il vangelo di Luca non è altro che una variazione su questo tema, una riproposizione di questa espressione in molteplici forme. È quello che vediamo nel brano che commentiamo: il capitolo sesto di Luca, dal versetto 27 al 38, dove Gesù invita i suoi discepoli a mettere la propria vita in sintonia con l’onda d’amore di Dio per renderla indissolubile.
Scrive l’evangelista: Ma voi che ascoltate – questi voi che ascoltano sono i discepoli che Gesù ha proclamato beati – io vi dico – ed è un invito a un amore che è dinamico, a un fare, non passivo – amate i vostri nemici: ecco cosa significa portare la propria vita in sintonia con l’amore di Dio, e fate del bene, letteralmente qui l’evangelista scrive “fate bello, fate belli”. Il termine che è tradotto “bene” in greco ha il significato di “bello” ed è molto importante questo termine con il quale poi si conclude questa pagina.
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L’amore serve per fare belli quelli che sono brutti perché quelli che odiano sono persone brutte.
Allora con il vostro amore rendeteli belli, significa collaborare all’azione creatrice di Dio che, leggiamo nel libro del Genesi, quando egli crea, tutto quello che crea “vide che era molto bello/buono”.
E per questo Gesù invita a benedire quelli che maledicono, a pregare per quelli che vi trattano male proprio per mettere in sintonia la propria lunghezza d’amore con quella di Dio.
Invita anche a un atteggiamento positivo nei confronti della violenza nel senso che la violenza non deve essere subita in maniera passiva, ma occorre disinnescare la violenza. Ecco perché Gesù dice a chi ti percuote sulla guancia offri anche l’altra. La dignità la perde chi schiaffeggia, non chi viene schiaffeggiato. Allora, con la pienezza della propria attività, far vedere all’altro l’inconsistenza della sua azione violenta.
Poi Gesù si rifà a quella che era una regola conosciutissima, che nell’Antico Testamento è chiamata la regola d’oro. La troviamo anche nella storia di Tobia: libro di Tobia 4, 15 :
“non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te stesso”.
Per Gesù non c’è mai il negativo, ma sempre positivo, e cambia questa espressione con “come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro”: quindi non “non fare agli altri quello che non vuoi che venga fatto a te”, ma “fai agli altri quello che vuoi che venga fatto a te”: è un atteggiamento positivo, è un atteggiamento creativo.
Poi, dopo aver fatto la contrapposizione tra il credente e i peccatori, Gesù afferma che non c’è bisogno di credere in Dio, di essere figli di Dio per voler bene a quelli che ci vogliono bene; figli di Dio non si nasce, ma si diventa attraverso l’accoglienza e l’imitazione del suo amore. Infatti Gesù dice: “Amate invece i vostri nemici”: in questa pagina non sono tanto indicazioni su atteggiamenti che gli uomini devono avere e quello che gli uomini devono fare, ma questa pagina è il ritratto di chi è Dio, perché Dio è così.
Fate del bene – prestate senza sperarne nulla e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo: figli di Dio non si nasce, ma si diventa attraverso l’imitazione del suo amore.
E qui Gesù demolisce uno dei pilastri della religione, di ogni religione: in ogni religione Dio premia i buoni, ma castiga i malvagi. Ebbene Gesù supera tutto questo, presenta un Dio non solo buono, ma esclusivamente buono, il cui amore si rivolge a tutti. Ecco perché Gesù afferma Egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Qui Luca supera la teologia di Matteo che aveva detto che “Dio è buono verso i malvagi e verso i buoni”. Qui no, i buoni scompaiono, è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.
Dio è amore e la sua è un’offerta continua e crescente d’amore ad ogni persona.
Ed ecco la parola sulla quale si centra tutto il vangelo di Luca: siate misericordiosi: è l’unica volta che nel Nuovo Testamento appare questo termine “misericordiosi”. Si trova un’altra volta nella lettera di Giacomo.
Questo termine “misericordiosi” viene da un termine ebraico che indica il grembo, l’utero materno. Gesù dice “siate misericordiosi…”; avrebbe potuto dire “come è misericordiosa una madre” perché ci si riferisce alle viscere materne, e invece Gesù dice: come il Padre vostro.
Contrappone l’atteggiamento della madre con quello del padre? Non lo contrappone, in realtà lo unisce: Gesù presenta un padre che è materno perché l’amore materno è l’amore incondizionato. E Gesù invita a questo:
ad essere misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso.
Nell’Antico Testamento il Signore concludeva le sue prescrizioni con l’invito “siate santi come io sono santo”, ma la santità può separare dagli altri, perché la santità è intesa come osservanza di regole e di leggi, qui Gesù invita ad essere misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso; e questo amore, che è amore materno, questo amore viscerale, non solo non allontana, ma avvicina, non separa, ma unisce.
E Gesù continua in questa crescita:
“non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati”. Ed ecco un’altra sorpresa: “perdonate e sarete perdonati”: il perdono non lo si ottiene andando al tempio attraverso un’azione liturgica, ma attraverso un atteggiamento dinamico che significa riempire d’amore la persona che ha sbagliato.
Il perdono non significa dimenticare, ma significa far comprendere all’altro: la tua capacità di farmi del male non sarà mai tanto grande come la mia di volerti e farti del bene.
E dopo la conclusione, Gesù si rifà all’uso dei mercati, quando le merci venivano messe nell’abito, che veniva raccolto e fatto a tipo di sacca, di borsa, date e vi sarà dato: il Signore non si lascia vincere in generosità. In questa dinamica di amore ricevuto e amore comunicato, tanto più grande è l’amore comunicato agli altri, tanto più grande sarà la possibilità da parte di Dio di trasmettere amore.
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VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – 17 FEBBRAIO 2019
BEATI I POVERI. GUAI A VOI, RICCHI.
Lc 6, 17.20-26
In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne.
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
«Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame, perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete, perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi, perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi, perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete, perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».
Le beatitudini oggi alle porte del regno, di Tonino Bello
“Beati voi…”
Si intuisce che queste parole pronunciate da Gesù nascondono promesse importanti. Alludono a quegli appagamenti di gioia completa che andiamo inseguendo da tutta una vita. Fanno riferimento a quel senso di benessere pieno di gioia completa che esiste solo nei nostri sogni.
Non ci vuol molto a capire, insomma, che sotto queste parole veloci del discorso della montagna c’è qualcosa di grande. E che, di quel misterioso “regno dei cieli“, la cosa più ovvia che si possa dire è che rappresenta il vertice della felicità. Gesù vuol dare una risposta all’istanza di felicità che ci assedia da sempre.
Che cosa significhi il termine “beati” è difficile spiegarlo.
C’è chi ha voluto specularci sopra, capovolgendo addirittura il senso delle parole. Quasi Gesù avesse inteso dire: quante più sofferenze potete collezionare in questa vita, tanto più vi garantite il successo nell’altra.
Questo è un modo blasfemo di leggere le beatitudini, perché spinge i poveri all’inerzia, narcotizza i diseredati della terra con le lusinghe del cielo, contribuisce a mantenere un ordine sociale ingiusto e, in un certo senso, legittima la violenza di chi provoca il pianto degli oppressi.
C’è invece, chi ha visto nella formulazione delle beatitudini un incoraggiamento rivolto ai poveri, agli afflitti, agli umili, ai piangenti, ai perseguitati… per sostenerli con la speranza dei beni del cielo…. tirate avanti lo stesso e consolatevi con le promesse della felicità futura. Pensate a quel che vi toccherà un giorno…
Anche questo è un modo stravolto di leggere le beatitudini. Meno delittuoso del primo, ma che pur sempre punta sull’idea della compensazione. Perché induce ad arrenderci senza troppa resistenza, perfino dove sono evidenti le prove della cattiveria umana….
E c’è finalmente, il modo legittimo di leggere le beatitudini. Consiste, essenzialmente, nel felicitarsi con i senzatetto e i senza pane: “Felici voi, per voi c’è una buona notizia! Se tutti si son dimenticati di voi, Dio ha scritto il vostro nome sulla palma della sua mano…
Felicitazioni a voi che, a causa della vostra mitezza, vi vedete sistematicamente scavalcati dai più forti e dai più furbi: il Signore non solo non vi scavalca nelle sue graduatorie, ma vi assicura i primi posti nella classifica generale del suo amore per voi.
A tutti voi che state sperimentando l’amarezza del pianto e la solitudine dei giorni neri: c’è qualcuno che non rimane insensibile al gemito nascosto degli afflitti! Il Padre prende le vostre difese, parteggia decisamente per voi, e addirittura si costituisce parte lesa ogni volta che siete perseguitati a causa della giustizia.
Gioite, voi che, in un mondo sporco e sovraccarico di ambiguità, camminate con cuore limpido e incontaminato. Abbiate coraggio, “Su con la vita!” voi che, sfidando le logiche della prudenza, vi battete con vigore per dare alla pace un domicilio stabile sulla nostra terra: non lasciatevi scoraggiare dai sorrisi maliziosi!
E anche voi che prendete batoste da tutte le parti a causa della giustizia: le vostre cicatrici splenderanno un giorno come le stimmate del Risorto! Siete felici perché Dio è vostro padre e gli consentite di aiutarvi attraverso la comunità dei fedeli.
E’ splendida l’esortazione che al termine della messa viene pronunciata sugli sposi: “Sappiate riconoscere Dio nei poveri e nei sofferenti, perché essi vi accolgano un giorno nella casa del Padre“.
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IV TEMPO ORDINARIO – 3 febbraio 2019
GESU’ COME ELIA ED ELISEO E’ MANDATO NON PER I SOLI GIUDEI
– Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Lc 4,21-30
(In quel tempo,)
Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
Il vangelo di questa domenica ci presenta la prima fallimentare predica di Gesù a Nazaret. L’evangelista – già l’abbiamo visto domenica scorsa – presenta un Gesù a Nazaret che si alza e legge un famoso brano, conosciutissimo, atteso, quello del capitolo 61 del profeta Isaia, che indicava la venuta del Messia.
Ma, arrivato al punto in cui dice “proclamare l’anno di grazia del Signore”, Gesù interrompe la lettura e non prosegue con quello che era il versetto più atteso: “e la vendetta del nostro Dio”. Era quello che il popolo aspettava, dominato dai romani.
Allora vediamo il proseguimento di questo brano, il capitolo 4 di Luca, dal versetto 21 al 30.
Allora cominciò a dire loro nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». E l’evangelista continua aggiungendo: “Con i vostri orecchi”. Gesù, alludendo a una citazione del profeta Ezechiele che dice che il popolo ha orecchi ma non ascolta, perché è una genia di ribelli, prepara quello che segue. Tutti, cioè tutti i presenti nella sinagoga …
E qui bisogna tradurre bene questo termine, gli davano testimonianza. Il verbo “testimoniare” in greco è martireo, da cui il termine “martire” che conosciamo tutti. Dal contesto dipende se è una testimonianza a favore o contro. Qui è chiaramente una testimonianza contro. Quindi è meglio tradurre “Tutti gli erano contro”.
Ed erano meravigliati, sconvolti. Da che cosa? Delle parole di grazia, perché Gesù non ha parlato della vendetta contro i dominatori, ma soltanto di grazia; che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Non stanno mettendo in dubbio la paternità di Giuseppe, perché, come ha scritto l’evangelista, era figlio, come si credeva, di Giuseppe. Ma “figlio”, nella cultura del tempo, non indica soltanto colui che è nato dal padre, ma colui che gli assomiglia nel comportamento. Quindi evidentemente Gesù non assomiglia al padre iuseppe nel comportamento. Probabilmente anche Giuseppe partecipava di questi ideali nazionalisti, violenti. Nei testi ebraici del tempo l’appellativo di Giuseppe, era addirittura “il pantera”, quindi dà l’idea di qualcosa di bellicoso. Quindi Gesù non assomiglia al padre.
Gesù, anziché calmare gli animi, rincara la dose. Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso”. Sarà poi quello che gli diranno sulla croce, “Ha salvato gli altri, salvi se stesso”. Quanto abbiamo udito che accadde … E qui Gesù rincarando la dose parla di una città rivale di Nazaret, usando un termine dispregiativo “in quella Cafarnao”, fallo anche qui, nella tua patria!”.
Usando il termine “patria” l’evangelista vuol far comprendere che quanto accade a Nazaret sarà poi rappresentativo di tutto quello che accadrà nella sua terra. Poi aggiunse: «In verità” … Quindi è un’affermazione solenne … “ io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria”. Perché?
Il profeta chi è? È quell’individuo che, in sintonia con Dio, non ripete le cose del passato, ma crea le nuove. Ecco allora che sarà sempre vittima dell’avversione e dell’opposizione della classe sacerdotale al potere. E poi Gesù fa quello che non doveva fare. C’erano due episodi della storia di Israele che si preferiva tenere nel dimenticatoio, nel passato. Erano episodi nei quali, di fronte a delle emergenze, Dio ha soccorso non gli ebrei, il popolo eletto, quelli che avevano dei diritti, dei privilegi, ma è andato a soccorrere niente meno che i disprezzati, i pagani. Erano due episodi che si preferiva dimenticare. Gesù invece li toglie dal dimenticatoio. “Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese – quindi anche in Israele – ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. Quindi in terra pagana.
Gesù sta indicando che l’amore di Dio è universale, che non significa soltanto “estensione”, cioè ovunque, ma “qualità”, è per tutti. L’amore di Dio non è attratto dai meriti delle persone, ma dai loro bisogni.
E poi Gesù rincara ancora la dose. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro. Un altro pagano, se non addirittura un nemico di Israele. È troppo. Infatti, all’udire queste cose, tutti nella sinagoga… I “tutti” sono gli stessi dei quali l’evangelista diceva “tutti gli davano testimonianza” cioè “tutti gli erano contro”.
Tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno, letteralmente “schiumarono” di ira. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città. L’evangelista sta anticipando quella che poi sarà la sua fine quando verrà ucciso fuori della città santa di Gerusalemme. E lo condussero fin sul ciglio del monte. Il monte qui richiama il monte Sion dov’è costruita Gerusalemme, quindi l’evangelista in questo episodio ci sta anticipando quella che poi sarà la fine di Gesù, il rifiuto totale da parte del suo popolo. Sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù.
La prima volta che Gesù predica in una sinagoga il risultato è che tenteranno di ammazzarlo. Per Gesù, che non correrà mai pericolo con i peccatori, con la gentaglia, con la feccia della società, i luoghi e le persone più pericolosi saranno quelli religiosi. Saranno questi che cercheranno di ammazzarlo, di lapidarlo, di eliminarlo.
Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino. Perché l’evangelista scrive questo dato che sembra un po’ strano? Tutta la folla dei presenti in sinagoga che cerca di catturare Gesù e di ucciderlo e lui come fa a passare in mezzo a loro? L’evangelista sta anticipando il fatto della risurrezione: la morte non si è impadronita di Gesù, ma egli continua il suo cammino. E conclude il brano con si mise in cammino. In cammino verso dove? Verso Gerusalemme. Quindi Gesù da questo primo rifiuto poi nella sua terra ha compreso che incontrerà soltanto opposizione, incontrerà pericolo di morte. Ma Gesù non si arrende, lui deve essere testimone del perdono di Dio, dell’amore del Padre anche a scapito della propria vita.
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III e IV TEMPO ORDINARIO – 27 gennaio e 3 febbraio 2019
OGGI SI E’ COMPIUTA QUESTA SCRITTURA
Commento al Vangelo di p. José María CASTILLO
Lc 1,1-4; 4, 14-30
Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
***
Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. Venne a Nazareth, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore».
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui.
Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”».
Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
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La prima parte (vv. 1-4) di questo vangelo è il prologo che lo stesso Luca ha posto al suo racconto. In questo modo ha sottolineato che si era ben documentato, come di solito facevano gli autori greci (W. C. Van Unnik). Quando leggiamo i vangelo, quello che dobbiamo chiederci non è: “questo è storico?”. La domanda deve essere: “Cosa mi insegna questo racconto per la mia vita ed il mio comportamento?”.
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Poi Luca presenta l’inizio dell’attività di Gesù in Galilea. In Gesù agisce la forza dello Spirito. Ossia, Gesù non fu spinto dal dovere della religione, dall’obbligo della legge e neanche dal desiderio di essere famoso o avere potere. Gesù agiva grazie alla forza ed all’orientamento dello Spirito.
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La lettura fatta da Gesù nella sinagoga fu presa dal profeta Isaia (61,1-2), ma Gesù soppresse da questa lettura le parole finali che si riferivano alla rivincita di Dio. “Prendersi una rivincita” è “vendicarsi”. Quando il profeta Isaia parlava di questa rivincita o di vendetta, si riferiva a quello che il popolo di Israele aveva sofferto durante l’esilio di Babilonia. Al tempo di Gesù, quando si leggeva questo profeta, si pensava che Dio dovesse castigare e far soffrire coloro che avevano sottomesso ed oppresso gli israeliti. Ma Gesù non ha voluto neanche citare una simile rivincita. Gesù – e il Dio che si rivela a noi in Gesù – non vuole rivincite o vendette.
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Gesù non voleva vendette o rivincite. Gesù non vuole “nazionalismi”, che inevitabilmente portano a creare tensioni, divisioni e scontri. Così non si trasformano le cose. Con questi processi non si rende sopportabile la vita, con questo non migliorano le nostre vite, la politica non è più degna e l’economia non si fortifica.
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Quando la religione e la politica nazionaliste si fondono e si confondono, il risultato è il fanatismo intollerante e violento. Una violenza che antepone il nazionalismo fanatico all’aspetto più elementare della religione, che è il rispetto, l’amore agli altri, quale che sia la loro nazionalità, la loro origine o le loro convinzioni religiose.
Gesù non è patrimonio di nessuna cultura, razza o religione. Gesù è patrimonio di tutta l’umanità allo stesso modo. Per questo, con gli esempi fatti sulle preferenze di Dio con gli stranieri, Gesù arrivò a provocare il conflitto violento, che portò i concittadini di Nazaret a cercare di assassinarlo.
Il vino nuovo per la festa che verrà
– ANNO C, 20 gennaio 2019, II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO;
Is 62,1-5; Sal 95; 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-12
Marcelo Barros * 15/12/2018, 02:25
Tratto da: Adista Notizie n° 44 del 22/12/2018
In quest’inizio di secolo, il processo del Forum Sociale Mondiale, la cui sesta edizione si svolge a Nairobi dal 20 al 26 gennaio, fa sentire a molti il sapore nuovo di una cittadinanza universale, come assaggio di una maggiore partecipazione della società civile ai destini del mondo. Nei tempi antichi, per esprimere una realtà così nuova si diceva che le persone avevano assaporato il vino migliore. Nel processo dei forum sociali le persone si incontrano per fecondare il mondo di nuove forme di convivenza sociale e politica. Questo cammino si basa su una nuova comprensione della vita, delle relazioni umane e della comunione dell’essere umano con l’universo. Molti chiamano questo “spiritualità“: è il vino nuovo di un’alleanza universale.
In molte tradizioni spirituali, la spiritualità è vista come un tuffo nel divino. I Padri della Chiesa orientale parlavano di divinizzazione dell’essere umano. Per ragioni culturali e storiche, la Bibbia insiste nell’alterità di Dio….
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù si presenta e rivela la sua missione attraverso dei segnali. Dei sette grandi segnali profetici il primo è stato quello di trasformare l’acqua in vino ad una festa di matrimonio. Si tratta di un racconto simbolico e non di un atto magico. Ha una certa colorazione macro-ecumenica (esistono racconti simili nel culto orientale del dio Dioniso) e un forte contenuto sociale ed umano. In questo racconto simbolico, il Vangelo mostra Gesù che fa della festa di nozze di una coppia della Galilea il segnale dell’anticipazione della sua “ora“, la sua missione messianica.
