Spiritualità

Stonehenge, (pietra sospesa, da stone, pietra, ed henge, che deriva da hang, sospendere: in riferimento agli architravi) è un sito neolitico sacro – dichiarato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità nel 1989 – che si trova vicino ad Amesbury nello WiltshireInghilterra. È composto da un insieme circolare di grosse pietre erette (60), conosciute come megaliti.

Recenti studi ne datano l’edificazione intorno al 3100 a.C. e vi attribuiscono il significato di un osservatorio astronomico luni-solare nel quale l’allineamento dei monoliti così come la direzione dei loro assi, corrispondeva ai momenti del solstizio e dell’equinozio.

Un monumento quindi, di straordinario valore simbolico a significare la primordiale e perenne ricerca dell’”UOMO” di qualcosa al di là del suo mondo terreno e ristretto, qualcosa che – da sempre – tendeva e tende verso l’alto, verso ciò che sta sopra e intorno a noi e che ci sfugge …

Singolare, caratteristico e fonte di riflessione, il fatto che – approssimativamente negli stessi anni, e cioè intorno a 3150 a.C,. – in Egitto veniva eretta la prima piramide, la piramide di SAQQARA: a tanti chilometri di distanza, quindi anche qui, l’”UOMO” era in ricerca di un qualcosa; e questa ricerca lo portava inevitabilmente a tendere verso l’alto …!


Papa Francesco indica l’ultima carta per cambiare il paradigma dell’umano

Raniero La Valle. Fratelli tutti. Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in un unico codice.
È una lettera sconcertante e potente questa che papa Francesco, facendosi “trasformare” dal dolore del mondo nei lunghi giorni della pandemia, ha scritto a una società che invece mira a costruirsi “voltando le spalle al dolore”.
Per questo la figura emblematica che fa l’identità di questa enciclica, prima ancora che quella di Francesco d’Assisi, è quella del Samaritano, che ci pone di fronte a una scelta stringente: davanti all’uomo ferito (e oggi sempre di più ci sono persone ferite, tutti i popoli sono feriti) ci sono solo tre possibilità: o noi siamo i briganti, e come tali armiamo la società dell’esclusione e dell’iniquità, o siamo quelli dell’indifferenza che passano oltre immersi nelle loro faccende e nelle loro religioni, o riconosciamo l’uomo caduto e ci facciamo carico del suo dolore: e dobbiamo farlo non solo con il nostro amore privato, ma col nostro amore politico, perché dobbiamo pure far sì che ci sia una locanda a cui affidare la vittima, e istituzioni che giungano là dove il denaro non compra e il mercato non arriva.
Ci si poteva chiedere che cosa avesse ancora da dire papa Francesco dopo sette anni di così eloquenti gesti e parole, cominciati a Lampedusa e culminati ad Abu Dhabi nell’incontro in cui si è proclamato con l’Islam che “se è uccisa una persona è uccisa l’umanità intera”, ragione per cui non sono più possibili né guerre né pena di morte.
E per Francesco neanche l’ergastolo, che “è una pena di morte nascosta”, e tanto meno le esecuzioni extragiudiziarie degli squadroni della morte e dei servizi segreti. Ebbene, la risposta sul perché dell’enciclica è che ormai non si tratta di operare qualche ritocco qua e là, ma si tratta di cambiare il paradigma dell’umano, che regge tutte le nostre culture e i nostri ordinamenti: si tratta di passare da una società di soci a una comunità di fratelli.
Perciò questa seconda lettera (l’altra è stata la Laudato sì, mentre la prima era in realtà di Ratzinger) non è un’enciclica sociale; solo una volta il papa si fa sfuggire di aver scritto un’”enciclica sociale”; in realtà essa non ha nessuna somiglianza con il “Compendio della dottrina sociale della Chiesa” fatto pubblicare nel 2004 da papa Wojtyla, in cui si pretendeva di definire per filo e per segno tutto ciò che si doveva fare nella società.
Questa invece è un’enciclica sull’amore perché passare da soci a figli vuol dire passare dalla ricerca dell’utile all’amore senza ragione: i migranti non si devono accogliere perché possono essere utili, ma perché sono persone, e i disabili e gli anziani non si devono scartare perché una società dello scarto è essa stessa inumana. Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, anzi di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in una sola proposta, in un unico codice.
È impressionante come papa Francesco lasci aperte sempre altre possibilità, altre considerazioni del reale, altre strade possibili, perfino dinanzi al peccato e all’errore; sempre è invocata la pluralità, mai il relativismo, sempre il gusto delle differenze, dell’inedito, del non ancora compreso; il poliedro, mai la torre di Babele, dalla pretesa unificante.
Ci vuole fantasia per costruire la società fraterna e non è facile passare dal “legame di coppia e di amicizia” all’accoglienza verso tutti e all’”amicizia sociale”. Alle volte sembra di leggere una lezione di laicità al mondo, alle culture fissiste, come il liberismo, che fa della proprietà privata, che è “un diritto secondario”, un valore primario e assoluto, mentre originario e prioritario è il diritto all’uso comune dei beni creati per tutti; come c’è una lezione al populismo e al nazionalismo, incapaci di farsi interpellare da ciò che è diverso, di aprirsi all’universalità, chiusi come sono nei loro angusti recinti come in “un museo folkloristico di eremiti localisti”; il male è che così si perdono proprio beni irrinunciabili come la libertà o la nazione: l’economia che si sostituisce alla politica non ha messo fine alla storia ma ruba la libertà; e con la demagogia il rischio è che si perda il concetto di popolo, “mito” e istituzione insieme, a cui non si può rinunciare perché altrimenti si rinuncia alla stessa democrazia.
La stessa fraternità, dice Francesco, va strutturata in un’organizzazione mondiale garantista ed efficiente, sotto “il dominio incontrastato del diritto”, anche se un progetto per lo sviluppo di tutta l’umanità “oggi suona come un delirio”.
Mentre l’enciclica si distribuiva in piazza san Pietro, nelle chiese si leggeva, tra le letture del giorno, questa frase del profeta Isaia: “Egli (il Signore) si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”. Sembrava un giudizio scritto per l’oggi, mentre Francesco è assediato, fin dentro al tempio, da mercanti e falsi difensori della fede.
È forse questo il segreto di questa enciclica: c’è, per un mondo malato, dove “tutto sembra dissolversi e perdere consistenza”, da giocare l’ultima carta, cambiare i soci in fratelli. Si potrà poi essere anche cattivi fratelli, incapaci di memoria, di pietà, di perdono, però tutti si riconosceranno investiti della infinita dignità dell’umano, questa verità che non muta, accessibile a tutti e obbligante per tutti.
Ma per essere fratelli ci vuole un padre. Perciò tutto il ministero di papa Francesco è volto a “narrare” al mondo la misericordia del Padre; lui che è il primo pastore della religione del Figlio, si mette nei panni del Figlio (com’è del resto suo compito) per ricuperare la religione del Padre, per dare agli uomini un Padre in cui si riconoscano finalmente fratelli. Una cosa così “religiosa” che la voleva perfino la Rivoluzione francese; solo che, dice ora papa Francesco, se la fraternità non si esercita veramente anche la libertà e l’uguaglianza sono perdute. E il mondo, ora, sarebbe perduto con loro.
(Pubblicato da IL MANIFESTO il 6.10.2020)


Messaggio del Santo Padre Francesco per la Giornata Missionaria Mondiale 2020 – ottobre 2020
…….
Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. […] In questo contesto, la chiamata alla missione, l’invito ad uscire da se stessi per amore di Dio e del prossimo si presenta come opportunità di condivisione, di servizio, di intercessione.