Per le culture latinoamericane tanto legate all’allegria del convivio, è bene vedere che Gesù dà il via alla serie dei suoi segnali partecipando ad una festa di matrimonio e facendo attenzione che ci sia vino, e vino buono….
Nel racconto di Cana, se esiste opposizione, è fra la religione istituzionale (qualsiasi religione), simboleggiata dai riti di purificazione (gli otri vuoti), e una spiritualità di intimità con Dio (simboleggiata dal matrimonio). Questa ci viene dalla grazia come il vino nuovo dato da Gesù, spiritualità comunitaria e radicata nella vita, ma non legata ad una istituzione.
La buona notizia di questo Vangelo è che, nella nostra vita di ogni giorno, nella realtà delle nostre povertà (sociali o culturali), Gesù si fa presente e ci rivela, nella sua persona e in ogni essere umano, la gloria di Dio, cioè il segnale della presenza divina…..
* Marcelo Barros benedettino, teologo della liberazione. Omelia già pubblicata su Adista Notizie n. 1/07
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MENTRE GESU’, RICEVUTO IL BATTESIMO,
STAVA IN PREGHIERA, IL CIELO SI APRI’
13 gennaio 2019
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Lc 3,15-16.21-22
[In quel tempo,]
poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». […]
Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
*
Il contesto del battesimo di Gesù secondo il vangelo di Luca è quello dell’incarcerazione di Giovanni Battista da parte di Erode. Si legge in questo vangelo che il tetrarca Erode veniva rimproverato da Giovanni Battista a causa di Erodiade, moglie di suo fratello, ma solo Luca ci dà un’indicazione preziosa, per tutte le malvagità che aveva commesso.
Sappiamo da altre fonti extra-bibliche, come da Giuseppe Flavio, che Giovanni Battista esortava alla pratica della giustizia del popolo e aveva un grande seguito. Ecco perché Erode, che vive nell’ingiustizia, ha fatto incarcerare questa voce profetica. Ma è così che agisce la stupidità del potere. La persecuzione fa fiorire la vita, non la estingue e, spenta una voce, ne sorge una più potente. Quindi è in questo contesto che avviene il battesimo di Gesù.
“Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato…” : Giovanni Battista aveva annunciato un battesimo di conversione, cioè segno di cambiamento, per il perdono dei peccati. E’ una sfida tremenda quella che Giovanni Battista fa, perché il perdono dei peccati si otteneva al tempio di Gerusalemme portando delle offerte al Signore.
Scrive Luca che tutto il popolo veniva battezzato. La gente ha capito, ha compreso che il perdono dei peccati non avviene attraverso un rito nel tempio, ma attraverso un cambio radicale di vita, un cambio del proprio comportamento e che non c’è più la necessità di offrire a Dio per le proprie colpe, ma di accogliere un Dio, che si offre con il suo Spirito, per poter vivere in pienezza questa vita.
“E Gesù, ricevuto anche lui il battesimo …”: perché Gesù si fa battezzare? Il battesimo è un segno di morte. Per il popolo, per la gente era segno di morte al proprio passato, al passato di ingiustizia. Per Gesù era accettazione della morte nel futuro. Lui stesso in questo vangelo parlerà del battesimo come simbolo della sua morte quando dirà: “C’è un battesimo che devo ricevere”. Quindi, mentre per il popolo il battesimo significa morire al proprio passato, per Gesù è l’accettazione di morire nel suo futuro, per la fedeltà al disegno del Padre.
“Stava in preghiera e il cielo si aprì” : si credeva a quel tempo che, a causa dei peccati del popolo, il cielo fosse chiuso e non ci fosse più comunicazione tra Dio e gli uomini. Attraverso l’impegno di Gesù la comunicazione tra Dio e l’umanità è ripristinata e sarà continua. Alla disposizione espressa da Gesù nel dono totale della sua vita corrisponde da parte di Dio il dono totale del suo spirito.
Quindi “il cielo si aprì…” – è la comunicazione definitiva di Dio con l’uomo – “…e discese sopra di lui lo Spirito Santo…” : l‘articolo determinativo indica la totalità. Lo spirito è la forza di Dio, l’amore di Dio. Su Gesù scende tutta la capacità d’amore di Dio;
“…in forma corporea come una colomba…” : perché questo richiamo alla colomba? L’evangelista già all’annunciazione ha visto in Gesù una nuova creazione e ritorna a questo tema a lui caro. Il libro del Genesi si apre con l’immagine dello spirito di Dio che aleggia sulle acque e poi la colomba appare di nuovo liberata da Noè dopo il diluvio. Cosa vuole indicare l’evangelista? Che in Gesù c’è la nuova creazione, in cui Dio non castigherà più il popolo, ma a tutti perdonerà le proprie colpe.
“E venne una voce dal cielo…”, cioè da Dio. E l’evangelista colloca qui tre testi della Sacra Scrittura: un salmo, il libro del Genesi, il libro del profeta Isaia.
Il salmo (2,7) è: Tu sei il figlio mio, riferisce la consacrazione del messia. “Figlio” in quella cultura non significa soltanto colui che è generato dal padre, ma colui che gli assomiglia nel comportamento. Ricevendo lo spirito di Dio, cioè la sua stessa capacità d’amore, Gesù manifesta pienamente che egli è Dio;
“l’amato” : questo termine, che significa anche unigenito, colui che eredita tutto del Padre, è preso dal libro del Genesi parlando di Isacco, il figlio di Abramo;
“In te ho posto il mio compiacimento…” : questo è tratto dal profeta Isaia, che parla del futuro messia che riceve il compiacimento da parte di Dio. Quindi su Gesù, nel momento del battesimo, scende non soltanto lo Spirito Santo, ma Dio che si riconosce in lui.
Con Gesù non c’è più da cercare Dio, ma da accoglierlo e con lui e come lui lavorare per rendere il mondo sempre più umano.
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EPIFANIA DEL SIGNORE – 6 GENNAIO 2019
SIAMO VENUTI DALL’ORIENTE PER ADORARE IL RE
COMMENTO DI PADRE ALBERTO MAGGI OSM
Mt 2,1-12
Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo».
All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono.
Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra.
Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
*
In ogni società lo straniero ha sempre messo paura: paura per quello che può prendere, per quello che può togliere e viene visto con diffidenza. I vangeli non sono d’accordo. Nei vangeli gli stranieri sono sempre presentati come persone positive che non tolgono, ma arricchiscono. È quanto ci scrive l’evangelista Matteo nell’episodio della nascita di Gesù che risponde a quello slogan che è tipico di ogni società egoistica, era al tempo di Gesù anche, il “Prima noi”.
C’è un popolo eletto, un popolo privilegiato che considera che tutto quello che concorre alla pienezza della vita sia di suo diritto, poi, se proprio ci avanza, anche agli altri. Ebbene, Gesù nel suo insegnamento dirà “No a un prima noi, ma tutti insieme”. È quanto ci scrive l’evangelista presentando la nascita di Gesù.
Quando Gesù nasce appaiono alcuni Magi che vennero dall’oriente. Questo fatto determinò tanto scandalo nella chiesa perché l’evangelista adopera il termine “mago”. Mago è un’attività proibita dal libro del Levitico nel capitolo 19 e nel Talmud si legge addirittura “chi impara qualcosa da un mango merita la morte”.
I primi ad accorgersi della nascita di Gesù, del figlio di Dio, sono quindi degli stranieri, dei pagani e dediti a un’attività scandalosa, proibita, il termine mago indica: ingannatore, corruttore. Allora la primitiva comunità cristiana provvide ad annacquare questo termine da mago al più innocuo “Magi” e poi in base ai doni viene identificato il numero di tre ed elevati alla carica regale, infatti “i tre re”.
Mentre arrivano i Magi tutta Gerusalemme e il re Erode vengono presi dal terrore, terrore perché?
Erode ha paura di perdere il potere e tutta Gerusalemme di perdere il tempio con tutto quello che ne consegue. Ma quando arrivano questi maghi nel luogo dove è nato Gesù essi provano una grandissima gioia.
Qui l’evangelista – è il punto centrale di questo episodio di grande attualità – mostra che non c’è un popolo eletto, un popolo privilegiato, il “Prima noi”, ma tutti insieme.
Israele si considerava di essere il popolo privilegiato perché era il popolo del regno di Dio, era il popolo sacerdotale ed era il popolo sposo di Dio. Ebbene, mediante l’offerta dei doni da parte di questi Magi, di questi maghi, questo che era considerato un privilegio di Israele passa a tutta l’umanità.
Il dono dell’oro significa la regalità, il regno di Dio non è più riservato a un popolo, ma è per tutta l’umanità perché l’amore di Dio non accetta barriere, muri o altro.
L’incenso, era l’offerta riservata ai sacerdoti. Anche il privilegio di essere il popolo sacerdotale, il popolo sacerdotale si intende che si ha un rapporto diretto con Dio, non è più soltanto di Israele, ma passa per tutta l’umanità.
La mirra: nel Cantico dei Cantici la mirra è il profumo che indica l’amore fra gli sposi e Israele si considerava il popolo sposa di Dio, Dio era lo sposo e il popolo la sposa, indicava una piena, profonda intimità. Anche questo privilegio passa a tutta l’umanità.
Quindi non c’è un “Prima noi”, un popolo privilegiato, ma, come insegnerà Gesù, tutti insieme, non ci sono gli esclusi, ma l’amore di Dio vuole arrivare ovunque.
ANNO C, 23 dicembre 2018, IV DOMENICA DI AVVENTO; Mi 5,1-4°; Sal 79; Eb 10,5-10; Lc 1,39-45
Maria, l’ottimismo di Dio
Giovanni Russo Spena * 16/11/2018, 20:09
Tratto da: Adista Notizie n° 40 del 24/11/2018
«In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”».
Quel che colpisce in questo poetico confronto tra Maria ed Elisabetta è la forza spirituale e la modernità. Si poteva credere che questo passo del Vangelo fosse figlio di una cultura arretrata nel rapporto uomo/donna, patriarcale e maschilista. È, invece, un documento sorprendente per la sua impostazione modernissima, per la centralità in cui colloca la donna all’interno della formazione sociale, e per la sua autodeterminazione.
E questa centralità è il fondamento stesso, l’essenza stessa del ruolo della Madonna, così classica e beata e, insieme, così moderna e quotidiana. Vive nella coscienza del Sacro, che è, a mio modesto avviso, dentro la nascita della vita, dentro la maternità, dentro il grembo della donna. Vi è una connotazione potente, emotivamente inestinguibile nel rapporto simbiotico, vitale, di comune esistenza, di compartecipazione, che si crea tra la donna e il bimbo che sta per nascere nel suo grembo. Ciò è tanto più vero oggi, in un contesto pure rovesciato rispetto a quello raccontato dai Vangeli della natività, così diverso. Sembra, infatti, che i tempi nostri siano i tempi delle donne, del successo introdotto e poi realizzato dalle loro difficili e talvolta aspre lotte, sia sul versante delle acquisizioni nei rapporti familiari, sia su quello delle innovazioni nella dimensione pubblica. Nell’una come nell’altra ci viene rappresentato un cambiamento radicale della mentalità, delle dinamiche relazionali, delle pratiche quotidiane. Ma se squarciamo i veli del conformismo pigro, della pubblicità ingannevole, della truffa da copertina, ritroviamo non solo il dramma dei femminicidi, ma la monetizzazione e la mercificazione ambigua ed estrema del corpo delle donne.
La mancanza di autonomia delle donne, nel tempo della società di massa e della globalizzazione liberista, viene a malapena celata dalle pratiche emancipatorie che sono, spesso, puramente adattative al comportamento maschile e comunque omologate ai modelli ed alle pratiche dei poteri dominanti. Il mutamento radicale e reale della condizione della donna è indubbiamente legato al sorgere di una società nuova (che ne è il presupposto, anche se la storia ci dice che spesso anche nelle società liberate l’esito dei processi di emancipazione femminile è stato deludente).
Maria è depositaria consapevole, ma non succube, del destino della salvezza dell’umanità, perché ha creduto profondamente «all’adempimento di ciò che il Signore le ha detto». È santa. Ma anche profondamente umana, una donna attenta, serena, con il suo bimbo in grembo. Splendida simbiosi, perché Gesù è vissuto, vive, conosce la vita in quel grembo.
È la metafora di Gesù che “si fa uomo” non per apparizione celeste, ma per nascita con travaglio come tutte e tutti. Figlio nato da madre, da una donna designata dal Signore. La Madonna è donna, è madre. Partorisce la salvezza dell’uomo, nel volere del Signore. Ossia nel segno tangibile di ciò che Dio può realizzare in ogni persona che non ponga ostacoli alla potenza del suo amore.
Maria è il segno vivo dell’ottimismo di Dio sull’umanità, di un Dio che vuole attraverso l’uomo portare a compimento la sua nuova creazione.
* Giurista, Giovanni Russo Spena è stato segretario di Democrazia Proletaria, membro dei Cristiani per il Socialismo e senatore di Rifondazione Comunista
III AVVENTO – 16 dicembre 2018
E NOI CHE COSA DOBBIAMO FARE?
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Lc 3, 10-18
Le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo:
«Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.
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L’invito di Giovanni Battista alla conversione viene accolto dal popolo, al suo battesimo accorrono le folle e accorrono addirittura i pubblicani, i soldati, ma sono assenti scribi, sacerdoti e farisei. Gli appartenenti e i rappresentanti dell’istituzione religiosa sono sempre refrattari o ostili al cambiamento.
Le folle che invece accolgono l’invito di Giovanni lo interrogavano chiedendo: “Che cosa dobbiamo fare?”. Questa loro domanda è la risposta all’invito di Giovanni Battista: “fate opere degne di conversione, di cambiamento!”.
Nelle risposte di Giovanni Battista non c’è nulla che riguardi la religione, nulla che riguardi il culto. Non dice “andate di più al tempio, portate delle offerte, pregate di più”, ma suggerisce atteggiamenti di giustizia, di solidarietà, di condivisione nei confronti dell’uomo. Già si annuncia il grande cambiamento che farà Gesù: il peccato non è quello che offende Dio, ma ciò che offende l’uomo.
Vediamo allora le risposte di Giovanni Battista.
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Rispondeva loro (alla folla): “Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha” – quindi annuncia l’impegno della condivisione – “e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”: quindi invita alla solidarietà nei confronti degli altri.
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A sorpresa appaiono anche dei pubblicani: i pubblicani sono gli impuri per eccellenza, sono quelle persone che – così si credeva – anche se un giorno si fossero convertiti, non avrebbero potuto salvarsi, perché non potevano mai restituire il ricavato degli imbrogli di tutta un’esistenza. Erano quindi dannati per sempre. Ebbene, anch’essi vanno a farsi battezzare, con timidezza, dicendo: “Maestro, noi che facciamo?”: cioè, c’è una speranza anche per noi? Stranamente Giovanni non li allontana, non li minaccia – si riteneva che per loro non c’era salvezza – e Giovanni dà questa risposta sorprendente: “Non esigete nulla più di quanto vi è stato fissato”: cioè possono continuare a fare un’attività che era considerata disonesta, ma facendola onestamente. Nei confronti di questa categoria l’apertura di Giovanni Battista è sorprendente. Ciò significa che Dio accetta le persone così come sono.
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Intervengono anche i soldati, probabilmente dell’esercito degli occupanti: lo interrogavano anche alcuni soldati: “e noi che cosa dobbiamo fare?” Rispose loro: “Non maltrattate” – cioè non prendete denaro con violenza – “e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe”: quindi invita i soldati ad evitare l’ingiustizia e a non darsi a saccheggi e rapine – come era pratica usuale dei soldati.
C’è una grande aspettativa da parte del popolo che attende l’arrivo del Messia promesso. E il popolo pensa che forse in questo profeta, apparso nel deserto, si sta manifestando l’atteso liberatore del popolo, cioè il messia: “poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo,…” – il termine greco “Cristo” traduce l’ebraico “messia”, l’inviato da Dio, l’unto del Signore – “…Giovanni rispose loro dicendo: “Io vi battezzo con acqua”: il rito di Giovanni era un rito esterno, un segno di cambiamento, di conversione.
Per comprendere l’espressione che segue, bisogna rifarsi ad una pratica matrimoniale dell’epoca, chiamata “legge del Levirato”, da levir, che significa “cognato”. Questa pratica consisteva in questo:
quando una donna rimaneva vedova senza un figlio, il cognato aveva l’obbligo di metterla incinta. Il bambino nato avrebbe portato il nome del padre, così il suo nome si sarebbe perpetuato per sempre. Quando il cognato rifiutava di mettere incinta questa donna provvedeva colui che, secondo la scala giuridica, aveva diritto dopo di lui. E per farlo procedeva alla cerimonia chiamata “dello scalzamento”, scioglieva i legacci del sandalo della persona, prendeva il sandalo ed era una maniera per dire: “il tuo diritto di mettere incinta questa donna lo prendo io”. Questo lo possiamo trovare al capitolo 25 del Deuteronomio.
“Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me e a cui non sono degno di slegare i legacci dei sandali”: questa espressione non è una lezione di umiltà, ma Giovanni Battista sta parlando di colui che deve fecondare questo popolo: colui che deve dare figli di Dio a questo popolo non sono io, ma colui che viene dopo di me.
“Egli vi battezzerà in Spirito Santo” – cioè realizzerà un’immersione interiore, impregnerà le persone della forza e dell’energia di Dio – “e fuoco” : cioè un fuoco che distrugge, è minacciato un castigo per chi lo rifiuta. E infatti ecco l’immagine che ci dà Giovanni: “egli tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile”.
In seguito Giovanni Battista andrà in crisi perché Gesù annuncerà un messaggio di vita, senza il riferimento a un castigo, il suo messaggio non è un messaggio di distruzione. E quando Gesù dovrà citare il testo che ha citato Giovanni, Gesù censurerà il fuoco, infatti Gesù nel capitolo 1 degli Atti, al versetto 5, dice: “Giovanni ha battezzato con acqua, ma voi sarete battezzati in Spirito Santo fra non molti giorni”. La citazione del fuoco non c’è. Da parte di Gesù c’è soltanto un’offerta d’amore e non c’è nessun cenno di castigo per i malvagi.
“Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo” : cioè annunciava la buona notizia che poi si manifesterà nella persona di Gesù che presenterà il volto di un Dio non solo buono, ma esclusivamente buono, un Dio che riverserà il suo amore anche sugli ingrati e i malvagi.
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II DOMENICA DI AVVENTO – 9 DICEMBRE 2018
OGNI UOMO VEDRÀ LA SALVEZZA DI DIO!
Commento al vangelo di p. Alberto Maggi osm
Lc 3, 1-6
Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto.
Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaìa: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate.
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Il capitolo 3 del vangelo di Luca si apre in una maniera volutamente pomposa, ridondante perché l’evangelista vuole attrarre l’attenzione del lettore e prepararlo alla sorpresa che ora vedremo. Scrive l’evangelista Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare: Tiberio Cesare era il secondo imperatore, era succeduto ad Augusto.
L’evangelista ci presenta una società piramidale, ponendo quelli che sono ai vertici e secondo la cultura dell’epoca quelli più vicini a Dio o addirittura creduti degli dei come era l’imperatore romano. Poi scende giù, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, quindi scende sempre giù da questa piramide, e Filippo suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e l’evangelista si inserisce anche un personaggio semi sconosciuto, un certo Lisània, tetràrca dell’Abilène, dell’Antilibano, sotto il sommo sacerdote, è al singolare l’espressione dell’evangelista, Anna e Caifa. Anna era il suocero di Caifa. L’evangelista, attraverso questo artifizio, ha voluto raggiungere il numero 7 che indica la totalità, ecco la totalità del potere.