La Missione, da Gesù affidata alla Chiesa, non si ferma mai. “Battezzati e inviati: la Chiesa di Cristo è in missione nel Mondo”, anche quest’anno chiamati a dare una risposta concreta «Eccomi, manda me», così come rispose il profeta Isaia, per poter portare avanti la “missione”.
Dio, che ha “inviato” e sostenuto Gesù, è lo stesso che ci manda per il tramite del Suo Figlio e ci sostiene con la forza dello Spirito Santo: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20, 21). Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt. 28,18-20).
Ognuno di noi è inviato a portare l’amore di Dio a tutti e soprattutto ai più bisognosi. Questo significa fare la volontà di Dio ed agire secondo il piano divino di salvezza. Non dobbiamo avere paura!
«La missione che Dio affida a ciascuno fa passare dall’io pauroso e chiuso all’io ritrovato e rinnovato dal dono di sé».
Tutti noi battezzati abbiamo ricevuto in dono la forza dello Spirito Santo con il battesimo e pertanto siamo chiamati ad essere protagonisti di questa missione, dobbiamo rispondere con fermezza: «Eccomi, manda me» (Is 6, 8).
La missione va a toccare e trasformare tutti i settori e le aree della vita al fine di salvare l’umanità e il creato: le famiglie, posti di lavoro, fabbriche, scuole, la politica, l’ambiente ecc. Siamo invitati a rispondere alla chiamata di Dio, in maniera libera e consapevole e ad essere disponibili perché il Signore ci mandi. Questa è la missione.


CREDO DEI POPOLI TUTTI:
Credo in Dio, Padre e Madre,
cuore e creatore di una terra che ci fu tolta;
credo nel Dio della Vita, della Pace,
dell’Amore e della Giustizia,
che ci fece in Gesù, uomo sofferente,
appassionato, coinvolto, morto e risuscitato;
gloria e speranza dei poveri.
Credo in Gesù, fratello e figlio,
che si è fatto storia del popolo
e segna oggi i passi del nostro camminare.
Credo nello Spirito Santo di Dio,
vento nuovo che unifica le speranza dei popoli,
che crea e ricrea, che vivifica, che da creatività per vivere.
Credo in Maria, madre che da alla luce la Vita
con dolore e speranza
perché ci sia vita nuova e piena per tutti.
Credo nei popoli crocifissi,
nei poveri come corpo torturato di Gesù.
Credo nel popolo, che ha nome e cognome,
che vive e celebra la sua fede,
nei volti sofferenti e luminosi,
nella sua organizzazione e nel suo spirito comunitario,
nelle sue lotte, semi di libertà.
Credo nella fraternità dell’indio, del contadino,
dell’emarginato, del rifugiato, del nero,
del giovane, dell’uomo, della donna …
di tutti i poveri della Terra.
Credo nella solidarietà dei popoli,
espressione della forza e della tenerezza di Dio.
Credo nella risurrezione dei nostri popoli
e nell’unico popolo che saremo
quando celebreremo insieme la vittoria finale
nel Regno di Dio per i secoli dei secoli. Amen
Pedro Casaldaliga

Pedro Casaldáliga, morto venerdì 7 agosto 2020 a 92 anni.
Nato in Catalogna, religioso clarettiano, vescovo di São Félix do Araguaia (Mato Grosso) dal 1970 al 2005, è stato uno degli interpreti più liberi del concilio Vaticano II in America Latina, incarnando in modo radicale l’opzione per i poveri.


NON FARE PER GLI ALTRI MA ESSERE L’ALTRO
18 GIUGNO 2020 – RANIERO LA VALLE
Relazione tenuta da Raniero La Valle il 29 aprile 2019 alle giornate di studio sul volontariato dell’Associazione “Luciano Tavazza” sul tema “La solidarietà è reato? Le nuove profezie del volontariato”.