Ed ecco qual è la sorpresa: “la parola di Dio venne su…”, a quali di questi si dirigerà Dio? Perché abbiamo visto le persone più in alto, le più vicine a lui, addirittura quelli che si credevano di condizione divina, c’è il sommo sacerdote, anzi due sommi sacerdoti rappresentanti di Dio, a quali di questi Dio rivolgerà la sua parola? Ecco la sorpresa, “…venne su Giovanni…”, un certo Giovanni, “…figlio di Zaccarìa nel deserto”. Quando Dio deve intervenire nella storia evita accuratamente luoghi e persone sacre e religiose perché sa che sono sempre refrattari, addirittura ostili ad ogni cambiamento.
La sua parola si rivolge a questo Giovanni, figlio di Zaccaria. Essendo il figlio maschio primogenito di Zaccaria, avrebbe dovuto come il padre essere sacerdote, presentarsi al compimento dei 18 anni al tempio per vedere se non aveva difetti che impedivano di continuare il sacerdozio del padre. Invece sta nel deserto, ha rotto con questa società; è lontano da Gerusalemme, è lontano dal tempio, egli percorse tutta la regione del Giordano predicando un battesimo: il termine battesimo non ha il significato liturgico che poi gli verrà dato. Il battesimo è un’immersione, era un rito conosciuto che significava morire a una condizione precedente per iniziarne una nuova. Per esempio a uno schiavo veniva concessa la libertà si battezzava, cioè si immergeva completamente in un corso d’acqua, moriva lo schiavo e quello che emergeva era una persona libera. Quindi è un segno di cambiamento, di morte a quello che si è stato.
Questo battesimo era un segno di conversione, l’evangelista sceglie il termine conversione, non indica la conversione religiosa, il ritorno a Dio, ma usa quello che indica un cambio di mentalità che poi influisce nel comportamento; un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.
E’ grande la provocazione di Giovanni Battista perché il perdono dei peccati avviene al tempio di Gerusalemme portando delle offerte al Signore. Ebbene Giovanni non è d’accordo, lui è l’uomo dello Spirito, non come il padre Zaccaria che è l’uomo del rito, e proclama questo segno di cambiamento di vita, la conversione significa non vivere più per te, ma vivi per gli altri, e questo ottiene la cancellazione dei peccati, quindi non più a Gerusalemme.
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I DOMENICA DI AVVENTO – 2 DICEMBRE 2018 – LA VOSTRA LIBERAZIONE È VICINA
Lc 21,25-28.34-36
(In quel tempo,) Gesù disse ai suoi discepoli: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».
d. Paolo FARINELLA
Propriamente l’Avvento non è una preparazione al Natale, ma una contemplazione della 2a venuta di Gesù alla fine del mondo come compimento della 1a, avvenuta con l’incarnazione.
L’Avvento, infatti, fluttua tra questi due appuntamenti con il Cristo:
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uno già sperimentato (la nascita o «genesi» come la chiama Mt 1,1), l’altro atteso alla fine della storia: il termine stesso, filologicamente, deriva dal latino ad venio/vengo verso…, da cui «Adventus Domini/la venuta del Signore»1.
Noi viviamo i penultimi tempi che precedono questo 2° appuntamento.
Nota storico-liturgica.
La tradizione della «corona d’Avvento» nasce in Germania all’inizio del 1900. Negli anni 1939-40 arriva in Danimarca dove i fiorai l’hanno diffusa in tutto il paese.
La coroncina è fatta di rami di abete in cui sono inserite 4 candele bianche o rosse. La coroncina è decorata con strisce di raso rosse. L’idea di fondo, comune a tutte le tradizioni, è che la luce sprigionata dalle quattro candele illumina il cammino verso Natale, il giorno di Cristo «Luce delle nazioni», il quale guida il nuovo esodo verso la Gerusalemme celeste degli ultimi tempi, il secondo Avvento.
Il linguaggio apocalittico è in linea con i profeti quando parlano di Gerusalemme ridotta a «desolazione» (Is 64,9; Ger 25,18). Questi discorsi di Gesù ripresi a distanza di 40 o 50 anni, vengono riletti e proiettati in avanti su scala universale: la caduta di Gerusalemme diventa il paradigma della fine del mondo, descritta con lo stesso scenario e la stessa tragedia. Non è la descrizione «materiale» di come avverrà la fine del mondo, ma la riflessione sulla caducità del mondo che giungerà alla sua fine come la città santa che tutti giudicavano eterna.
La fine del mondo è descritta prendendo in prestito immagini e sensazioni da un evento terribile, vissuto e subìto come un trauma irreversibile: la profanazione e la distruzione con incendio del tempio e della città santa di Gerusalemme. Nessuno poteva immaginare che il tempio sarebbe stato distrutto e che i pagani vi avrebbero costruito un altare agli idoli. Il popolo d’Israele vedeva Gerusalemme e il tempio come la garanzia della protezione divina contro la quale nessuna potenza avrebbe potuto vincere.
Gli Ebrei non hanno saputo leggere gli eventi che accadevano perché si erano chiusi nel sistema religioso basato sull’osservanza materiale della Toràh, divenuta un impedimento ad incontrare Dio per la maggior parte della popolazione: ritualità e abluzioni, divieti e norme anche banali erano diventati «idoli», escludendo Dio dall’orizzonte della vita (cf Mt 15,3.6; Mc 7,9). Non era più Dio che si cercava, ma si adeguava la realtà e la stessa Parola di Dio all’immagine che l’istituzione si era fatta di Dio. Oggi nella Chiesa cattolica stiamo vivendo lo stesso rischio:
«È sensazione diffusa che, dopo la stagione profetica del primo post-concilio, la comunità ecclesiale italiana stia attraversando una fase di normalizzazione».
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CRISTO RE – 25 novembre 2018
TU LO DICI: IO SONO RE
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Gv 18, 33b-37
[In quel tempo]
Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
*
Per catturare Gesù i capi religiosi sono ricorsi all’arma che è loro congegnale, la menzogna; menzogna basata sulla convenienza.
Ai sommi sacerdoti che sono presi dal panico a causa delle azioni di Gesù (“Se lo lasciamo fare verranno i romani e ci distruggeranno”), il sommo sacerdote Caifa dice: “Non avete capito che vi conviene che quest’uomo muoia piuttosto che vengano i romani e ci distruggano?”
Quindi l’assassinio di Gesù è basato sulla convenienza della casta sacerdotale al potere. Ma, nel brano che adesso vediamo, l’evangelista smentisce queste accuse, questa menzogna contro Gesù. Gesù per il procuratore romano non rappresenta alcun pericolo.
E’ il primo interrogatorio che Pilato, il massimo rappresentante locale dell’impero, farà a Gesù. Pilato esprime tutta la sua sorpresa. L’uomo che si trova davanti non ha nulla del malfattore che gli hanno detto; Gesù non ha nulla del pericoloso rivoluzionario che lui ha mandato ad arrestare, si trova di fronte a una persona che lo sconcerta.
Questo è un processo strano. E’ un processo dove non è tanto il giudice a fare le domande all’imputato, ma è l’imputato che fa le domande al giudice e la sentenza non sarà emessa dal giudice ma dall’imputato. Infatti Gesù non risponde, ma fa a sua volta una domanda a Pilato: “Dici questo da te oppure altri ti hanno parlato di me?” : Gesù lo invita a ragionare con la propria testa e non sotto l’influsso di quello che gli hanno detto le autorità religiose.
Non è fuori luogo ricordare i molti richiami di Papa Francesco alle chiacchiere della Curia romana e delle comunità cristiane: denigrazioni facili e irresponsabili che uccidono!
Pilato reagisce con sdegno: “Sono io forse Giudeo?” : Pilato disprezzava la regione che doveva governare e qui esprime tutto il suo disprezzo e il suo sdegno. Ed ecco la gravità di quello che dice: “…la tua gente” – cioè la tua nazione – “…i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me”: sono tutti contro Gesù, sia quelli che detengono il potere, sia quelli che sono sottomessi al potere. Quelli che detengono il potere, i sommi sacerdoti, vedono in Gesù un pericolo per il loro dominio sul popolo, ma quelli che sono sottomessi al potere vedono in Gesù un attentato alla sicurezza che la sottomissione al potere concede loro. Giovanni nel prologo del Vangelo aveva scritto: “Venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto”.
E Pilato chiede: “Che cosa hai fatto? Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo”. Gesù non sta contrapponendo il cielo alla terra, ma due mondi differenti, il mondo del potere e il mondo dell’amore. Nell’uno vigono il dominio e la menzogna, che causano morte negli uomini, nell’altro il servizio e la verità che invece comunicano vita.
Quindi il regno di Gesù non è di questo mondo, ma è in questo mondo: ma Gesù non ha servitori, perché lui – “re” – si mette a servizio dei suoi. “…ma il mio regno non è di qui”: quindi Gesù esclude che il suo regno abbia anche lontanamente le caratteristiche dei regni di questo mondo, basati sul potere, sul dominio e sulla menzogna.
Allora Pilato, ancora più sconcertato, gli disse: “Dunque tu sei re? Rispose Gesù…Tu lo dici che sono re”: è la sua opinione e Gesù tronca lì il discorso non è interessato al tema della regalità e introduce invece il tema e la ragione per la quale è venuto al mondo:“per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: PER DARE TESTIMONIANZA ALLA VERITÀ”. E qui c’è un’affermazione che è importante, di grande valore per i credenti di tutti i tempi: “CHIUNQUE È DALLA VERITÀ, ASCOLTA LA MIA VOCE”.
La verità per Gesù non è una dottrina che si possiede, ma l’atteggiamento che caratterizza la vita del credente che si pone in sintonia con l’amore creativo del Padre e si traduce in opere che comunicano vita agli uomini. Quindi per Gesù non si ha la verità, ma si fa la verità, si è nella verità, si cammina nella verità. Essere nella verità significa aver posto il bene dell’uomo come valore assoluto, che orienta la vita del credente. Mentre chi ha la verità, in base alla verità che ritiene di avere e che è dottrina, si sente autorizzato anche a separarsi dagli altri e li può giudicare, chi invece è nella verità mette il suo amore a servizio di tutti.
Essere nella verità significa mettere il valore dell’uomo come valore assoluto della propria esistenza.
Gesù dice: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” : non afferma, come ci saremmo aspettati, “Chi ascolta la mia voce è dalla verità”. No!
Per ascoltare la voce di Gesù occorre una premessa: aver orientato la propria vita per il bene degli altri.
Pilato, rappresentante del potere, della menzogna e della violenza, naturalmente non può comprendere questo; quindi pone la domanda: “Che cos’è verità?” : non sta dalla parte della verità, non ha messo il bene dell’uomo come valore assoluto, ma soltanto il proprio bene, il proprio potere. E non attende risposta.
XXXIII TEMPO ORDINARIO – 18 novembre 2018
IL FIGLIO DELL’UOMO RADUNERA’ I SUOI ELETTI
DAI QUATTRO VENTI
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Mc 13, 24-32
[In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:]
«In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria.
Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.
In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».
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Il messaggio di Gesù è stato chiamato “la Buona Notizia”. Nel suo messaggio non ci sono paure, ma solo speranze. Quindi non minacce, ma delle realtà positive per l’uomo.
Vediamo il Vangelo di Marco in questo capitolo 13, che è talmente difficile e complesso che lo stesso evangelista avverte il lettore – cioè l’incaricato di leggere e interpretare questo suo brano, questo suo documento – che capisca bene (v. 14). Scrive Marco: “In quei giorni, dopo quella tribolazione…”. A quale tribolazione Gesù si sta riferendo? Alla distruzione del tempio e di Gerusalemme da parte dei romani. Ebbene, quella che agli occhi di un israelita poteva sembrare un’immane catastrofe, per Gesù è soltanto l’inizio di un processo di liberazione per tutta l’umanità.
E Gesù parla usando il linguaggio tipico dei profeti e prende in prestito dal profeta Isaia, nel capitolo 13, l’oracolo su Babilonia. Un oracolo nel quale si annuncia, si dà speranza al popolo, che “ogni regime che è basato sul potere, ha già in sé il germe della distruzione”. Come ha detto il profeta Daniele, “ogni gigante ha i piedi d’argilla”.
Quindi Gesù, usando il linguaggio profetico, non annuncia una catastrofe che investe il mondo, ma una catastrofe che investe soltanto la sfera celeste, cioè il luogo dove risiedevano gli dei e, soprattutto, dove ambivano salire le persone che detenevano il potere.
Dice Gesù: “…il sole si oscurerà e la luna non darà più la sua luce”. Sole e luna sono divinità adorate dai pagani. Ebbene, con la caduta di Gerusalemme e l’inizio dell’attività dei discepoli anche nel mondo pagano, queste divinità che erano adorate nel mondo pagano, perderanno il loro splendore. Quando si annuncia la luce del Vangelo tutto il resto si oscura.
Quindi Gesù annunzia la caduta di tutti i poteri che si oppongono al Regno di Dio, “…e le stelle cadranno dal cielo”: chi sono queste stelle? Tutte le persone che detenevano un potere, dal faraone, all’imperatore, ai re, ambivano salire in cielo; erano chiamate “le stelle”.
C’è l’oracolo del profeta Isaia, al capitolo 14, dove si riferisce proprio al re di Babilonia, dice: “ambivi salire nei cieli e invece sei stato precipitato nel regno degli inferi”. Quindi “ambivi salire nei cieli” significa “essere come una stella”, cioè avere la condizione divina, e invece sei caduto.
Allora Gesù annuncia che, con l’inizio della diffusione del suo messaggio, queste stelle, cioè i potenti, che si basano su divinità pagane, nel momento che queste divinità pagane, sole e luna, perdono lo splendore, incominciano a cadere.
“E le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte”: “Nei cieli”: nel Vangelo di Marco, c’è il Padre, c’è il Figlio dell’Uomo, ci sono gli angeli. Uniche intruse sono queste potenze, cioè dei poteri che intendevano governare la vita degli uomini. Nel momento dell’annuncio della Buona Notizia queste potenze cominciano ad essere sconvolte.
Allora, scrive l’evangelista: «Allora vedranno…»” – non dice ‘vedrete’. Chi sono coloro che vedranno? Nel momento che i potenti cadono dal loro piedistallo, vedono – “«il Figlio dell’Uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria»”: Nel momento in cui le potenze cadono, sale la potenza del Figlio dell’Uomo. L’evangelista sta dando non un messaggio minaccioso, ma una grande speranza: TUTTI I POTENTI CADRANNO. E il potente, mentre cade, nella sua caduta vede innalzare il Figlio dell’Uomo, cioè la piena dignità dell’uomo.
E “«manderà gli angeli…»” – gli angeli sono i suoi collaboratori – “«…e radunerà i suoi eletti»” – che non sono più gli eletti di Israele, ma i nuovi eletti, della nuova comunità del Regno – “«dall’estremità della terra all’estremità del cielo, come un nuovo inizio»”: cioè le sofferenze causate dall’oppressione, vedranno la fine. Vedranno la fine nell’inizio di questa epoca nuova, di una realtà nuova inaugurata dal Figlio dell’Uomo.
Poi Gesù ammonisce: «Dalla pianta del fico imparate la parabola»”. E’ una parabola conosciuta. Qual è questa parabola? E’ quella che precedeva, al capitolo 12, quella dei vignaioli omicidi ai quali sarà tolta la vigna e sarà data ad altri popoli. Gesù sta annunciando che, con la distruzione di Gerusalemme, il Regno di Israele finirà, ma si inaugurerà il Regno di Dio, quindi un messaggio pienamente positivo.
E Gesù ammonisce: “«E voi quando vedrete queste cose…»”, cioè la distruzione di Gerusalemme, la diffusione del suo messaggio nel mondo pagano, “«…sappiate…”, e qui la traduzione dice “che egli è vicino”, ma non c’è “egli”: “«…che è vicino e alle porte»”. Cos’è che è vicino, alle porte? Gesù ce l’aveva detto, “Il Regno di Dio è vicino”, ma, fintanto che i discepoli pensano ancora all’egemonia di Israele, al predominio di Israele, il Regno di Dio non può iniziare, perché il Regno di Dio è universale, non è legato a un popolo.
E Gesù garantisce: “«Non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga»”: di fatto, sarà nel 70 d.C. che ci sarà la distruzione di Gerusalemme. E, usando un proverbio che significa “tutto passerà, il cielo e la terrà passeranno”, non sta dicendo che finirà il cielo o finirà la terra, ma i due opposti “cielo e terra” significano il tutto, una garanzia, una certezza assoluta: “«il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”»: quindi la rovina di Gerusalemme permetterà l’entrata dei pagani nel Regno di Dio. Questo è ciò che Gesù afferma con sicurezza.
Riguardo però al giorno e all’ora, qui si rifà alla persecuzione individuale o comunitaria, dice “Nessuno lo sa”, perché naturalmente annunciare questa Buona Notizia porterà la persecuzione; “…né gli angeli del cielo, né il Figlio, eccetto il Padre”: questo è un invito a fidarsi completamente, a non preoccuparsi. Quindi annunciate la Buona Notizia, e questa Buona Notizia vedrà la caduta dei poteri che vi si oppongono, che naturalmente reagiranno con violenza. Ma voi non vi preoccupate perché il Padre si occuperà di voi pienamente.
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XXXII TEMPO ORDINARIO – 11 novembre 2018
QUESTA VEDOVA, COSI’ POVERA,
HA GETTATO NEL TESORO PIU’ DI TUTTI GLI ALTRI
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Mc 12, 38-44
Gesù [nel tempio] diceva [alla folla] nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano (= bramano) passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri.
Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
*
Per l’esatta comprensione del messaggio degli evangelisti, occorre conoscere le loro regole letterarie, i loro stili letterari. Una di queste si chiama trittico.
Il trittico cos’è? C’è un pannello centrale più grande e due ai lati più piccoli, che si comprendono
soltanto in relazione a quello centrale. Per l’esatta comprensione del messaggio degli evangelisti, occorre conoscere le loro regole letterarie, i loro stili letterari. Una di queste si chiama trittico. Il trittico cos’è? C’è un pannello centrale più grande e due ai lati più piccoli, che si comprendono soltanto in relazione a quello centrale. Ebbene, la tecnica del trittico è applicata anche in letteratura. Sono episodi dove c’è un episodio centrale che viene compreso e spiegato da quello che lo precede e da quello che lo segue. Se non si tiene conto di questo si rischia, come in questo caso, in questo Vangelo, di travisarne completamente il significato.
Vediamo la prima parte, del pannello.
“Gesù diceva loro nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi …” – è imperativo, cioè “state attenti, c’è una categoria di persone che è estremamente pericolosa”; e Gesù dà delle indicazioni per riconoscerla.
Chi sono gli scribi? Gli scribi erano il magistero infallibile dell’epoca, lo scriba era il teologo ufficiale, colui la cui parola aveva lo stesso valore della Parola di Dio. Lo scriba era addirittura più importante del sommo sacerdote. Gesù dà delle indicazioni per riconoscerli: “amano (=bramano) passeggiare in lunghe vesti,”: cioè loro si distinguono dagli altri, e per far vedere che hanno una relazione particolare con il Signore, che sono al di sopra della gente, usano un abito religioso che li distingua dal resto della gente;
“…ricevere i saluti nelle piazze,” – il saluto significa ossequio, essere riveriti, per i loro nomi, per i loro appellativi;
“…avere i primi seggi nelle sinagoghe…” – il primo seggio nella sinagoga non è semplicemente il posto in avanti, come noi possiamo pensare. Nella sinagoga, lateralmente, c’erano due gradini; il primo seggio era quello che stava in alto, in modo che la gente stava seduta sotto. Il ‘primo seggio’ significa mettersi al di sopra degli altri;
“…e i primi posti nei banchetti”: tanta devozione, tanta spiritualità sono affiancate a una grande ingordigia. Il primo posto al banchetto è quello accanto al padrone di casa, e quindi è dove si viene serviti prima e meglio.