Per far fronte alle “Nuove esigenze del Volontariato e della Solidarietà” è necessario passare dal pensiero della sussidiarietà al pensiero della sostituzione. Non basta supplire alle esigenze dell’altro, occorre scambiarsi con gli altri, occorre far proprie le loro sofferenze, lenirle e curarle. Questa è una lettura messianica della crisi.

Cari amici,
mi avete affidato l’introduzione ai vostri lavori. Io rispondo subito alla domanda che avete messo per titolo a queste giornate di studio:
la solidarietà è un reato?
La risposta è: sì, è un reato.
Ve lo faccio dire da un grande giurista che abbiamo interrogato poche settimane fa, in una nostra assemblea ecclesiale, riunitasi il 6 aprile scorso a Roma sotto il nome di “Chiesa di tutti Chiesa dei Poveri”. Questa assemblea, sentendo il grido dei poveri, delle vittime, dei migranti, dei naufraghi, dei popoli straziati da poteri iniqui, si era riunita per chiedersi: “che cosa ci sta succedendo?”, e voleva “nominare” le cose che accadono, perché dare un nome alle cose è la prima cosa da fare, per capirle, per dare una risposta. Di fronte ai mali che ci opprimono la prima cosa da fare è un’operazione di verità.
E la seconda cosa che ha voluto fare questa assemblea è stata di tentare una lettura messianica della crisi. Vedo che anche voi alle conclusioni di queste giornate farete ricorso a un appiglio messianico perché la fraternità possa essere osata.
Ebbene il giurista che abbiamo tra gli altri interrogato è un grande filosofo del diritto, dello Stato di diritto, un giurista che ha dedicato una vita al concepimento e alla realizzazione di un “diritto mite”. Questo grande giurista è Luigi Ferrajoli, ben conosciuto all’estero, ma che naturalmente in Italia il sistema mediatico ignora.
La diagnosi del giurista
E il giurista ha detto il nome che bisogna dare alle politiche che oggi sono in atto. “Sono reati – ha detto – si tratta di crimini, si tratta di crimini di sistema, si tratta di politiche che vanno rinominate come in contrasto con la Costituzione e in molti casi anche con il codice penale”. Il riferimento specifico era alla politica adottata contro i migranti e gli stranieri.
“Una politica illegale” l’ha chiamata. Ed ha spiegato: “Certamente questo governo e in particolare il ministro dell’interno Salvini non hanno inaugurato, ma hanno solo proseguito le politiche e le pratiche contro gli immigrati del precedente ministro Minniti e quelle degli altri governi europei. Ci sono però due gravissime differenze qualitative nell’operato di questo governo rispetto a quello dei governi passati o a quello ad esempio di Macron.
“La prima differenza consiste nel fatto che il consenso popolare viene perseguito attraverso politiche e pratiche consistenti in aperte violazioni dei diritti umani, e talora in veri e propri reati che comportano lesioni massicce dei diritti delle persone. Si pensi alla preordinata omissione di soccorso, alla chiusura dei porti e allo spettacolo penoso dapprima dell’Aquarius e della Diciotti e poi della Sea-Watch lasciate vagare in mare o impedite all’approdo con i loro carichi sofferenti di centinaia di persone, in tal modo private della libertà. Il ministro Salvini ha non solo commesso, ma ha anche rivendicato il reato di sequestro di persona contestatogli dalla Procura di Agrigento per il quale era stata chiesta l’autorizzazione a procedere. Con la cosiddetta ‘chiusura dei porti’ – misura informale equivalente di fatto a un provvedimento discriminatorio, perché adottato unicamente nei confronti delle navi recanti a bordo migranti – e più in generale con le diffide contro chi tenta di approdare in Italia, sono state inoltre violate una lunga serie di norme di diritto interno e di diritto internazionale: dalle norme penali sull’omissione di soccorso alla Convenzione di Amburgo del 1979 che impone di portare i naufraghi in un ‘porto sicuro’, al Testo Unico sull’immigrazione del 1998 che vieta i respingimenti di quanti intendono chiedere asilo, nonché dei minori non accompagnati e delle donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi al parto, fino al principio elementare del diritto del mare, oltre che delle tradizioni marinare di tutti i Paesi civili, che chi rischia la vita in mare deve essere comunque salvato”.
Questa è la prima differenza.
“La seconda differenza delle politiche di questo governo contro i migranti rispetto a quelle messe in atto dai Minniti e dai Macron consiste nel fatto che la violazione dei diritti umani, mentre prima era occultata, viene ora sbandierata come fonte di consenso. Di qui il veleno distruttivo immesso nella società italiana. Alimentare e amplificare la xenofobia produce due effetti distruttivi sui presupposti stessi della democrazia.
“Il primo effetto è l’abbassamento dello spirito pubblico e del senso morale nella cultura di massa. Quando l’indifferenza per le sofferenze e per i morti, la disumanità e l’immoralità di formule come ’prima gli italiani’ o ‘la pacchia è finita’ a sostegno dell’omissione di soccorso sono praticate e ostentate dalle istituzioni, esse non soltanto sono legittimate, ma sono anche assecondate e alimentate. Diventano contagiose e si normalizzano, diventano mentalità diffusa.
Queste politiche crudeli stanno avvelenando e incattivendo la società, in Italia e in Europa. Stanno seminando la paura e l’odio per i diversi. Stanno logorando i legami sociali. Stanno screditando, con la diffamazione di quanti salvano vite umane, la pratica elementare del soccorso di chi è in pericolo di vita. Stanno fascistizzando il senso comune. Stanno svalutando i normali sentimenti di umanità e solidarietà che formano il presupposto elementare della democrazia”. Così Ferrajoli.
Ritorno a una visione arcaica della giustizia
E un altro magistrato, la Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma e segretaria di Magistratura Democratica, Mariarosaria Guglielmi, ha allargato il quadro oltre la questione dei migranti e ha detto:
“Abbiamo in pochi mesi e con pochi gesti annientato intere esperienze di integrazione e di inclusione e distrutto intere comunità cresciute intorno al valore dell’accoglienza. Abbiamo privato persone di diritti, non per quello che fanno, ma perché diverso dal nostro è il Paese dove sono nate e dal quale sono state costrette a fuggire.
“Stiamo cambiando l’idea di giustizia che nella visione del radicalismo vincente si avvicina sempre più all’idea di vendetta per i torti subiti.
“I giudici, che intendono restare dalla parte dei diritti e della garanzie, oggi devono temere l’ira dei giusti.”

Il cosiddetto decreto Salvini è il manifesto di questo nuovo corso. Ma le direttrici lungo le quali si muove la politica penale del governo non sono certamente inedite. Le continue torsioni e deformazioni subite dal diritto penale in questi anni hanno prodotto una dilatazione irrazionale dello strumento repressivo; si moltiplicano le leggi d’eccezione, si ricorre all’uso demagogico della norma penale che alimenta l’illusione repressiva aumentando la paura e criminalizzando le persone in luogo dei comportamenti.
Ha detto la magistrata della Procura di Roma:
Individuando il nemico contro cui dirigerla, il decreto sicurezza segna un salto di qualità anche in questa direzione. L’aumento abnorme di pene (per il reato di invasione o occupazione di terreni o edifici ), il ripristino come reati di fattispecie che non erano più considerate tali (‘l’esercizio abusivo dell’attività di parcheggiatore o guardamacchine’, l’ ‘esercizio molesto dell’accattonaggio’ che recupera la mendicità invasiva depenalizzata nel 1999) la criminalizzazione di condotte in ragione del loro autore (poveri, migranti) o di fenomeni oggi spesso riconducibili a contesti di marginalità, sono espressione di una nuova politica penale autoritaria che enfatizza le esigenze di ordine e di sicurezza, e torna ad investire sulla repressione massima come strumento di governo della società e di esclusione dalla società di soggetti marginali all’insegna di un’antropologia razzista della disuguaglianza.