Gesù ridicolizza questo loro appetito dicendo che “divorano le case delle vedove”: la vedova è l’immagine di una persona che, non avendo un uomo che provveda a lei, è bisognosa, è l’essere da proteggere, e “pregano a lungo per farsi vedere”.
No, in realtà l’evangelista non dice che pregano a lungo per farsi vedere, ma “fanno vedere che pregano a lungo” : fanno vedere che pregano, cioè la loro preghiera è una simulazione, basata tutta quanta sul loro interesse.
E, l’unica volta che Gesù condanna qualcuno, si tratta di un peccatore? No, si tratta della casta religiosa al potere: “Essi riceveranno una condanna più severa.” – questo è il pannello iniziale.
Poi vediamo quello centrale: “Gesù è seduto di fronte al tesoro” – ecco chi è il vero Dio del tempio, è il tesoro, è mammona, è l’interesse. C’è scritto nel secondo Libro dei Maccabei 3,6 che “il tesoro di Gerusalemme era colmo di ricchezze immense tanto che l’ammontare delle somme era incalcolabile”. Ecco il vero Dio del tempio, ecco il vero Dio degli scribi.
“…e la folla vi gettava le monete, poi viene una vedova…” – non è solo vedova, ma è anche povera – “getta due monetine”, e Gesù commenta: “è tutto quello che aveva per vivere”: ecco la deformazione di Dio operata dai teologi, dagli scribi.
Allora Gesù si scaglia contro questi scribi perché hanno deturpato il volto di Dio, ecco perché sono pericolosi. Il loro Dio non è il Padre di Gesù, ma un Dio creato a immagine e somiglianza dei loro interessi, dei loro appetiti e della loro voracità.
Nel Libro del Deuteronomio (14) Dio aveva stabilito che, con i proventi del tempio, bisognava assistere le vedove e gli orfani, cioè le persone che avevano necessità. Qui gli scribi sono riusciti a fare il contrario: sono le vedove che si dissanguano per mantenere il tesoro del tempio, che è come un vampiro che succhia loro il sangue.
Allora Gesù dice: “lei nella sua miseria aveva gettato tutto quello che aveva: tutto quanto aveva per vivere”. Non è una lode, ma è un lamento per la vittima della religione. E’ un lamento per questa persona sfruttata che, anziché essere lei alimentata con i soldi del tesoro del tempio, è lei che alimenta questo dio-vampiro.
All’inizio del capitolo seguente: allora Gesù è radicale – è la parte conclusiva del trittico –: “Qui non rimarrà pietra su pietra che non sia distrutta!”. L’istituzione religiosa che ha prostituito il volto di Dio, l’istituzione religiosa che è in mano a persone che badano soltanto ai loro interessi, deve scomparire definitivamente.
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XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – 4 novembre 2018
AMERAI IL SIGNORE TUO DIO. AMERAI IL PROSSIMO TUO Mc 12, 28-34
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi, OSM
In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
A Gerusalemme, nel tempio, cuore dell’istituzione religiosa e polmone economico dell’intera regione, Gesù ha accusato la casta sacerdotale al potere di essere una banda di ladri che ha trasformato il santuario in una spelonca nella quale ammassa la refurtiva dell’incessante rapina ai danni del popolo. Il vero dio adorato nel tempio non è il Signore d’Israele, ma il denaro e, per il loro interesse, i capi religiosi sono disposti ad ogni efferatezza, anche a uccidere il Figlio di Dio («Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra», Mc 12,7).
Sommi sacerdoti, scribi e anziani hanno deciso di ammazzare Gesù, ma c’è un impedimento: il popolo che è pieno di ammirazione per il suo insegnamento (Mc 11,15-18). Occorre perciò, prima di eliminare Gesù, screditarlo, e per questo inizia una serie di agguati contro di lui, dei trabocchetti dove però ogni volta sono i capi religiosi a rimanere intrappolati. Cominciano con l’inviare farisei ed erodiani, con l’insidiosa questione del tributo a Cesare, poi è la volta dei sadducei, che tenteranno di ridicolizzare Gesù con un’interpretazione materialistica della risurrezione, infine l’attacco decisivo, quello di uno scriba, l’interprete ufficiale del magistero.
Questo scriba chiede a Gesù quale sia il primo di tutti i comandamenti. La domanda non è volta a conoscere, ma è per controllare questo Galileo che ha un rapporto quanto meno distaccato con i comandamenti (Mc 10,17-19). Quello più importante era indiscutibilmente il riposo del sabato, che persino Dio osservava (Gen 2,3), e la cui osservanza equivaleva all’adempimento di tutta la Legge. Al contrario, la sua trasgressione era ritenuta una violazione di tutti i comandamenti, e per questo punita con la morte (Es 31,14; Nm 15,32-36).
Nella sua risposta Gesù, che non rispettava il sabato (Mc 2,23; 3,2) e pertanto non riteneva l’osservanza di questo comandamento la più importante, ignora provocatoriamente i comandamenti, e si rifà all’“Ascolta Israele” (Dt 6,4-9), l’atto di fede che gli ebrei recitavano due volte al giorno, elevandolo al rango di comandamento: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza».
La domanda dello scriba concerneva un solo comandamento, il più importante. Ma per Gesù l’amore a Dio non è reale se non si accompagna con l’amore al prossimo, per questo aggiunge alla sua risposta un precetto del Levitico: «Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18).
Sorprendentemente, lo scriba si mostra d’accordo, comprende che l’amore a Dio e al prossimo «vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici», relativizzando così l’importanza dell’elemento centrale del culto israelita.
Quando si arriva a comprendere che la relazione con Dio e quella con gli uomini sono indissociabili, non si è lontani dal regno, l’alternativa proposta da Gesù. Ma far parte del regno non è una questione teorica, bensì pratica, esige la conversione, il cambiamento di vita. Per questo non si segnala nessuna reazione dello scriba all’implicito invito di Gesù: «Non sei lontano dal regno di Dio». La domanda che lo scriba aveva posto era scolastica, virtuale, non riguardava la vita ma la teologia. La sua era solo una questione dottrinale senza alcuna implicazione nella vita pratica (per questo nella sua risposta lo scriba ha omesso il termine “anima” [vita]). È un teologo, un sapiente e non traduce nella vita le conclusioni della sua teologia.
Uscito indenne e vincente dagli attacchi contro di lui, nessuno osa più interrogare Gesù: temono le sue risposte, avvertono nelle sue parole il pericolo di essere rovesciati dalle loro posizioni, e ora è Gesù a passare al contrattacco, demolendo sia la dottrina («Come mai gli scribi dicono che il Cristo è figlio di Davide?»), sia la figura degli scribi («guardatevi dagli scribi…»).
XXIX TEMPO ORDINARIO – 21 ottobre 2018
IL FIGLIO DELL’UOMO DONA
LA PROPRIA VITA
IN RISCATTO PER MOLTI
p. Alberto MAGGI
Versetti che precedono il brano odierno:
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Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti; coloro che venivano dietro erano pieni di timore.
Prendendo di nuovo in disparte i Dodici, cominciò a dir loro quello che gli sarebbe accaduto: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà».
Mc 10, 35-45
Si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. TRA VOI PERÒ NON È COSÌ; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
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Gesù ha annunciato che a Gerusalemme sarà ammazzato dai componenti del sinedrio. Ma i discepoli non capiscono. Infatti, scrive l’evangelista: “gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni”, sono i due discepoli che gli chiedono: “Maestro…” – lo chiamano ‘Maestro’, ma in realtà non lo ascoltano, non apprendono, non lo seguono – “… vogliamo…” – con grande arroganza, è una pretesa, non è una richiesta – “…che tu ci faccia quello che noi ti chiederemo”.
E Gesù dice loro: “Che cosa volete che io faccia per voi?”. Ed ecco la loro richiesta: “Concedici di sedere nella tua gloria…”: l’ideologia religiosa può uccidere, può neutralizzare, può atrofizzare l’ascolto e la visione di Gesù; “…uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”: come nelle monarchie: il re era seduto al centro e quelli che detenevano il potere alle sue dipendenze alla sua destra e alla sua sinistra; quindi, pur avendo Gesù annunciato la sua morte, i suoi discepoli non capiscono e non accettano.
Allora Gesù dice: “Voi non sapete quello che chiedete. Potere bere il calice che io bevo ?” – il calice, nella tradizione ebraica, era simbolo di morte, simbolo di martirio – . E per tre volte Gesù adopera poi l’espressione ‘battezzare’. ‘Battezzare’ è pure simbolo di morte, per la gente indicava anche ‘morte al proprio passato’. Il battesimo di Gesù è stato simbolo di accettazione della morte. “Potete essere battezzati nel battesimo in cui sono battezzato?”: quindi potete affrontare questa morte? Loro, con grande spavalderia, rispondono: “lo possiamo!”. Alla prova dei fatti scapperanno via tutti!
E Gesù disse loro: “il calice che io bevo, anche voi lo berrete e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati…”: e di nuovo ripete per tre volte l’espressione ‘battezzare’ – il numero tre significa ciò che è definitivo – “…ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”: cioè coloro che, al momento della prova, saranno capaci di seguirlo. E, al momento della prova, Giacomo e Giovanni non saranno capaci di seguire Gesù.
Scrive l’evangelista: “Gli altri dieci…”: perché questa sottolineatura superflua?
Sappiamo che sono dodici gli Apostoli. Se due hanno rivolto questa richiesta a Gesù è ovvio che gli altri siano dieci. Ma con questa precisazione l’evangelista ricorda la grande tragedia di Israele, lo scisma dopo la morte di Salomone. Dopo la morte di Salomone, il figlio Roboamo vide giungere presso di lui una delegazione composta dagli anziani che gli disse: “Guarda, tuo padre che è stato un dittatore spietato, ci ha succhiato il sangue dalle vene, tu cerca di essere più leggero di tuo padre!”. Roboamo, ambizioso come il padre, ma non altrettanto intelligente, disse “Se mio padre vi schiacciava con un mignolo, io vi schiaccerò con un pugno”. Allora, da quel momento, delle dodici tribù che componevano il regno di Israele, ben dieci si separarono e rimasero a Roboamo soltanto la sua tribù e quella di Beniamino. Fu lo scisma e la rovina del popolo di Israele.
Allora l’evangelista, richiamando questo fatto, con gli altri dieci “che si indignano con Giacomo e Giovanni” – perché tutti volevano fare questa stessa richiesta, l’evangelista fa capire che è l’ambizione che domina e mette in ansia tutto il gruppo. C’è il rischio che l’ambizione del potere porti allo scisma, alla separazione e quindi alla rovina della comunità.
Allora, ecco un importante insegnamento: Gesù “li chiamò a sé…”: li chiama perché sono spiritualmente lontani; “…e disse loro: «voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni …” – ‘sono considerati’…dagli altri, ma Gesù non li considera tali – “dominano su di esse e i loro capi le opprimono”: Gesù ha un’immagine negativa di coloro che detengono il potere. E, per tre volte, Gesù sottolinea: “MA TRA VOI NON È COSÌ…”: qualunque imitazione del sistema di potere vigente nella società, all’interno della comunità dei discepoli di Gesù è respinta!
“…chi vuole essere grande si faccia vostro servo”: quindi se vuoi essere grande, mettiti a servizio di tutti, se vuoi essere il primo, fatti schiavo di tutti: Gesù non tollera che nella sua comunità ci siano alcuni che si mettano al di sopra degli altri.
Ed ecco l’importante rivelazione che cambia completamente il volto di Dio: “Anche il Figlio dell’uomo…”, cioè l’uomo che ha la condizione divina, “non è venuto per farsi servire, ma per servire” : ecco l’immagine di Dio. Nelle religioni, compresa quella giudaica, Dio chiedeva il servizio dagli uomini. Gesù cambia radicalmente; con Gesù Dio non chiede più di essere servito, ma è lui che si mette a servizio degli uomini.
E il servizio a che cosa è finalizzato? “Dare la propria vita in riscatto per molti”: il riscatto era il prezzo che si pagava per liberare qualcuno da una schiavitù. Per molti: noi diremmo “per tutti benché molti”. Quindi Dio, in Gesù, si mette a servizio dell’umanità intera, per liberarla da tutto quello che le impedisce di essere pienamente e di diventare figli suoi.
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XXVIII TEMPO ORDINARIO – 14 ottobre 2018
VENDI QUELLO CHE HAI E SEGUIMI
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Mc 10, 17-30
[In quel tempo], mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.
Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».
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Nel Vangelo di Marco, ogni volta che l’evangelista adopera il termine “strada”, è sempre per indicare la semina infruttuosa. E’ il seme che viene gettato, ma vengono gli uccelli. Immagini che poi Gesù aveva commentato come il Satana che è l’immagine del potere, della ricchezza, di tutto quello che impedisce l’accoglienza del messaggio di Gesù.
Il brano che oggi commentiamo comincia proprio con “mentre andava per la strada”. Quindi l’evangelista ci dice già che la semina sarà infruttuosa.
“Un tale…” – l’evangelista non ci dice chi sia – “…gli corre incontro e si getta in ginocchio”. In questo Vangelo sono due i personaggi che hanno queste caratteristiche: 1) l’indemoniato di Gerasa (Mc 5,6), cioè la persona posseduta da qualcosa che è più forte di lui, è prigioniero; è l’unico che si mette in ginocchio davanti a Gesù; 2) il lebbroso (Mc 1,40), che veniva considerato un escluso da Dio.
Quindi l’evangelista ci vuole dire che questo personaggio è prigioniero di qualcosa che è più forte di lui, e in qualche maniera si esclude da Dio.
Ebbene questo tale, angosciato, si rivolge a Gesù chiedendo cosa deve fare per avere la vita eterna.
Gesù, nella sua risposta, lo rimanda ai comandamenti di Dio. Ma non enumera tutti i comandamenti. I comandamenti erano divisi in due parti: la prima riguardava gli obblighi nei confronti di Dio, ed erano esclusivi di Israele, l’altra parte riguardava il comportamento nei confronti degli uomini ed erano comuni a tutte le culture del tempo.
Ebbene, Gesù non considera la prima parte; per la Vita eterna importa soprattutto la relazione che si è avuta nei confronti degli altri. Ne enumera cinque: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso”: testimoniare il falso non significa semplicemente dire delle bugie, ma usare della menzogna per spedire un accusato alla morte; quindi si tratta di falsa testimonianza che causa la morte di un imputato. E “onora il padre e la madre”: onorare significa preoccuparsi per il mantenimento economico, era disonorevole lasciare i genitori nell’indigenza.
E qui l’evangelista ci infila anche “non frodare, non imbrogliare”: si tratta di un precetto tratto dal Libro del Deuteronomio, che si rivolgeva ai datori di lavoro: non imbrogliare il tuo salariato, ma dagli la sua paga la sera stessa. Quindi l’evangelista insinua che in questo personaggio che si è avvicinato a Gesù ci possa essere anche questo problema di onestà salariale.
E nel rispondere questo tale si riempie la bocca dalla contentezza perché aveva osservato tutto quanto fin dalla giovinezza: “«maestro, tutte queste cose” – la lingua greca fa sentire che si riempie proprio la bocca nel dire táuta pánta (tutte queste cose), “le ho osservate fin dalla giovinezza».
“Allora Gesù lo fissò – fissare una persona significa penetrare dentro la sua vera realtà, lo sguardo di Gesù è sempre volto a una comunicazione di vita, d’amore – e gli disse … – Gesù non dice come i traduttori riportano: “una sola cosa ti manca”, come se mancasse solo la ciliegina sulla torta, sei tanto bravo, e adesso fai un altro passo…, ma Gesù dice: “…uno ti manca”. Nella loro cultura quando mancava “uno”, mancava tutto; allora Gesù gli dice: “hai fattoi tutto questo, ma non hai niente”. Perché il tale era ricco. E Gesù dice: “quello che hai dallo ai poveri e poi avrai un tesoro in cielo”: Dio sarà la tua sicurezza. E’ andato da Gesù per avere di più, e Gesù lo invita a dare di più.
“«E poi vieni e seguimi». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò via rattristato. Possedeva infatti molti beni”: ecco perché l’evangelista ci ha presentato questo individuo che corre (come si diceva dell’indemoniato). Lui credeva di possedere i beni, in realtà ne era posseduto. Dal Vangelo si comprende che si possiede soltanto quello che si dona. Quello che si trattiene per sé, non lo si possiede, ma ci possiede. L’uomo pensava di possedere i beni, in realtà ne era posseduto. Ha incontrato Gesù angosciato e se ne va via rattristato.
Vediamo adesso la reazione dei discepoli alla radicalità di Gesù. Essi rimangono sconcertati dal fatto che Gesù metta al ricco la condizione per poter entrare nel Regno di Dio, cioè nella comunità cristiana: abbandonare tutte le sue ricchezze.
Allora Gesù, vedendo questo sconcerto, si rivolge ai suoi discepoli e conferma: per i ricchi “è difficile entrare nel Regno di Dio!”, perché i discepoli, per il fatto di aver accolto Gesù e il suo messaggio, sono già nel Regno di Dio. Quindi Gesù non sta indicando quanto sia difficile in linea generale, ma quanto lo sia per i ricchi. Perché?
Nel Regno di Dio c’è posto per i signori, ma non per i ricchi. IL SIGNORE è colui che dà, mentre IL RICCO è colui che ha e trattiene per sé. E quindi Gesù fa l’esempio popolare del cammello e della cruna dell’ago, per indicare l’impossibilità del ricco, perché la comunità di Gesù è il luogo della generosità.
Ebbene, di fronte alla conferma radicale di Gesù, c’è lo sconcerto dei discepoli che, ancora più stupiti, si dicevano: “E chi potrà essere salvato?”: qui non si intende la salvezza eterna, perché abbiamo già visto che anche il ricco, se si comporta onestamente (basta che osservi i comandamenti), importa dei doveri verso il prossimo, anche lui ha la vita eterna!
La salvezza non riguarda la vita eterna: il verbo greco tradotto con “salvare” significa “sostenere, fuggire da un pericolo”. Cioè il ragionamento dei discepoli è questo: se a un ricco, che poteva entrare nel gruppo, gli metti come condizione di disfarsi di tutte le sue ricchezze, noi come ci manteniamo? In concreto è forse questo il problema sollevato dai discepoli.
“Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio!»” Gli uomini pensano che la felicità consista nell’avere sempre di più, Gesù, che è Dio, insegna che la felicità, la vita, consista nel dare, non nell’avere. Più si dà e più si acquista la capacità di dare agli uomini.
E c’è la reazione di uno dei discepoli che viene presentato con il soprannome negativo – Simone, chiamato Pietro – quando c’è soltanto il soprannome negativo indica che è all’opposizione di Gesù. Egli contesta: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto” – che poi si vedrà non è neanche vero – “e ti abbiamo seguito”.
C’è un problema: Pietro segue Gesù, almeno crede, ma non lo accompagna, cioè non ha fatto propri gli ideali di Gesù.