“Torniamo poi – ha detto la magistrata della Procura di Roma – ad una visione arcaica e primitiva della pena: è l’afflizione che merita chi ha sbagliato, e che per questo deve tornare a pagare; ed è l’afflizione massima, che non ammette la prospettiva di recupero né di reinserimento. La certezza della pena diventa certezza del carcere. Si abbandona ogni prospettiva di una giustizia riparativa, di strumenti di riconciliazione, perché considerati contrari alle esigenze di tutela della collettività. La risposta al reato è e può essere solo una ritorsione, e una sanzione che ne riproduce in senso analogico la negatività, il suo essere male.
“Il processo penale si allontana dal suo paradigma garantista. E un’idea altrettanto arcaica di giustizia come vendetta privata ispira la nuova disciplina della legittima difesa. Una riforma ‘manifesto’, con gravissime implicazioni sul piano culturale come su quello giuridico: anteporre l’inviolabilità del domicilio alla tutela incondizionata della vita umana significa consumare un ulteriore strappo con il sistema dei valori della nostra Costituzione.
Di pari passo con le nuove disposizioni sulla legittima difesa, è stato approvato il decreto legislativo 10 agosto 2018 n. 104, che ha recepito con particolare rapidità una direttiva sulla quale altri Paesi europei si sono mostrati più prudenti, ampliando la platea dei detentori delle armi demilitarizzate e aumentando il numero delle armi e delle munizioni detenibili”. E infatti la gente ha ricominciato a sparare.
Così dicono i giudici. Sono cose che penso anch’io, ma ho preferito dirvele con queste parole autorevoli che sono state pronunciate e condivise in un’assemblea ecclesiale.
Una crisi storica
Ma non c’è solo tutto questo che riguarda il diritto e le leggi. Ci sarebbero molte altre cose da dire sulla crisi che stiamo vivendo. Noi ci stiamo rendendo conto che tra la fine del Novecento e l’inizio di questo secolo, in questo passaggio dal secondo al terzo millennio si è aperta una crisi storica che investe lo stesso stare dell’uomo sulla terra, i suoi rapporti politici, economici, sociali; una crisi che con il dissesto climatico e le catastrofi naturali mette in discussione perfino la salvaguardia del creato e la continuità della storia. E mentre la tecnologia celebra i suoi trionfi e pretende di programmare l’uomo perfetto, accade che l’uomo potenziato, efficiente, che con la sua intelligenza artificiale sempre più estenderà il suo dominio, l’attuale uomo di carne sta devastando la terra, sta facendo guerre su guerre, alza muri e schiera atomiche e droni, mette tutte le ricchezze in poche mani e vende i poveri per un paio di sandali (Amos 2,6), anzi di infradito; il potere incontrollato, perché sottratto a limiti e garanzie, spezza l’unità delle persone, se ne appropria, le sfrutta, le inganna, pensa solo al proprio interesse e fonda la grande corruzione.
Noi stessi non riconosciamo più il mondo in cui abbiamo vissuto, e mentre la globalizzazione tutto unisce, e uniforma lingue, culture e commerci, mai i popoli sono stati più frantumati e divisi, carne spezzata per il sacrificio, ma non destinata a generare comunione. Perciò, prima di affrontare le singole questioni del rinnovamento del volontariato, come voi farete in queste giornate, io vorrei chiedermi se in questo passaggio d’epoca non andrebbe ripensato il suo stesso fondamento.
Il principio della sussidiarietà, della supplenza
Il volontariato, come lo abbiamo concepito fin qui, è stato ispirato al principio della sussidiarietà.
Si tratta di supplire a ciò che manca, a ciò che non è stato fatto, a ciò a cui non si è provveduto nei confronti di qualcun altro. Come spiegava la sussidiarietà Pio XI nella Quadragesimo Anno, si trattava di “aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale”: suppletiva, cioè subsidium, cioè sussidiarietà.
Poi si potevano guardare le cose da una parte o dall’altra, e dire che lo Stato doveva supplire a quello che già non facevano i corpi intermedi e i privati, oppure si poteva dire che erano i privati e le organizzazioni sociali che dovevano supplire a quello che non faceva lo Stato, ma in ogni caso si trattava di supplire a ciò che l’altro non faceva.
Del resto, prima ancora che fosse inventata la sussidiarietà, essa era praticata di fatto: gli antichi sovrani della Mesopotamia, come ad Ur dei Caldei, come con il codice di Hammurabi, supplivano con la loro forza alla debolezza del debole, si proclamavano padre dell’orfano, marito della vedova. Il samaritano del Vangelo supplisce all’inerzia del sacerdote e del levita, soccorrendo la vittima; la peccatrice supplisce all’aridità del fariseo che non ha dato a Gesù l’acqua per i piedi, non lo ha baciato, non gli ha cosparso il capo di olio profumato; Maria di Magdala supplisce all’ignavia di Pietro e dei discepoli e si reca di buon mattino al sepolcro; poi sarà la Chiesa a supplire alle necessità sociali istituendo ospedali e manicomi; nel Novecento sarà lo Stato sociale a supplire alla mancanza di risorse dei cittadini per soddisfare i loro bisogni fondamentali di salute, di istruzione, di lavoro, di previdenza, mentre tutto il volontariato, le Misericordie, le Caritas, i centri sociali suppliscono ai limiti e alle inadempienze dello Stato sociale per rispondere ai bisogni delle persone in difficoltà.
C’è poi tutta una discussione ideologica e politica se debba prevalere la sussidiarietà dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto, si può essere liberali o socialisti, ma ciò che è in gioco è l’efficacia dell’intervento; qualcuno dice che lo Stato sociale funziona meglio se è gestito dai privati e dal mercato, qualcuno rivendica il primato e l’insostituibilità della mano pubblica; in ogni caso però c’è una distanza, una netta alterità tra chi esercita la sussidiarietà, chi provvede con il suo intervento alle necessità altrui e i destinatari di tale intervento; c’è una estraneità, anzi spesso i beneficiari, i prescelti per godere della solidarietà, i fruitori dell’intervento pubblico sono visti con sospetto, sono additati come potenziali profittatori o fannulloni, basta vedere la marea di restrizioni e prevenzioni da cui sono investiti i futuri eventuali percettori del reddito di cittadinanza.

Ma almeno la solidarietà è ammessa.
Ma che succede se questo meccanismo della sussidiarietà si blocca, se il privato sociale viene osteggiato, vilipeso, se le navi delle ONG sono fermate e sequestrate, se i volontari sono messi sotto accusa, se la solidarietà diventa un reato?
Certo, tutto questo va combattuto in sede politica, va condannato in sede morale, va sventato anche con sante disobbedienze e obiezioni di coscienza. Ma basta questo per abbattere l’ostacolo? Sono sufficienti in questa nuova sfida le motivazioni di ieri, i valori tradizionali, le suggestioni della dottrina sociale cristiana, sono sufficienti per raggiungere ugualmente l’Altro in tempi di proibizionismo, per mettere la propria vita al servizio degli altri, per esercitare la solidarietà quando la solidarietà è proibita come reato?
Io qui mi avventuro su un terreno difficile perché io non ho frequentato il mondo del volontariato, sono stato piuttosto un uomo delle istituzioni, ho lavorato per concorrere a far sì che le istituzioni adempissero ai loro doveri di solidarietà verso tutte le persone, che fosse la Chiesa quando ero direttore di un giornale cattolico, che fosse lo Stato quando ero in Parlamento e facevamo la legge sulla tutela sociale della maternità, la 194, o la riforma Basaglia sui manicomi, o la riforma Gozzini sulle carceri.