Ed ecco la risposta di Gesù: “In verità” – quindi è un’affermazione solenne che va al di là della risposta a Pietro, ma riguarda la comunità dei credenti di tutti i tempi – “non c’è nessuno che ha lasciato casa”, e poi c’è una alternativa, una contrapposizione: “o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi”, non c’è una congiunzione e…, e…, e…
Gesù non chiede di lasciare tutto, ma di lasciare soltanto quello che impedisce la piena libertà dell’uomo. Se è la casa – casa significa il patrimonio familiare -, se sono i fratelli, se sono le sorelle, o il padre o la madre… quindi se c’è uno di questi impedimenti, lascialo, abbandonalo, perché ti impedisce la pienezza di vita. Questo abbandono deve essere fatto per causa di Gesù e per causa del Vangelo: è questo il problema di Simone. Simone segue Gesù, ma non ha capito ancora la Buona Notizia di Gesù, quest’amore universale che va concesso a tutti.
Ebbene Gesù assicura “che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto” – cento volte tanto indica una benedizione da parte di Dio e, mentre si lascia soltanto la casa, o i fratelli o le sorelle, la benedizione è complessiva, “cento volte” – “in case” – e qui c’è la congiunzione – “e fratelli e sorelle e madri e figli e campi”.
C’è una sparizione, tra gli impedimenti da lasciare c’era il padre, ma il padre ora non si ritrova tra le benedizioni. Il padre indica l’autorità, colui che comanda, viene abbandonato e non lo si ritrova nella comunità cristiana, non c’è nessun padre nella comunità se non il Padre dei cieli. E il Padre dei cieli non governa gli uomini emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro interiormente il suo Spirito.
Insieme a questo ci sono le persecuzioni, ma, aggiunge Gesù, “e la vita eterna”. Cioè le persecuzioni che possono sopraggiungere, non impediscono la pienezza di Vita, quella che è eterna.
Beatificazione di Papa Paolo VI e del vescovo martire Oscar Romero
d. Pierluigi DIPIAZZA
Il Vangelo di questa domenica (Marco 10,17-30) ci provoca ad una riflessione sul rapporto con il denaro, i beni, la ricchezza.
Il testo fa subito venire al cuore e alla mente un momento rivelativo e commovente della vicenda di don Lorenzo Milani. Il 26 giugno 1967, poche ore prima di morire, si rivolge al suo alunno Michele Gesualdi che lo assiste, come fanno a turno tutti i ragazzi, nella casa della madre a Firenze. Gli parla di qualcosa di straordinario che sta avvenendo in quella stanza, che cioè un cammello passa attraverso la cruna dell’ago. È lui ricco e privilegiato quando era giovane che ha fatto la scelta dei poveri, prima a San Donato di Calenzano e poi soprattutto a Barbiana, dando la sua vita di uomo e di prete come maestro di quei ragazzi.
Ora è proprio lui quel cammello che passa attraverso la cruna dell’ago di cui parla il Vangelo per dire quanto è difficile, ma possibile, che un ricco entri nel Regno di Dio.
Il monito del vangelo riguarda l’accumulo delle ricchezze, il modo di pensare e agire di chi è parte di questo mondo e si distanzia totalmente dalla giustizia, dall’equità e dalla condivisione.
La questione riguarda le multinazionali, le concentrazioni finanziarie e anche le dimensioni più contenute, fino alle scelte e allo stile di vita personali. Questa questione decisiva della storia dell’umanità che provoca impoverimento, fame, sete, condizioni di vita disumane riguarda anche la beatificazione di oggi in piazza S. Pietro di papa Paolo VI e del vescovo e martire del Salvador Oscar Romero.
Papa Paolo VI ha svolto il suo compito con non poca tribolazione; rispetto a questa riflessione è doveroso ricordare la sua importante enciclica “Populorum Progressio”, in cui denuncia le situazioni di povertà, di dominio, di oppressione e l’importanza decisiva dei popoli soggetti di liberazione, prevedendo anche la comprensibile collera dei poveri e mettendo in relazione indispensabile la giustizia e la pace.
Il vescovo martire Romero è stato voce dei senza voce, dei poveri e degli oppressi, ha condiviso pienamente la loro sorte, ha denunciato il peccato sociale, strutturale dilagante e devastante, ha proposto le strade della giustizia e della pace con coraggio e coerenza, fino a dare la vita.
Il papa e il vescovo si sono incontrati a Roma nell’aprile del 1977; mons. Romero gli ha portato un dossier sulla drammatica situazione del paese, anche su padre Rutilio Grande, gesuita, ucciso ad Aguilares il 12 marzo 1977. Il papa lo ha preso per mano e incoraggiato evidenziando che la guida era lui. Al contrario la congregazione dei vescovi per voce del card. Baggio lo critica e lo impaurisce annunciandogli di sollevarlo dall’incarico.
L’anno successivo, il 17 giugno 1978 c’è un secondo incontro a Roma dove sono giunte notizie tendenziose e false nei suoi confronti a partire dai vescovi salvadoregni. Il papa lo incoraggia con partecipazione.
Ben diverso sarà il 17 maggio 1979, il primo incontro con Giovanni Paolo II: distante, freddo, sospettoso. Due credenti, il vescovo e il papa molto diversi; i due incontri significativi sono stati importanti, di incoraggiamento per il vescovo martire.
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XXVII TEMPO ORDINARIO – 7 ottobre 2018
L’UOMO NON DIVIDA QUELLO CHE DIO HA CONGIUNTO
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Mc 10, 2-16
[In quel tempo]
Alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.
*
Il verbo “tentare” appare nel Vangelo di Marco al suo inizio (1,13), nell’episodio delle tentazioni del deserto, dove Gesù appare tentato da Satana e poi, nel corso del Vangelo, sempre in bocca ai farisei (8,11), una volta con gli erodiani. Sono i fanatici difensori dell’ortodossia, gli zelanti custodi della tradizione, gli strumenti del Satana. Questa è l’accusa che fa l’evangelista. Vediamo questo episodio.
Alcuni farisei si avvicinavano a Gesù per tentarlo: perché per tentarlo? Perché vedono che Gesù sta prendendo le distanze dalla Legge e vogliono trovare uno strumento per poterlo accusare e poi condannare a morte. Non dimentichiamo che già i farisei, insieme agli erodiani, avevano deciso di dover eliminare Gesù.
Quella che chiedono a Gesù è una cosa ovvia e risaputa: “è lecito a un marito ripudiare la moglie?”: chiaro che sì, tutta la tradizione religiosa, avallata dalla Parola di Dio, lo permetteva. Ebbene, Gesù prende le distanze e dice “che cosa vi ha ordinato Mosè?” : Gesù, da ebreo, avrebbe dovuto dire “che cosa ci ha comandato Mosè”; Gesù prende le distanze: il Dio di Gesù è un Dio-amore e l’amore non si può formulare attraverso delle leggi, ma soltanto attraverso delle opere che comunicano vita.
E la risposta che loro danno è presa dal libro del Deuteronomio cap. 24, 1: Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla: Gesù prende ancora le distanze e li accusa: “per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma”: il che significa che per Gesù non tutto quello che è scritto nella Legge, al quale si attribuisce pure autorità divina, ce l’ha realmente; in parte è un cedimento di fronte alle perverse reazioni umane.
Ma quello che sta dicendo Gesù è grave perché era prevista la pena di morte per chi osava affermare che anche una sola parte della Legge non era stata pronunciata o voluta da Dio, ma era Mosè che l’aveva scritta. Ebbene, per Gesù la Legge scritta non sempre riflette la volontà di Dio, e per questo non ha valore duraturo e permanente.
Gesù non si rifà al Dio legislatore – il Dio di Mosè – ma al Dio della creazione, e cita il Libro della Genesi (1,27; 2,24), dove c’è scritto che “l’uomo… – fatto maschio e femmina nella creazione – “…lascerà suo padre e sua madre perché si unirà a sua moglie, e i due diventeranno una sola carne”: questo è il significato del matrimonio.
Il matrimonio significa aver trovato in un’altra persona una sicurezza ancora più grande del proprio padre e un amore incondizionato più forte della propria madre. Infatti in tutte le culture il padre indica colui che dà la sicurezza, la protezione, e la madre è l’amore incondizionato.
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NUTRIRE L’AMORE
Don Pierluigi Di Piazza
L’amore è la dimensione fondamentale della vita; senza amore non si può vivere in modo umano significativo. Ma paradossalmente l’amore è la dimensione più fragile, più esposta a illusioni, equivoci, fraintendimenti. Per questo chiede continua attenzione, premura e cura, con la consapevolezza che è un’arte da apprendere continuamente e nella quale nessuno è maestro, un’arte in cui impratichirsi in continuità.
Certamente l’amore va inteso nelle sue profondità ed espressioni diverse. È la grande questione della vita; da quando nasciamo, anche prima, da quando siamo nell’utero della madre a quando diamo l’ultimo respiro. Sentirsi amati, accolti, valorizzati è esperienza fondamentale per la formazione positiva del nostro nucleo affettivo portante; nel caso contrario si insinuano incertezze e difficoltà.
Nella nostra società sono in atto profondi cambiamenti rispetto al vissuto dell’amore e alla sua espressione sessuale, tra uomo e donna, fra persone della stessa identità affettiva sessuale. Le storie di tutte le persone chiedono di essere accolte, ascoltate, considerate e mai discriminate.
Il Vangelo di Marco 10, 2-16 riporta il confronto fra Gesù e i Farisei rispetto al piano normativo e giuridico che regolava il divorzio ammesso dalla legislazione di Mosè; cercava di tutelare la posizione della donna ripudiata dal marito che, comunque, in una società maschilista, di fatto aveva più potere e più peso.
Gesù non entra su questo piano come avrebbero preteso i suoi interlocutori prevenuti, ma invece si pone sul piano religioso. Nel progetto di Dio la donna e l’uomo che si amano dovrebbero nutrire, alimentare questo amore perché possa continuare. Dio vorrebbe avvenisse così per il bene delle persone; certo, se poi di fatto le persone entrano in una situazione di incomunicabilità completa, di ricatti velati o espliciti, peggio ancora di violenze psicologiche e anche fisiche, Dio per primo non vorrebbe ci fosse continuità in una condizione di umiliazioni e di vessazioni, quasi sempre nei confronti della donna, e fino alla sua uccisione!
Gesù raccomanda di riflettere a fondo e con sincerità su quello che può avvenire di negativo in un rapporto di amore a causa della durezza del nostro cuore. In questa espressione si possono leggere: egoismi, mancanza di sincerità, sottovalutazione, trascuratezza, minor disponibilità, diminuzione della pazienza attiva, chiusura narcisista, rifiuto dell’approfondimento e del dialogo. Le stesse considerazioni valgono per le nuove relazioni di amore etero e omosessuali, per nutrire l’amore in modo profondo, positivo e arricchente. L’amore si nutre con l’amore…In generale si dovrebbe considerare che la legge non può far nascere l’amore, né risuscitarlo dov’è morto.
XXV TEMPO ORDINARIO – 23 settembre 2018
IL FIGLIO DELL’UOMO VIENE CONSEGNATO …
SE UNO VUOLE ESSERE IL PRIMO, SIA IL SERVITORE DI TUTTI
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Mc 9, 30-37
[In quel tempo] Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Tutti i brani del Vangelo di Marco che stiamo esaminando in queste domeniche sembrano avere un dato in comune: la difficoltà di Gesù con i suoi discepoli. Non ne vogliono sapere di comprendere chi egli sia e quale sia il suo programma.
Gesù attraversa la Galilea e dà un prezioso insegnamento:
“Il Figlio dell’uomo…” – Figlio dell’uomo è un’espressione che indica l’uomo che raggiunge la sua pienezza ed entra nella condizione divina; Gesù è il Figlio di Dio nella sua condizione umana, ed è il Figlio dell’uomo in quanto raffigura l’uomo nella sua condizione divina. Quindi il Figlio dell’uomo è l’uomo che ha la condizione divina;
“…viene consegnato nelle mani degli uomini”: ecco, c’è un’opposizione tra il Figlio dell’uomo, colui che ha la pienezza, e gli uomini, quelli che non aspirano a questa pienezza. E sono questi che lo rifiutano, lo uccidono;
“ma, una volta ucciso, dopo tre giorni, risusciterà”. Quindi è un insegnamento serio, un insegnamento drammatico, ed è un insegnamento chiaro. Gesù non sta parlando in parabole. Però, scrive l’evangelista, “Essi non capivano queste parole”.
Abbiamo visto già nell’episodio della guarigione del sordo, che non si tratta di problemi fisici, ma di problemi interiori – “non c’è peggior sordo di chi non vuol capire”. L’ideologia nazionalista, il loro ideale di successo è tale che impedisce loro di comprendere le parole molto chiare di Gesù.
“Ma avevano timore a interrogarlo”: hanno paura che Gesù confermi quello che loro hanno capito, quindi è vero, capivano, ma non accettavano, non accettavano quello che Gesù diceva.
“Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa” – quindi la casa palestinese – Gesù li interrogò. Loro non vogliono interrogare Gesù e Gesù interroga loro: “e chiese loro: «Di che cosa stavate discorrendo per la strada?»: questa indicazione ‘per la strada’ è sintomatica, è il luogo della semina infruttuosa. ‘Per la strada’ il seme viene gettato per terra, ma vengono gli uccelli e subito lo raccolgono. Gesù, spiegando queste immagini, diceva che era il Satana che rendeva inutile la parola. L’immagine del Satana in questo Vangelo è l’immagine del potere, del successo.
“Ed essi tacevano”: tacciono perché hanno un senso di colpa, perché sanno che hanno fatto qualcosa che Gesù non approva. “Per la strada infatti avevano discusso” – Gesù ha chiesto di cosa stessero discorrendo, invece loro hanno discusso, quindi si è trattato di un discorso animato – “tra loro chi fosse più grande”, il più importante. E’ questo il tarlo che rode i discepoli, l’idea di grandezza, l’ambizione di essere uno il più importante degli altri.
“Sedutosi” – quindi Gesù è nella posizione di colui che insegna – “chiamò i Dodici”. E’ strano, è una casa, una casa palestinese, non è molto grande, perché Gesù deve chiamare? L’evangelista avrebbe dovuto scrivere: ‘Gesù disse …’, invece Gesù li deve chiamare. Perché? I Dodici lo seguono, ma non lo accompagnano, non gli sono vicini interiormente. Gli sono vicini fisicamente, ma la loro mentalità è lontana.
Gesù è il Dio che per amore si mette a servizio degli uomini. Gesù ha detto che il Figlio dell’uomo non é venuto per essere servito, ma per servire, loro invece pensano soltanto a comandare. Ecco perché li deve chiamare i Dodici, perché sono lontani.
“E disse loro – loro hanno discusso chi vuol essere il più grande e Gesù non accetta, ma accetta che nella comunità ci sia il primo. Il primo significa il più vicino a lui – “se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”. Quindi nella comunità non idee di grandezza, non c’è nessuna persona più importante, più grande dell’altra, ma sì ci sono persone più vicine a Gesù (essere il primo). Quali sono? Quelli che si mettono a servizio di tutti. Quelli che, liberamente e volontariamente, mettono la loro vita a servizio degli altri.
Mentre i Dodici li ha dovuti chiamare, “Gesù, preso un ragazzino” – è l’individuo che sta accanto a lui, ci si chiede cosa facesse questo ragazzino in questa casa con i discepoli. Il termine adoperato dall’evangelista indica un individuo che, per età e per ruolo nella società è il meno importante di tutti; potremmo tradurre con il termine ‘garzone’.
Questo garzone, questo ragazzino, è l’immagine del vero seguace di Gesù, di quello che s’è fatto ultimo, fra tutti.
“Lo pose in mezzo…”. In mezzo è il posto di Gesù; ebbene al posto di Gesù, il Signore mette questo individuo che si mette a servizio degli altri. “…e abbracciandolo”, Gesù si identifica con costui, Gesù si identifica con l’ultimo della società.
“E disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi ragazzini” – di questi garzoni, quindi non si tratta di bambini o di ragazzini qualunque, ma di questi, cioè l’immagine del discepolo che veramente si mette a servizio degli altri – “nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”.
Gesù garantisce che dove c’è un individuo che per amore – liberamente e volontariamente – si mette a servire gli altri, in questo persona si manifesta la presenza di Gesù; e la presenza di Gesù porta quella di Dio stesso.
Annota p. Castillo:
Fa pensare questa pagina del Vangelo di Marco. Quando questo vangelo fu scritto, gli apostoli erano ben noti nelle comunità cristiane. Oggi diremmo che i Dodici Apostoli erano famosi: erano i testimoni ufficiali della risurrezione di Cristo (1Cor 15,5), rappresentavano le dodici tribù del “nuovo Israele” (Mt 19,28; Lc 22,30; At 26,7; Ap 21,12), era noto il loro modo di vivere e di lavorare (1Cor 9,4-5).
E allora sorprende che di questi uomini, ai quali tanto doveva la Chiesa nascente, i vangeli raccontano tutte le loro ignoranze, le loro codardìe, le loro paure e contraddizioni.
Il Vangelo ci dice quindi che per la Chiesa il meglio non è la buona immagine dei suoi capi, ma la verità e la trasparenza che ognuno vive nella sequela di Gesù.
Una considerazione di mons. Antonio Riboldi:
Com’è difficile accettare di essere ultimi in una società di falsi e temibili primi! Ma se si vuole davvero essere sale della terra, quella è la via da seguire.
Scriveva don Tonino Bello, esempio di grande umiltà:
“Il fatto stesso di essere considerato tra i primi della classe, mi ha portato anche alla ribalta, con quel pizzico di antipatica saccenteria che mi ha fatalmente tenuto un tantino lontano da voi.
Ho guardato la pastorale con gli occhi del colonnello che progetta a tavolino strategie, più che con gli occhi del soldato semplice che si imbratta le mani nel fango della trincea.
Vi chiedo perdono per questa scarsa condivisione esistenziale”…I poveri, gli ultimi, che non hanno appoggi terreni, né ricchezze economiche, né amicizie che contano, né risorse personali tali da imporsi alla pubblica attenzione, sono coloro che non sono difesi da alcuno e per i quali nessuno è disposto a spendere una parola.“. Se questi poveri di appoggi terreni ripongono in Dio tutta la loro fiducia e lo invocano, come dicono i salmi, allora sono davvero “i poveri del Signore“. E chi non vorrebbe in fondo che la nostra terra fosse piena di bambini, ultimi e servi di tutti? Finirebbe il regno della superbia, trionferebbe la pace e la gioia dell’amore.
XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – 16 SETTEMBRE 2018
TU SEI IL CRISTO… IL FIGLIO DELL’UOMO DEVE MOLTO SOFFRIRE
Commento al vangelo di p. Alberto Maggi osm
Mc 8,27-35
In quel tempo,
Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti».
Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo».
E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente.
Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».
*
Gesù rimprovera i suoi discepoli, dice loro “Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite” nonostante l’episodio della guarigione del sordomuto e del cieco che erano immagini della resistenza da parte dei discepoli che non capiscono e non accettano né chi sia Gesù, né il suo messaggio.
Allora Gesù li porta all’estremo nord del paese, ai confini con la terra pagana, per vedere se lontano dall’ideologia nazionalista imperante, riescono a capire qualcosa di lui.
È quello che ci scrive Marco nel capitolo 8, nei versetti 27-35: Poi Gesù parti con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo: siamo all’estremo nord del paese quindi lontano dall’influsso della Giudea e anche della Galilea, e per la strada,… l’evangelista ci mette un indizio che ci fa capire come va a finire la narrazione: lungo la strada : Gesù aveva raccontato la parabola del seme che tocca terreni diversi. Indicando “la strada” ricorda il luogo dove il seme gettato non ha portato frutto perché sono venuti gli uccelli, immagine di Satana, che lo hanno portato via. Allora questo messaggio di Gesù sarà inefficace.
Satana è immagine del potere, ed è refrattario alla buona notizia di Gesù. …interrogava i suoi discepoli dicendo: “la gente chi dice che io sia? “ : i discepoli, i dodici, sono andati a predicare e Gesù vuole vedere qual è stato il risultato di questa predicazione: la confusione totale.
Ed essi gli risposero “Giovanni il Battista”: perché si credeva che i martiri sarebbero prontamente risuscitati; altri dicono Elia: Elia è il grande, violento profeta che doveva venire a preparare la strada al messia; …e altri uno dei profeti. Non hanno capito assolutamente nulla: sono tutti personaggi che riguardano il passato.
Ed egli domandava loro: “ma voi che dite che io sia”? La domanda di Gesù è rivolta a tutti i suoi discepoli, ma risponde soltanto uno, Pietro, che viene presentato con il soprannome negativo che indica la sua cocciutaggine, la testardaggine e che poi lo porterà al rinnegamento di Gesù.
Pietro gli rispose “tu sei il Cristo”: con l’articolo determinativo. Il Cristo significa il messia atteso dalla tradizione, quello che doveva venire a far osservare la Legge, a occupare il potere a Gerusalemme, questo è il Cristo. Ma Marco nel suo vangelo presenta Gesù come Cristo, senza l’articolo determinativo, cioè un messia che è tutto da scoprire. Infatti che Gesù non sia d’accordo lo si vede subito dalla sua reazione: e ordinò loro severamente… – letteralmente sgridò – l’evangelista adopera lo stesso verbo che si adopera per sgridare e per scacciare gli indemoniati, e in questo brano apparirà per tre volte; quindi Gesù non gradisce quello che ha detto Pietro; …di non parlare di lui ad alcuno e cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo – Pietro ha risposto “tu sei il Cristo”, il messia della tradizione – Gesù si presenta come il Figlio dell’uomo. Gesù è il Figlio di Dio in quanto rappresenta Dio nella sua condizione umana ed è Figlio dell’uomo in quanto rappresenta l’uomo nella sua condizione divina, cioè lo sviluppo pieno del progetto di Dio sull’umanità: che l’uomo abbia la condizione divina.
Il Figlio dell’uomo dovrà soffrire molto ed essere rifiutato… da chi? Non dai peccatori…. proprio da quelli che dovevano farlo conoscere e promuoverlo, dalle autorità religiose: quelli che in concreto sono ostili e si oppongono al progetto di Dio sull’umanità. Infatti tutto il Sinedrio è contro il Figlio dell’uomo: gli anziani, cioè i presbiteri, i capi dei sacerdoti, i sommi sacerdoti, e gli scribi, cioè i teologi ufficiali, e venire ucciso: i rappresentanti dell’istituzione religiosa uccidono il progetto di Dio sull’umanità!
…e dopo tre giorni risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro – ecco di nuovo il soprannome negativo – lo prese, letteralmente lo afferrò a sé, e cominciò a rimproverarlo, esattamente come Gesù ha cominciato a insegnare, così Pietro incomincia a sgridarlo: lo stesso verbo adoperato da Gesù, lo stesso verbo che si adoperava per gli indemoniati. Quello che Gesù sta insegnando, per Pietro è qualcosa che non viene da Dio, ma da qualche demonio: e pertanto cominciò a rimproverarlo.
Ed ecco la reazione di Gesù: Ma egli voltatosi e guardando i suoi discepoli… Gesù rimprovera Pietro, ma il rimprovero riguarda tutti i discepoli perché tutti condividono quella mentalità …rimproverò per la terza volta Pietro e disse: va dietro di me Satana! Gesù definisce Pietro come Satana, perché? Perché come Satana tenta Gesù di deviare dal suo progetto sull’umanità, come Satana vanifica l’effetto della parola: come il seme caduto in terra che subito gli uccelli (immagine di Satana) portavano via. Quindi Gesù rimprovera Pietro e lo tratta come Satana, il tentatore, ma non lo caccia, gli dice: “torna a metterti dietro di me”: non è Pietro che deve tracciare la strada, ma Gesù, il maestro, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini.
Poi per la prima volta appare in questo vangelo il tema della croce e a questi discepoli – che seguivano Gesù per ambizione, per condividere con lui il potere, il trono, il successo – Gesù mette subito in chiaro che seguirlo significa andare incontro al disprezzo dello stesso popolo, al rifiuto da parte della società.
Convocata la folla, – ora il discorso si allarga – insieme ai suoi discepoli, disse loro: “se”… – c’è il condizionale – “se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso – cioè rinunci a questi ideali di successo, di ambizione, di potere – prenda – letteralmente sollevi – la sua croce….
La croce nei vangeli non è data da Dio, ma è sollevata dall’uomo: a che cosa si riferisce Gesù? Non alla morte di croce. Si riferisce al momento in cui nel tribunale il condannato veniva avviato a questa tortura che portava alla morte e doveva issarsi sulle spalle il “patibulum”, cioè l’asse orizzontale della croce. Poi, trascinato dal boia, attraversava tutta la città e per la gente era un obbligo morale, religioso, insultarlo e malmenarlo. In quel momento il condannato sperimentava la solitudine totale, il rifiuto totale, il disprezzo totale: questa è la croce alla quale allude Gesù. Per Gesù la croce significa accettare di perdere la propria reputazione, i propri ideali.
Non è un’imposizione per tutti, ma è la conseguenza per quanti lo vogliano veramente seguire.
Prenda la sua croce e poi mi segua, perché chi vuol salvare la propria vita la perderà, chi vuole realizzare i propri ideali di successo, di pienezza della propria esistenza va incontro al disastro, ma chi perderà la propria vita per causa mia e della buona notizia, la salverà : Gesù assicura che vivere per lui, anche se si passa attraverso il disprezzo, il rifiuto della società, non sarà un disastro, ma sarà la piena realizzazione della persona.
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XXIII TEMPO ORDINARIO – 9 settembre 2018
FA UDIRE I SORDI E FA PARLARE I MUTI
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Mc 7, 31-37
Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea, in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano.
Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua. Guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
*
Ogniqualvolta leggiamo il Vangelo dobbiamo sempre tener presente che i Vangeli non riguardano la cronaca, ma la fede, che non riguardano la storia, ma la teologia. Non troviamo un elenco di fatti, ma di verità, e questo è tanto più vero in un episodio del genere.
“Uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea, in pieno territorio della Decàpoli”.
L’evangelista inizia con queste indicazioni perché vuole indicare l’azione di Gesù con i popoli pagani, perché il messaggio d’amore di Gesù è un messaggio d’amore universale, che incontra, però, la resistenza dei suoi discepoli.
“Gli portarono un sordomuto …” – Sono i collaboratori di Gesù, che l’evangelista all’inizio del Vangelo ha definito “angeli”, quelli che hanno compreso e accettato il messaggio di Gesù e collaborano con lui.
Gli portano un sordo, che è balbuziente (non muto). E’ l’unica volta che nel NT appare il termine “balbuziente”. Nell’AT appare una sola volta, per indicare la liberazione dall’esodo di Babilonia: “La lingua del balbuziente griderà di gioia” ( Is 35,6 LXX).
Quella che Gesù sta facendo non è tanto una guarigione del fisico, ma è una guarigione interiore, è un’immagine di liberazione
“E lo pregarono di imporgli le mani. Lo prese in disparte..”: sette volte nel Vangelo di Marco troviamo l’espressione “in disparte”, e ben sei volte riguardano l’incomprensione dei discepoli;
“.. lontano dalla folla e gli pose le dita negli orecchi…” : l’azione di Gesù è violenta, Gesù gli stura le orecchie. L’evangelista, per indicare le orecchie;
“…e con la saliva gli toccò la lingua;” : la saliva veniva considerata come alito condensato, simbolicamente è immagine dello Spirito;
“…guardando quindi verso il cielo” : il cielo è la comunione con Dio ;
“emise un sospiro…”: è l’unica volta in tutto il NT che Gesù “sospira” a causa della resistenza che i suoi discepoli gli oppongono; così avviene anche con la figura di questo sordo balbuziente;
“…e gli disse «effatà»” : l’episodio si rivolge soltanto a coloro che provengono dal giudaismo;
“… cioè «Apriti!»” : l’invito di Gesù non riguarda soltanto le orecchie, ma riguarda tutto l’individuo, è tutto l’individuo che si deve aprire;
“E subito gli si aprirono gli orecchi… “ : prima abbiamo detto che l’evangelista adopera il termine “orecchi”, qui adopera l’evangelista, per indicare l’orecchio, adopera un termine diverso da prima quando indicava l’organo fisico, adopera un termine greco che indica l’udire. Questo era il problema: non si trattava tanto di un problema fisico, un problema degli orecchi, ma era un problema di comprensione. Anche in italiano diciamo: “non c’è peggior sordo di chi non vuol capire”.
“Gli si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente” : quindi la sua incapacità di esporre il messaggio era la conseguenza del non ascoltare: sono i discepoli che non ascoltano il messaggio di Gesù.
“Ma Gesù comandò loro di non dirlo a nessuno” : Gesù sa che liberazione dei discepoli non è ancora completa, ma sarà lunga e faticosa, e continuerà per tutto il Vangelo.
“Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano, e pieni di stupore dicevano «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti»” : l’evangelista adopera gli stessi termini che nel Libro del Genesi indicano l’azione del Creatore, che, per ogni cosa che crea dice “Ha fatto bella ogni cosa”. In Gesù si prolunga l’azione creatrice nel dare pienezza di vita agli uomini.
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22° Domenica del Tempo Ordinario – 2 settembre 2018
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Mc 7,1-8,14-15,21-23
Si riunirono attorno a Gesù i FARISEI e alcuni degli SCRIBI, venuti da Gerusalemme.
Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti -, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto:
“Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini“.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». …..
9-13: 9E diceva loro: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione. 10Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e: Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte. 11Voi invece dite: «Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio», 12non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre.13Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte».
Chiamata di nuovo LA FOLLA, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro».
17 – 23: 17Quando entrò in una casa, lontano dalla folla, i suoi discepoli lo interrogavano sulla parabola. 18E disse loro: «Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, 19perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?». Così rendeva puri tutti gli alimenti.20E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo».
E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità (prostituzione), furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
*
Ogni volta che Gesù comunica vita spuntano immediatamente i nemici della vita. Infatti, scrive l’evangelista, “si riunirono intorno a lui i farisei e alcuni degli scribi”.
Gli scribi erano i teologi ufficiali, il magistero della religione giudaica. Gesù deve aver combinato qualcosa di grave perché si scomodano questi grandi personaggi che giungono dalla Santa Sede dell’epoca, da Gerusalemme, la capitale religiosa.
Dice Marco: “Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo (nell’originale è pani) con mani impure” – L’evangelista si riferisce all’episodio della condivisione dei pani che raffigura l’Eucaristia. Gesù, quando aveva dato i pani alla gente, non aveva chiesto prima di purificarsi. Questo è il significato dell’Eucaristia che Marco ricorda alla prima comunità cristiana: non bisogna purificarsi per mangiare, ma è il mangiare l’Eucaristia che rende puri.
Questa libertà dalla Legge scandalizza; e i farisei e gli scribi rimproverano Gesù: “perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi…” (nell’originale è anziani). Mosè sul Sinai aveva ricevuto due leggi; una Legge è quella scritta, e l’altra, quella orale, che aveva lo stesso valore della Legge scritta, si chiamava “la tradizione degli antichi” ; aveva lo stesso valore di Parola di Dio! ;
“…ma prendono il pane con mani impure?”: la risposta di Gesù è sorprendente. Gesù si rivolge ai massimi esponenti della gerarchia religiosa dicendo: “Bene ha profetato Isaia di voi!” – e forse si aspettavano un complimento – e invece: “…teatranti!…”: il termine che traduce ‘ipocrita’ non indicava a quel tempo una connotazione morale, ma indicava colui che lavorava al teatro, il commediante.
L’ipocrita, quando si esibiva al teatro, non lo faceva con il proprio volto, ma con una maschera sul volto. E Gesù prende lo spunto da questa immagine per citare il profeta Isaia 29,13.
“Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” – il cuore nel mondo ebraico è la coscienza – : quindi significa: il vostro culto, la vostra religiosità è soltanto una facciata esterna, ma sono altri i vostri interessi.
Si sono lamentati che i discepoli non osservano la tradizione degli antichi, Gesù invece la squalifica davanti alla folla: “Invano vi rendono culto insegnando dottrine che sono precetti di uomini”: sono soltanto invenzioni! Pretendono che tutte le tradizioni procedano da Dio, ma loro sanno che servono soltanto per dominare il popolo. E Gesù li accusa: “trascurando il comandamento di Dio” – che è a favore degli uomini – “voi osservate la tradizione degli uomini”.
Allora Gesù si rivolge a tutti: “Ascoltatemi!” : è un invito ad un ascolto attento, ma anche a comprendere. E Gesù aggiunge qualcosa di talmente grave che dovrà scappare all’estero: “Non c’è nulla al di fuori dell’uomo che entrando in lui possa renderlo impuro” : Gesù passa dalla critica alla Legge orale trasmessa “dagli antichi” a criticare la Legge scritta: è ritenuto da loro un fatto gravissimo!
Anche i discepoli erano pronti a rompere con la Legge orale, ma non con quella scritta!
E l’evangelista commenta: “così rendeva puri tutti gli alimenti!”: Gesù smentisce quello che è scritto nel libro del Levitico con l’elenco di tutti i cibi puri e impuri e afferma che ciò non corrisponde alla volontà di Dio. Ciò è talmente grave che Gesù dovrà scappare a Tiro, in terra pagana.
Ed ecco l’indicazione di Gesù: quello che determina il rapporto con Dio non è qualcosa di esterno all’uomo, ma sono gli atteggiamenti interiori cattivi che fanno del male agli altri. E Gesù elenca dodici atteggiamenti. Sono tutti contro l’uomo e nessuno contro la religione!
La prima è “prostituzioni”: non si intende soltanto la prostituzione come esercizio sessuale, ma il vendersi per fare carriera, il vendersi per successo, il vendersi per la propria ambizione, il vendersi per un più abbondante guadagno.
Ci sono dodici atteggiamenti; il primo e l’ultimo (“prostituzioni” e stoltezza) erano quelli che rimanevano meglio nella memoria. Stupido nei vangeli è chi vive soltanto per sé, chi pensa soltanto al proprio interesse e non si accorge dei bisogni, delle necessità degli altri. L’impurità nasce dalla cattiva relazione che si ha con gli altri uomini. Ed ecco la dichiarazione conclusiva di Gesù: “tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo”.
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XXI TEMPO ORDINARIO – 26 agosto 2018
DA CHI ANDREMO? TU HAI PAROLE DI VITA ETERNA
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Gv 6, 60-69
(In quel tempo,)
molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?».
Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito.
E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre». Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».
*
L’evangelista registra con amarezza come il lungo discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao , tutto incentrato sull’Eucaristia, sia stato un gran fallimento. Ridicolizzato dai capi religiosi che non capiscono come quest’uomo parli di mangiare la sua carne e bere il suo sangue, Gesù non viene compreso neanche dai suoi discepoli. Scrive l’evangelista che “molti dei suoi discepoli dopo aver ascoltato dissero ‘questa parola è dura’”. Il termine tradotto qui con ‘duro’ è il greco ‘skleros’ (skleros), che significa quello che è insolente, quello che è offensivo.
Cos’è questa parola dura? Anzitutto il distacco che Gesù ha preso dalla tradizione dei padri, mentre i discepoli seguono i padri di Israele, Gesù invita a seguire il Padre, ma poi soprattutto hanno capito, loro che seguono Gesù per ambizione – ricordiamo che lo seguono perché vogliono che Gesù diventi il re del popolo – hanno capito che, se vogliono seguire Gesù, devono farsi dono come lui, devono farsi pane per gli altri. Questo ‘duro’ significa inaccettabile. E quindi mormorano contro di lui. Hanno mormorato i giudei, mormora la folla e anche i discepoli mormorano contro Gesù.
Allora Gesù dichiara: “questo vi scandalizza?” : lo scandalo è la morte del Messia. Non possono accettare un Messia che vada incontro alla morte e dice Gesù “se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dove era prima?”.
La morte era considerata una discesa nel regno dei morti e la risurrezione una salita. Ma per salire bisogna passare attraverso la morte. Gesù passerà attraverso la morte più scandalosa, più infamante: la crocifissione, riservata ai maledetti da Dio.
Ed ecco l’indicazione importante e preziosa che Gesù dà, e l’evangelista ci sottolinea, sul significato dell’Eucaristia: “E’ lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla”. Cosa vuol dire Gesù? Mangiare il pane, è il significato dell’Eucaristia, la carne, senza poi farsi pane per gli altri, questo non serve a nulla. Una partecipazione all’Eucaristia nella quale l’amore che viene ricevuto non si trasformi anche in amore comunicato, non serve assolutamente a nulla.
Ma Gesù garantisce: “le parole che io vi ho detto sono Spirito e sono vita” : chi accoglie questo pane e si fa pane per gli altri, scopre dentro di sé la potenza generatrice di queste parole che sprigionano energie vitali. “Ma tra di voi” aggiunge Gesù “vi sono alcuni che non credono”: è il fallimento di Gesù: molti replicano che il suo discorso è duro; molti non credono, addirittura aggiunge “tra di voi c’è addirittura uno che mi avrebbe tradito”. Il fallimento totale di Gesù.
Ma Gesù non intende cambiare il programma, anzi provoca i suoi discepoli “che da quel momento”, sottolinea l’evangelista, “tornarono indietro e non andavano più con lui”: Gesù non li rincorre. Gesù è disposto a rimanere solo pur di non cambiare il programma, ma li provoca e dice ai Dodici “volete andare via anche voi?” : loro seguono Gesù per la propria convenienza, per la propria necessità e non hanno capito che invece per seguire Gesù bisogna proiettare la propria vita per il bene e la necessità degli altri.
“Gli risponde Simon Pietro” – ricordiamo che questo discepolo si chiama Simone, ha un soprannome negativo, Pietro, che gli evangelisti indicano quando è in opposizione a Gesù. Quando viene presentato con il nome e il soprannome significa che questo discepolo da una parte è d’accordo con Gesù e dall’altra no – “Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”: Pietro, Simone, ha compreso che le parole di Gesù che si sono fatte carne in lui sono quelle che comunicano la vita capace di superare la morte. Ma, ecco la parte negativa: “noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. Il Santo di Dio è un’espressione che indica il Messia della tradizione che è apparso altre volte nei vangeli sempre in un contesto negativo, in Marco e in Luca, in bocca agli spiriti impuri o ai demòni e al Messia dell’aspettativa popolare, cioè quello che avrebbe dovuto restaurare la monarchia, quello che avrebbe dovuto dominare i pagani e soprattutto quello che avrebbe dovuto rispettare e imporre la legge. Questo è il Messia che Pietro desidera e questo sarà il motivo che lo porterà al suo tradimento.
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DOMENICA 20a TEMPO ORDINARIO–B – 19 AGOSTO 2018
Pr 9,1-6; Sal 34/33,2-3.10-11.12-13.14-15; Ef 5,15-20; Gv 6,51-58
Gv 6,51-58:
Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
D. Paolo FARINELLA
carne e sangue
Il linguaggio del vangelo può apparire scandaloso e violento, come accadeva quando i cristiani venivano accusati di essere cannibali, di compiere sacrifici umani perché mangiavano carne e bevevano sangue per loro stessa ammissione.
«Carne e sangue» sono sinonimi di vita reale. La parola «carne» non deve trarre in inganno; a noi occidentali fa venire in mente, per associazione, il macellaio. «Carne» – in ebraico «basàr» – rappresenta tutto ciò che è opposto a «ruàch-pnèuma – spirito/divinità», per cui acquista il valore di «fragilità, caducità, mortalità, limite, umanità».
Il «sangue», invece, era considerato sede della vita degli esseri viventi, perché fumante e caldo: la fuoriuscita di esso dal corpo di un animale ne causava la morte, per cui era logico attribuire ad esso un valore vitale. Quando nei sacrifici di alleanza si offriva un animale a Dio, metà del sangue veniva versato sull’altare e con l’altra metà il sacerdote aspergeva il popolo, in segno di comunione vitale. Il sangue bruciato sull’altare saliva in alto da dove la divinità odorava il profumo che saliva dalla terra. Poiché il sangue è vita, è proibito mangiare la carne di animali non dissanguati.
Il binomio «carne e sangue», dunque, indica la piena umanità in tutta la sua fragilità: Dio si fa così fragile da mettersi a nostra completa disposizione. San Paolo dirà: «svuotò se stesso … diventando simile agli uomini» (Fil 2,7).
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La fede è il dinamismo della vita che il pane comunica, e chi mangia «questo» pane è trasformato in esso. In sostanza Gesù chiede una simbiosi tra la sua vita di «Dio mangiato» e quella del credente «che mangia». La fede non è un’idea, ma è vita.
Nel contesto del discorso del Pane dell’Eucaristia, il discepolo impara a riconoscere che il vangelo non è una dottrina, ma una relazione di vita. Non si segue Gesù solo perché entusiasmante, perché coinvolgente, nemmeno per condividere la sua vita e la sua morte, ma per «vedere» Lui, e vedere Gesù significa incontrare il Padre: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9).
Chi mormora (Gv 6,41) non può essere discepolo, perché non va al di là della sua esperienza materiale, non sa vedere oltre il figlio di Giuseppe e non può riconoscere colui è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo che si fa carne e sangue (Gv 6,42-43).
È la presunzione, che spesso viene dalla tradizione diventata immobile, quando ci adagiamo sul già conosciuto, quasi che Dio non possa più parlare oggi perché ha parlato solo ieri, dimenticandoci che non è il Dio dei morti, ma il Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe, cioè il Dio dei vivi (cf Mc 12,26-27). Alla mormorazione, non c’è che una risposta: mangiare il pane disceso dal cielo (Gv 6,48-49; e Gv 6,31-33).
L’Eucaristia, colui che discende dal cielo per dare la vita eterna, deve essere al centro non solo della vita, ma anche della giornata, dei sentimenti, del respiro, del lavoro, dei rapporti con gli altri: il centro fisico non solo della fede, ma anche del tempo.
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15 Agosto 2018 – ASSUNZIONE DI MARIA – anno B
Ap 11,19a;12,1-6a.10ab – 1Cor 15,20-27° – Lc 1,39-56
Ernesto Balducci – “Gli ultimi tempi” vol 2:
…Il desiderio di un mondo non soggetto alla mostruosità del potere c’è sempre stato ed è sempre stato vano.
Noi constatiamo, in questo momento, la particolare tentazione dell’impotenza a superare certe regole perché il mostro ha i suoi strumenti vari. In genere i contemporanei non ne avvertono la mostruosità, ma pensate al denaro, alla potenza economica. È mostruosa! Che faccia delle mostruosità lo sappiamo di tanto in tanto, ma le fa sempre. Ogni tanto leggiamo che anche istituti finanziari rispettabilissimi, in realtà, compiono loschi traffici. È il mostro! Non parliamo poi delle armi: la guerra. Ne abbiamo avuto sotto gli occhi esempi spaventosi. Insomma, possiamo liberarcene? È una domanda perenne.
La risposta più semplice è: no, non è possibile. Se diciamo così noi siamo senza fede, perché non crediamo alle parole del Signore. Questa per me è una linea discriminante importante. Si può anche essere devotissimi della Madonna, ma nello stesso tempo credere che non si può cambiare niente. Allora uno è un miscredente, perché Maria ha creduto a queste cose. Essa è grande non perché ha creduto in Dio, ma perché ha creduto alle sue promesse. È una discriminante di fondo, lo abbiamo detto più volte, ma non dobbiamo mai stancarci di ripeterlo perché ne va del senso della nostra stessa fede, del nostro stesso modo di guardare il mondo in cui viviamo.
Detto questo mi sembra che l’invincibilità del mostro si possa sperimentare a due livelli. Uno antropologico: la vittoria del mostro è la morte. È bene non dimenticarci di questa connotazione terribile, nefasta, della morte al di là di ogni addomesticamento. Potremo dire anche «sorella morte» con Francesco, però all’interno di una fede in cui essa cambia significato. Ma di per sé, nell’immediatezza del nostro perire umano, la morte è una inaccettabile mostruosità, un invincibile, ma che noi speriamo debba essere vinto. Questo è un punto essenziale ed è giusto che Paolo, in questo brano della Lettera ai Corinzi, la chiami «l’ultima nemica».
Sappiamo che la potenza di questo nemico irride tutte le nostre competenze scientifiche. Possiamo rubare un palmo, uno spazio, ma l’essere mortali qualifica all’interno l’intera nostra opera umana. Poi c’è un livello di carattere storico e allora il male è il potere che mira ad unificare le creature con la legge del dominio e che mira a discriminare quelli che si assoggettano alle regole del potere, e ne traggono vantaggi, e quelli che non si assoggettano.
L’oggetto della fede è che questo drago sarà sconfitto, che Dio ha preparato nel cuore del mondo un’alternativa. In questo brano dell’Apocalisse si parla del popolo di Dio. In genere il popolo salvatore, anche nelle mitologie esterne all’ebraismo, viene raffigurato attraverso l’immagine di una donna che partorisce un figlio e questa donna è il bersaglio del drago. La donna è il popolo eletto, è il popolo di Israele nel deserto – «Dio le aveva preparato un rifugio nel deserto» – ed è il popolo del nuovo Israele nato dalla sconfitta della croce. Il drago ha vinto con la crocifissione, ma Dio ha preso il Figlio con sé: l’Ascensione – e anche questa donna è presa con sé da Dio: l’Assunzione.
Sono questi i misteri che noi, partitamente, secondo contenuti dogmatici e rappresentativi diversi, celebriamo, ma la sostanza è questa: Dio non si lascia vincere dal drago e il popolo che egli ha scelto vincerà. Ecco la fede. È una fede che è costretta ad infrangersi continuamente contro l’evidenza. Ecco perché: «Beata te che hai creduto». Lo potrei dire a tutti voi, a me stesso, perché come si fa a credere? Ci vuole davvero una grande dose di illusione; ma non è una illusione, perché ecco il riferimento a Dio: il Magnificat, l’esaltazione di Dio che compie cose grandi. Queste cose grandi Dio le ha già compiute: Maria è una «grande cosa»: la fanciulla di Nazareth che viene fatta madre di Gesù, che rappresenta e realizza la promessa di Dio, è il grande mistero gioioso della fede cristiana, che non dobbiamo svellere da questo contesto, altrimenti anche questo mistero si evapora in nebbie auree di esaltazione. Dobbiamo tenerci fermi a questo perché così facendo i misteri ritrovano carne e sangue dentro di noi, nella nostra reale esperienza e non costituiscono una specie di glorioso luna park ai lati della vita.
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IX TEMPO ORDINARIO – 12 agosto 2018
IO SONO IL PANE VIVO DISCESO DAL CIELO
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Gv 6, 41-51
[In quel tempo,]
I Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?».
Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Nel lungo discorso tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao a seguito della condivisione dei pani e dei pesci, Gesù ha scontentato la folla che voleva che egli diventasse il loro re, scontenta, scontenta i capi religiosi e scontenterà anche i suoi discepoli; alcuni addirittura lo abbandoneranno.
Allora i Giudei…: con la parola Giudei l’evangelista intende le autorità del popolo, …si misero a mormorare: questa mormorazione ricorda il popolo che aveva mormorato contro Mosè nel deserto. …contro di lui perché aveva detto: “io sono il pane disceso dal cielo”: l’affermazione “io sono” indica la rivendicazione del nome divino da parte di Gesù.
Perché i Giudei mormorano? I capi del popolo, cioè l’istituzione religiosa deve la sua esistenza alla distanza che è riuscita a stabilire tra Dio e gli uomini ed in questa distanza l’istituzione è importante perché ha la funzione di mediazione. Gesù invece è venuto ad eliminare questa distanza, ha portato Dio accanto agli uomini. Questo per i capi del popolo è intollerabile. Essi sapevano che era la Legge che scendeva dal cielo, non il pane, che è un alimento di vita. E per questo dicevano: “Costui non è forse Gesù il figlio di Giuseppe?”: che un uomo pretenda di avere la condizione divina è inammissibile, è una bestemmia: per le autorità religiose questo progetto di Dio sull’umanità è una bestemmia che merita la morte.
Gesù risponde loro “Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato: questo verbo “attirare” significa un’attrazione irresistibile: l’amore con il quale il Padre attrae e ama i suoi figli non ha limiti e non ha scadenze, e la morte – è a questo che Gesù vuole arrivare – non interrompe questo amore, ma lo rende ancora più forte, perché con la morte cadono le barriere che nell’uomo ostacolavano la ricezione di questo amore. L’amore di Dio è eterno come la vita che lui trasmette all’uomo.
E io lo risusciterò nell’ultimo giorno: la risurrezione per Gesù non è una data finale, ma fa parte dell’esistenza stessa di ogni individuo: come sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”: non c’è più da imparare, da apprendere dalla Legge, ma c’è da imparare, da apprendere un l’Amore e un modo d’amare.
E Gesù continua: In verità, in verità io vi dico: chi crede ha vita eterna: non c’è l’articolo determinativo, non è la vita eterna. Significa che non è un qualcosa di aggiunto, ma è la vita che per se stessa è già eterna per quanti hanno accolto Gesù come modello di comportamento.
E Gesù rivendica di nuovo la sua condizione divina: Io sono il pane della vita: e qui Gesù scontenterà anche i suoi discepoli perché mette proprio il dito sulla piaga del fallimento dell’esodo. Infatti Gesù polemicamente afferma: I vostri padri – Gesù dice volutamente “i vostri padri”; avrebbe dovuto dire “i nostri padri”, ma Gesù non segue le orme dei padri, egli segue il Padre e prende le distanze da loro; i vostri padri hanno mangiato la manna del deserto e sono morti. L’esodo è stato un fallimento: tutti quelli che hanno seguito Mosè nell’esodo sono tutti morti nel deserto e neanche Mosè è riuscito a entrare nella terra promessa. Sono entrati i loro figli, ma non i padri che sono usciti dall’Egitto. Quindi Gesù denuncia: l’esodo è stato un fallimento,.
Questo è il pane che discende dal cielo perché chi ne mangia non muoia: mangiare questo pane è assimilare la vita di Gesù e farsi pane per gli altri. Questo innesta nell’individuo un dinamismo d’amore che fa sì che la sua vita sia indiscutibile.
E Gesù continua insistendo: Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo: L’evangelista adopera proprio il termine “carne” che indica l’uomo nella sua debolezza. Questo significa che non ci sono doni di Dio che non passino attraverso la carne, cioè attraverso l’umanità. Sinteticamente possiamo dire: più ci si fa umani, più si diventa sensibili ai bisogni e alle sofferenze degli altri, più si è umani e più si manifesta il divino che è nelle persone.
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XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO B – 5 agosto 2018
Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi OSM
Gv 6, 24-35
Quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche (barchette) e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbi, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo».
Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».
Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”».
Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».
Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane!». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».
*
Con l’episodio della condivisione dei pani Gesù aveva voluto elevare la folla prima di tutto a livello di uomini, poi di persone adulte, di persone mature; ma la folla non ha voluto, ha preferito la sottomissione alla libertà che Gesù aveva loro proposto. Per questo voleva farlo re. E Gesù era scappato via.
Ora la folla lo rincorre, ne va in cerca: il verbo ‘ricercare’ nel vangelo di Giovanni è sempre per catturare, per uccidere. E infatti quando trovano Gesù si rivolgono a lui chiamandolo ‘Rabbi’. Rabbi è il maestro della Legge: non hanno compreso la novità che è proposta da Gesù, offrendo un rapporto con Dio completamente nuovo, basato non sull’obbedienza della Legge, ma sull’accoglienza del suo amore.
E qui inizia un dialogo tra sordi, un dialogo all’insegna dell’incomprensione, perché la folla chiede il pane per sé e Gesù li invitava a farsi pane per altri. Gesù dice: “voi mi cercate non perché avete visto dei segni ma perché avete mangiato e vi siete saziati”: avete preso il pane per voi, ma bisogna ricevere il pane per poi farsi pane per gli altri;
Noi abbiamo due aspetti: – la vita biologica, che deve essere costantemente nutrita – e la vita interiore, che per crescere deve nutrire gli altri. Allora Gesù dice: “datevi da fare per questo”. “Questo è il cibo che vi dà il Figlio e su di lui il Padre ha messo il suo sigillo”, cioè Gesù è la garanzia della presenza divina nell’umanità. Ed essi chiedono: “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”. Gesù risponde: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”.
Nell’Antico Testamento il termine ‘opera di Dio’ sta ad indicare le Tavole della Legge. Ma il rapporto con Dio non è più basato sull’osservanza della Legge, ma sull’accoglienza dell’amore di Gesù.
Ma la folla non comprende e chiede: “che segno compi perché vediamo e crediamo?”. Questo è tipico dell’esperienza religiosa: un segno da vedere per poter credere. E Gesù rifiuta di offrire un segno perché possano credere, non mostra un segno da vedere per credere, ma al contrario dice: “CREDI, E TU STESSO DIVENTERAI UN SEGNO CHE GLI ALTRI POSSONO VEDERE”.
La richiesta della folla richiama la preghiera del Padre Nostro che, nel vangelo di Giovanni non è presente, “Signore, dacci sempre di questo pane!”. Ecco, la folla è cresciuta, non lo chiama più Rabbi, colui che insegna la Legge, ma ‘Signore’: hanno capito che in Gesù c’è una realtà divina. Ed ecco la dichiarazione di Gesù: “Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete”. Gesù si presenta come la piena risposta alle esigenze della pienezza di vita.
Fratelli nostri che siete nel Primo Mondo:
affinché il suo nome non sia bestemmiato, affinché venga a noi il suo Regno
e si faccia la sua Volontà, non solo in cielo ma anche in terra,
rispettate il nostro pane quotidiano rinunciando al vostro sfruttamento quotidiano!
Non vi intestardite a ricevere da noi il debito che non abbiamo fatto e che continuano a pagare i nostri bambini, i nostri affamati, i nostri morti.
Non cadete più nella tentazione del lucro, del razzismo, della guerra;
noi faremo in modo da non cadere nella tentazione dell’ozio e della sottomissione.
E liberiamoci gli uni gli altri da ogni male!
Solo così potremo recitare insieme la preghiera di famiglia
che il fratello Gesù ci ha insegnato: Padre nostro – Madre nostra, che sei in cielo e che sei in terra.
don Paolo Farinella
Il vangelo riprende la seconda tappa del lungo discorso del pane che comprende tutto il capitolo sesto di Giovanni. Anche ad una lettura superficiale, chiunque può rendersi conto che qui non ci troviamo di fronte ad un discorso «storico» fatto da Gesù, ma ad una riflessione teologica sviluppata dalla comunità giovannea, ormai in avanzato stato di organizzazione e di sviluppo. In Gv il dato puramente storico si perde di fronte al significato che esso rivela. Cercare qui le parole di Gesù è quindi tempo perso. Gesù ha fatto la moltiplicazione dei pani (cf Gv 6,1-15), riscuotendo un immediato successo da parte della folla (cf Gv 6,22-25). Il brano di oggi mette le distanze tra il pensiero della folla che si accontenta di quello che vede, il pane materiale, il meraviglioso e l’atteggiamento di Gesù che invece si situa ad un livello interiore più profondo perché l’evangelista vuole, attraverso questo fatto, svelare la personalità di Gesù (Gv 7ì6,26-27). Il vero «fatto storico» che conta è seguire Gesù e la sua proposta di salvezza (cf Gv 6,28-29).
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XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – 29 LUGLIO 2018
DISTRIBUÌ A QUELLI CHE ERANO SEDUTI QUANTO NE VOLEVANO
COMMENTO AL VANGELO DI P. ALBERTO MAGGI OSM
(Gv 6,1-15)
(In quel tempo,)
Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzati gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?».
Rispose Gesù: «Fateli sedere! – letteralmente: fate adagiare questi uomini = antropoi – ». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere (=a distendersi) ed erano circa cinquemila uomini (andres=uomini in pienezza).
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.
(La conclusione nel Vangelo di Marco: “E dentro di sé erano fortemente meravigliati, 52perché non avevano compreso il fatto dei pani: il loro cuore era indurito”.)
*
L’episodio della condivisione dei pani dei pesci è riportato da tutti e quattro gli evangelisti. Qual è la sua importanza? In questa narrazione si anticipa e raffigura il significato dell’eucarestia. In particolare Giovanni ne fa il tema del capitolo sesto del suo vangelo, il più lungo, di ben 71 versetti.
Il contesto nel quale l’ambienta è quello del libro dell’Esodo e infatti troviamo il tema del mare, il tema del monte, il tema della Pasqua, il tema della tentazione e il tema del pane.
E, mentre nel deserto è stata la folla a dover chiedere a Dio di essere sfamata, qui è Gesù, che è Dio, che previene i desideri e i bisogni delle persone, ma i risultati sono deludenti.
Scrive l’evangelista che gli dice Andrea, fratello di Simon Pietro: c’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo: i cinque pani d’orzo ricordano il miracolo di Eliseo che con venti pani d’orzo sfamò cento persone e due pesci. Quindi cos’è questo per tanta gente?
Ed ecco le indicazioni preziose dell’evangelista: rispose Gesù: fateli sedere: letteralmente, ed è importante, fate sedere questi uomini. È importante il termine “uomo” adoperato dall’evangelista. E il verbo sedere, letteralmente è sdraiare.
Nel pranzo solenne, nel pranzo della Pasqua, nel pranzo delle persone delle case ricche si mangiava secondo l’uso greco-romano sdraiati. E chi poteva mangiare sdraiato? Chi aveva un servo che lo poteva servire. Ecco il primo significato dell’eucarestia: far sentire le persone dei signori, cioè pienamente liberi.
L’evangelista annota che c’era molta erba: è un richiamo al Salmo 72, i tempi del Messia sono i tempi dell’abbondanza; in quel luogo: il termine luogo Giovanni lo adopera sempre per il tempio. Qui indica il luogo dove risiede Gesù. Ma mentre nel tempio è l’uomo che deve offrire a Dio, qui è Dio che si offre all’uomo.
Si misero dunque a sedere, sdraiare, ed erano circa cinquemila uomini. Perché cinquemila? Perché indica il numero della prima comunità cristiana, secondo gli Atti degli Apostoli, ma soprattutto è un multiplo di cinquanta che indica l’azione dello Spirito, cinquanta in greco è “pentecoste”.
Qui l’evangelista per indicare gli uomini non adopera il termine che ha usato in precedenza “antropos”, ma “andres”, che significa uomini maturi. L’eucarestia rende le persone uomini maturi, uomini nella pienezza, cioè uomini liberi.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie: dal verbo ringraziare, rendere grazie, deriva il termine eucaristia, li diede a quelli che erano seduti: il termine seduti appare per la terza volta e Gesù omette un’azione molto importante: non richiede il lavaggio rituale delle mani. Non c’è bisogno di purificarsi per mangiare il pasto del Signore, ma è il pasto del Signore quello che purifica le persone.
E ne mangiarono quanto ne volevano: mentre la manna nel deserto era limitata ed era misurata, qui c’è l’abbondanza. Quando non si trattiene più per sé egoisticamente, ma si condivide generosamente con gli altri, c’è l’abbondanza. Infatti l’evangelista dice che riempirono dodici canestri perché, come le dodici tribù di Israele, così si può sfamare tutta quanta la nazione.
Purtroppo i partecipanti non hanno compreso. Infatti, scrive l’evangelista, allora la gente, ma letteralmente è gli uomini: Il racconto era iniziato indicando la folla come uomini, poi la partecipazione all’eucarestia li aveva resi uomini maturi: uomini adulti che ora tornano ad essere uomini. Perché? Non hanno capito, non accettano la condizione di uomini maturi, vogliono sottomettersi. Infatti, visto il gesto di Gesù dicono questo è davvero il profeta, quello che, secondo la linea di Mosè, doveva far osservare la legge, colui che viene nel mondo.
Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re – quindi vogliono l’obbedienza, vogliono la sottomissione, non vogliono la maturità e non vogliono la libertà – si ritirò di nuovo da solo sul monte. Come Mosè si ritirò sul monte dopo il tradimento del popolo che adorava un vitello d’oro, così Gesù si riunisce di nuovo da solo nel monte. La sottomissione, l’obbedienza per Gesù è uguale all’idolatria perché lui è il Dio che rende libere le persone.
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16° Domenica del Tempo Ordinario- B
22 LUGLIO 2018
Gesù è combattuto tra la necessità di aiutare i suoi discepoli ad accettare quanto sta insegnando e la comprensione per la stanchezza che è segnata sul loro volto.
Appare in primo piano la comprensione, guardando anche le folle che vede senza una vera guida… E per il momento lascia anche l’insegnamento ai suoi per far prevalere l’attenzione alla folla che è sfinita: la bontà è combattuta, ma è l’unica che trova spazio nel cuore dell’umanità!
La spiegazione di p. Alberto Maggi:
ERANO COME PECORE CHE NON HANNO PASTORE
Mc 6,30-34
(In quel tempo,)
Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato.
Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte.
Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
*
Nel capitolo 6 del vangelo di Marco al versetto 30 per l’unica volta nel vangelo appare il termine “apostoli”. “Apostoli” che non indica una funzione, ma un incarico, Gesù al versetto 7 li aveva inviati. Il verbo inviare nella lingua greca è apostello (fonetico) da cui il termine apostolo.
Allora gli apostoli si riunirono: anche qui è importante vedere la scelta del verbo adoperato dall’evangelista. Per riunire adopera il verbo synago (fonetico) da cui il termine evidente sinagoga, fa comprendere che l’annuncio di questi apostoli non corrisponde a quello di Gesù, ma è ancora condizionato dall’insegnamento della sinagoga, cioè un insegnamento religioso, nazionalista.
Quindi si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato, ma Gesù non li ha autorizzati a insegnare. Nel vangelo di Marco si distingue molto chiaramente tra due attività e due verbi:
il verbo insegnare, che significa annunciare il regno partendo da categorie dell’Antico Testamento, è esclusivo di Gesù quando parla per gli ebrei. Quando parla a folle miste non usa questo verbo; mentre per i discepoli l’evangelista aveva detto “Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare”.
Il verbo predicare significa annunciare il regno senza necessariamente farlo in base a categorie dell’Antico Testamento.
Ebbene qui i Dodici hanno insegnato, ma Gesù non li ha autorizzati e infatti la reazione di Gesù è negativa: ed egli disse loro: venite in disparte. È la seconda volta che nel vangelo di Marco appare questa frase tecnica, questa chiave di lettura “in disparte” che è sempre rivolta ai discepoli ed è sempre negativa: indica incomprensione. Quindi c’è un incomprensione tra Gesù e il suo gruppo, voi da soli, in un luogo deserto e riposatevi un po’: Gesù vede che questi discepoli sono presi dall’entusiasmo e li invita a calmarsi. Perché?
Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo da mangiare: all’insuccesso di Gesù nella sinagoga di Nazareth, un fiasco totale, un fallimento, fa contrasto il successo della predicazione degli apostoli. Evidentemente ciò significa che la predicazione degli apostoli non è la stessa di Gesù.
Allora andarono con la barca verso il luogo deserto : e l’evangelista sottolinea di nuovo in disparte, ma l’entusiasmo è grande. E molti però li videro partire e capirono e da tutte le città : le città significa luogo dove c’è una sinagoga, quindi è il frutto dell’insegnamento della sinagoga, accorsero là a piedi e li precedettero.
Sceso dalla barca: stranamente scende solo Gesù. Gesù si separa dai discepoli, non sono ancora in grado di entrare in contatto con le persone perché animati dai loro desideri di successo religioso, nazionalista, con una figura di messia che non corrisponde a Gesù. Allora scende solo Gesù dalla barca ed egli vide una grande folla ed ebbe compassione di loro: compassione è un atteggiamento divino con il quale si comunica vita a chi vita non ce l’ha, e qui c’è una citazione del libro dei Numeri, quando Mosè aveva chiesto al Signore di mettere dei capi del popolo affinché il popolo non sia come pecore che non hanno pastore: le pecore che non hanno pastore si disperdono. Quindi è una lamentazione di Gesù che richiama il monito che è già presente nel profeta Geremia: “Guai ai pastori che fanno perire e disperdere il gregge del mio pascolo”, oppure anche Ezechiele: “Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche e sono sbandate”.
Quindi Gesù ha compassione di questo popolo perché sono come pecore che non hanno pastore. In realtà li hanno i pastori, ce ne hanno anche troppi, solo che pensano a se stessi, non pensano all’interesse del popolo.
Allora Gesù si mise a insegnare : e quindi Gesù assume lui il ruolo del pastore, ma non con dottrine per dominare le persone, ma, come seguirà poi la narrazione evangelica, dando il pane: l’insegnamento di Gesù è alimento che comunica vita, che restituisce vita e che arricchisce la vita.
XV TEMPO ORDINARIO – 15 luglio 2018
PRESE A MANDARLI
Mc 6, 7-13
[In quel tempo,] Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.
Ernesto Balducci – ‘Il mandorla e il fuoco ‘ vol 2
La manifestazione dello Spirito è un aspetto – il principale – della nuova condizione in cui si trova Gesù dopo la risurrezione. La potenza con cui Dio attua la nuova creazione è la potenza dello Spirito di Gesù. Come ci è stato detto nella Lettera agli Efesini, la nostra fede non è soltanto sicurezza di una vita eterna dopo la morte, è pure consapevolezza di tutto il disegno nascosto fin dalla creazione del mondo.
Questo aspetto della fede come conoscenza del Piano di Dio non può sorgere in noi che come un senso di responsabilità nei confronti del mondo e nei confronti del Signore.
Se noi dicessimo che la fede ci è bastata soltanto ad aspettare l’incontro con Lui, dopo la morte, noi non coglieremmo il vero senso della fede. Infatti avere cognizione del disegno del Padre significa farsi carico dell’esistenza delle altre creature e del divenire di tutto il mondo.
La fede non si può disgiungere, dunque, da questa dimensione profetica. Uno degli effetti più negativi della vecchia educazione cristiana era la separazione della profezia a vantaggio della docilità verso l’istituzione. Si era prodotto un po’ quello che avvenne – secondo quanto ci racconta il primo brano della Scrittura di oggi – nel popolo di Israele al povero pastore Amos, il più povero dei profeti, un guardiano di bestie che Dio mandò ad annunciare ad Israele la sua volontà. Il sacerdote dell’istituzione (Amasia) lo diffida. Gli dice di andarsene altrove perché in quello spazio, che è il santuario del re, i profeti non parlano mai, ci sono i cappellani di corte. E Amos dovette andar via.
Potremmo dire che in questo diverbio viene figurata una lunga storia in cui i custodi dell’istituzione ecclesiastica (che, in qualche modo, se la intendono sempre con i re) han cacciato via i profeti inopportuni. Questo è il male della Chiesa. Non se ne può parlare applicandovi, in senso tollerante, le leggi della sociologia che ci dicono che l’istituzione e il carisma non vanno mai d’accordo, sono sempre in tensione tra loro. Questo è vero, ma non deve essere così, se è vero quanto ci viene insegnato dallo stesso magistero conciliare, che tutti i credenti sono profeti, che il popolo di Dio è un popolo profetico in tutti i suoi aspetti.
È questa l’esigenza strutturale della Chiesa del Signore. Se questa esigenza è sopraffatta da una logica temporale, per cui l’istituzione asseconda i richiami del potere e la profezia contesta questa deviazione incontrando l’emarginazione e la condanna, se questo avviene noi dobbiamo condannare questa prassi, non dobbiamo accettarla come se fosse giusta,
Lascio alla vostra coscienza l’identificazione concreta nel nostro tempo di questo dissidio fra i tutori dell’istituzione, succubi del potere politico, e i profeti che in nome del Vangelo vogliono parlare apertamente. È un dissidio doloroso che ci attraversa, che esige pazienza, certo, ma esige anche che non si smobiliti mai dalla nostra responsabilità. Se siamo battezzati, se abbiamo ricevuto – come dice Paolo – il sigillo dello Spirito Santo, allora la pretesa di parlare in nome del Vangelo non è un’arroganza: è la esecuzione di una responsabilità. Guai se noi tacciamo per una malintesa prudenza, per non disturbare l’istituzione. Chi crede – come chi è dominato da un forte amore – non può tacere. (…)!
Ora come può parlare di evangelizzazione una Chiesa che non riesce al suo interno ad abilitare alla Parola tutti i battezzati? La Parola del Signore la insegue: non devi avere né borsa né denaro, non devi salutare nessuno per la strada: va’ nella casa dell’uomo e annuncia la pace. Queste parole del Signore creano inquietudini nella Chiesa di oggi.
Questa lievitazione dello Spirito è abilitazione di tutti i credenti ad assumersi in proprio l’evangelizzazione del mondo. Si è mandati dallo Spirito Santo. Lo Spirito Santo – che abbiamo ricevuto – è sufficiente a darci il dovere e il diritto all’annuncio del Vangelo….
Al di là delle inevitabili proteste contro la condizione storica, noi dobbiamo prendere occasione da questa presa di contatto con la Parola di Dio per interrogarci sul modo con il quale ci facciamo responsabili del disegno del Padre. Passiamo momenti estremamente difficili, al riguardo. Dobbiamo aiutarci l’un l’altro con consiglio fraterno, ma anche con l’esortazione fraterna ed assumerci in proprio il compito di far sì che la Chiesa sia, nel mondo, senza potere. Non si tratta, in questo, di assecondare chissà quale spirito malefico del nostro tempo: si tratta di obbedire, soffrendo, all’imperativo del Vangelo. Se i profeti diventano cappellani di corte, il sistema cresce. Solo nella povertà e nella libertà – di cui la povertà è garanzia – abbiamo il segno della potenza di Dio…
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XIV TEMPO ORDINARIO – 8 luglio 2018
UN PROFETA NON E’ DISPREZZATO SE NON NELLA SUA PATRIA
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Mc 6, 1-6
[In quel tempo, Gesù]
venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?
Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Giuseppe, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua».
E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
*
In questo brano drammatico l’evangelista ci presenta la triste situazione del popolo sottomesso all’autorità. Il popolo non può permettersi di avere un’opinione propria, deve pensare esattamente quello che le autorità decidono che deve pensare: se le autorità dicono, impongono che quello che è bianco è nero, il popolo deve credere così. Questo è il peccato contro lo Spirito Santo.
Il Vangelo dice che “Gesù venne nella sua patria”: evita di parlare di Nazareth, perché il caso non è relegato al piccolo paese di Nazareth, ma si estende a tutta la nazione di Israele. Gesù “giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga”, è la seconda volta che Gesù insegna nella sinagoga.
La prima volta a Cafarnao l’esito era stato positivo, c’era stata la stessa reazione di qui, la gente è rimasta stupita, però s’era detto “questo sì che ha autorità” – cioè ha mandato divino – “non i nostri scribi” (Mc 1, 21-22). Quindi la prima volta la situazione era stata positiva.
Ma Gesù aveva gettato discredito sui teologi ufficiali, sugli scribi, che erano passati al contrattacco, avevano messo in guardia la gente: attenti a quest’uomo, a questo Gesù, perché è vero che vi guarisce, ma lo fa per infettarvi ancora di più, perché è uno stregone, agisce per opera di Beelzebùl, il principe dei demòni. E il popolo lo crede. Infatti qui la gente rimane stupita del suo insegnamento, ma non c’è una reazione positiva, e si chiedono “da dove gli vengano queste cose?”.
Non percepiscono in Gesù la condizione divina, perché gli scribi hanno detto che in Gesù c’è una condizione diabolica, loro devono credere quello che le autorità impongono di credere. E si stupiscono dei prodigi e dicono che “sono compiuti dalle sue mani”, come se Gesù fosse uno stregone. Evitano di nominare Gesù, si riferiscono a lui con profondo disprezzo: “Non è costui” – quindi evitano di pronunciare il nome e poi passano all’offesa, lo chiamano – “il figlio di Maria”.
Un figlio, nel mondo palestinese, veniva sempre chiamato con il nome del padre, anche quando il padre era defunto; il figlio conservava sempre il nome del padre. Quindi avrebbero dovuto dire: “non è il figlio di Giuseppe?”; ma ignorano Giuseppe. Dire che qualcuno è il figlio di una donna significa che la paternità è dubbia e incerta. Quindi passano alle offese e passano alla realtà, elencando i suoi parenti, fratelli e sorelle, cioè gli appartenenti al suo clan familiare e, conclude l’evangelista, che tutto questo per loro “era motivo di scandalo”.
Quindi la situazione del popolo è tremenda: pur avendo ascoltato l’insegnamento di Gesù, non ne percepiscono l’autorità divina perché le autorità religiose, per non andare contro il proprio interesse – loro sì che sanno che Gesù è di condizione divina, ma se lo riconoscono pérdono l’influsso e il prestigio sul popolo – hanno detto che Gesù opera per azione di Beelzebùl, il principe dei demòni.
E qui c’è la conclusione amara di Gesù che fa eco a quello che c’è scritto nel vangelo di Giovanni: “Egli venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11).
Gesù dice: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria”. E’ il destino dei profeti, in nome del Dio del passato le autorità religiose non riconoscono mai un Dio che si manifesta nel presente.
I profeti sono coloro che allargano lo spazio, dilatano la conoscenza di Dio, ma sono proprio le autorità religiose che, in nome della tradizione, non accolgono e non riconoscono questa novità.
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SS. TRINITA’- 27 maggio 2018
BATTEZZATE TUTTI I POPOLI
NEL NOME DEL PADRE, DEL FIGLIO E DELLO SPIRITO SANTO
Commento al Vangelo di p. Alberto MAGGI
Mt 28,16-20
[In quel tempo,]
gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.
Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato.
Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
*
La liturgia di oggi ci presenta la finale del Vangelo di Matteo, che al versetto 16 scrive “gli undici discepoli” – non sono più dodici, manca Giuda. Giuda ha scelto il denaro e il denaro lo ha distrutto, lo ha divorato, non ha scelto la beatitudine della povertà, cioè della condivisione solidale e continua, ma ha pensato soltanto al proprio interesse e chi pensa al proprio interesse si distrugge.
“Gli undici discepoli” – scrive l’evangelista – “intanto andarono in Galilea”. Per tre volte nel vangelo c’è l’invito di Gesù ad andare in Galilea dopo la sua risurrezione: Gesù non può essere sperimentato a Gerusalemme, la città santa e assassina; per sperimentarlo bisogna andare in Galilea – per tre volte nel Vangelo di Matteo c’è questo invito – “sul monte che Gesù aveva loro indicato”. Se per tre volte c’è l’invito ad andare in Galilea, mai appare in questi inviti, l’invito ad andare su “il monte” che Gesù ha indicato. Gesù non ha indicato nessun monte. E perché gli undici vanno non su “un monte” – la Galilea è una zona montagnosa, ci sono tanti monti – ma qui si dice “il monte”? Cosa vuol dire l’evangelista?
L’esperienza del Cristo risuscitato non è un privilegio concesso 2000 anni fa a un gruppo di persone, ma una possibilità per i credenti di tutti i tempi. E l’evangelista ce l’indica come? Per sperimentare il Cristo risuscitato bisogna andare in Galilea su “il monte”. Questa espressione con l’articolo determinativo, “il monte” (τὸ ὄρος), è apparsa al capitolo 5, quando Gesù proclama le beatitudini su “il monte”.
Allora l’evangelista vuol dire che situarsi in Galilea su il monte significa situarsi nel cuore del messaggio di Gesù, le beatitudini. Le beatitudini invitano l’uomo a orientare la propria esistenza al bene dell’altro. Chi orienta la propria vita al bene dell’altro sente dentro di sé una forza, un’energia tale di vita che gli fa sperimentare il Cristo risuscitato. Quindi questo è possibile a tutti.
Continua l’evangelista: “Quando lo videro…”: vedere, nella lingua greca, si può dire in diversi modi; qui l’evangelista non adopera il termine che indica la vista “fisica” ma la vista “interiore”. Questo vedere non riguarda la fede. Ed è lo stesso che nelle beatitudini. Nella beatitudine “Beati i puri di cuore”, Gesù aveva proclamato: “Beati i puri di cuore perché questi vedranno (ὄψονται) Dio” (cf Mt 5,8). Gesù non garantisce apparizioni o visioni, ma una profonda esperienza del Signore.
“… si prostrarono”: “prostrarsi” significa che riconoscono in Gesù qualcosa di diverso, vedono in Gesù la pienezza della condizione divina. Però stranamente, scrive l’evangelista che “essi dubitarono”. Ma di che cosa dubitano? Non che sia risuscitato, perché lo vedono! Non che in Gesù ci sia la condizione divina, perché si prostrano! Di che cosa dubitano allora? L’unica volta che c’è il verbo “dubitare” in questo Vangelo è al capitolo 14, quando Pietro pretese di camminare sulle acque – e questo significava avere la condizione divina – ma incominciò ad affogare. E Gesù lo rimproverò: “uomo di poca fede, perché dubitasti ?” (Mt 14,32). Allora in questo brano questa espressione “dubitare” dei discepoli si riferisce al fatto che anche loro pensano di avere la condizione divina, di arrivare alla condizione divina come Gesù, ma capiscono attraverso cosa è passato Gesù: l’ignominia della croce. Allora dubitano di se stessi, non sanno se saranno capaci anch’essi di affrontare la persecuzione, la sofferenza e il martirio per arrivare alla condizione divina.
Ebbene, nonostante questa loro esitazione, Gesù li manda: “andate e fate discepoli tutti i popoli” – il termine greco indica le nazioni pagane, quindi proprio quelle popolazioni che erano emarginate, quelle popolazioni che erano disprezzate, proprio queste sono oggetto dell’amore di Dio.
Ed ecco il comando di Gesù: “battezzandoli….” – non è un rito liturgico quello che Gesù chiede di fare. Il verbo “battezzare” significa “immergere, inzuppare, impregnare”. “…nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”: nel nome di qualcuno indica una realtà. Allora, è compito della comunità dei credenti di andare verso gli esclusi, verso gli emarginati, verso i rifiutati dalla religione e proprio a loro far fare una esperienza – di questo si tratta – della pienezza dell’amore del Padre, colui che dà la vita, del Figlio, colui nel quale questa vita si è pienamente realizzata, e dello Spirito, questa energia vitale.
“…Insegnando”: è la prima volta nel Vangelo di Matteo che Gesù autorizza i discepoli ad insegnare. Non li autorizza ad insegnare una dottrina, ma una pratica: infatti specifica: “…a praticare e ad osservare tutto ciò che io vi ho comandato”. E l’unica volta che appare che Gesù comand