Dunque può darsi che voi, ben più di me sappiate perfettamente cosa dovete fare per tenere in vita il volontariato e rilanciare la solidarietà in tempi di proibizionismo, in tempi in cui la bontà è bollata come “buonismo”, in tempi in cui gli Altri sono percepiti come una minaccia, come degli intrusi da respingere e da cui difendersi.
Un salto di qualità nella risposta alla crisi
Io credo che qui ci vuole un salto di qualità; e a suggerirlo è proprio una lettura della crisi attuale non solo come di una crisi morale e politica, ma come di una crisi messianica.
La chiamiamo crisi messianica perché i beni che abbiamo perduto o che non riusciamo a conseguire sono così importanti per noi che fin dalle profondità della storia furono considerati beni messianici – la pace, la giustizia, la libertà, il lavoro e il riposo, l’unità umana – e furono oggetto di promesse messianiche.
Perciò nell’assemblea recente di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”, abbiamo posto il problema di una lettura messianica della crisi. Siamo stati spinti a farlo anche perché questa ci sembra la prospettiva che apre alla Chiesa e al mondo un pontificato messianico come quello di papa Francesco, che per questo è così osteggiato e schiaffeggiato, ed ha così bisogno che si preghi per lui.
Riaprire la questione messianica non vuol dire riaprire una questione religiosa, quando sono finiti i messianismi ideologici e politici del Novecento, e il nuovo messianismo del capitalismo realizzato sta spiantando la terra. E non ci sono da aspettarsi altri Messia.
Riaprire la questione messianica vuol dire però riaprire la questione del cristianesimo, nel quale si è riversato il messianismo nato in Israele in forza del fatto che Gesù è stato riconosciuto dai discepoli come Messia; e vuol dire chiedersi se dopo di lui c’è un messia che rimane, che è ancora tra noi.
Nella nostra assemblea il teologo Giuseppe Ruggieri ha spiegato che Gesù è stato chiamato Cristo, cioè messia, perché, come il servo sofferente di Isaia, era stato annunciato come colui che avrebbe preso su di sé la sofferenza del mondo. La novità messianica è che la sofferenza umana è portata dentro Dio stesso, che patisce e muore nel crocefisso: “Unus de Trinitate passus est”, uno della Trinità ha patito, come dice il Concilio costantinopolitano nel VI secolo; la sofferenza entra in Dio che “si scambia” con l’uomo prendendo su di sé il suo dolore. Di conseguenza l’essenza del messianismo cristiano consiste nella partecipazione al dolore dell’altro, nel partire non da sé ma dall’altro. Questa è la “teologia dello scambio”, quel “ministero dello scambio” in cui consiste, come ha spiegato Giuseppe Ruggieri in quell’incontro romano, “l’essere messianico”: Dio ci ha scambiato con se stesso in Gesù Cristo e Gesù, che non conosceva peccato, è stato fatto addirittura peccato da Dio, scambiato con l’uomo peccatore, sostituito a noi, e noi stessi abbiamo ricevuto la missione dello scambio, cioè della sostituzione nel portare il peso gli uni degli altri. È ciò che dice Paolo nella seconda lettera ai Corinti (5, 17-21), stando a una traduzione più fedele della parola greca “katallagé” non come “riconciliazione” ma come “scambio”.
Scambiarsi con l’altro
Ma questo vuol dire allora riconoscere nella sofferenza lo strato più profondo dell’umano, che richiede una solidarietà assoluta, senza condizioni. A questo siamo chiamati proprio oggi, quando non c’è un’uscita puramente politica dalla crisi, né essa può stare in qualsiasi ideologia religiosa, dottrina sociale o partito cattolico; l’uscita dalla crisi sta primariamente nell’assumere la sofferenza dell’altro e da questo dolore farsi dettare la prassi adeguata a un processo di liberazione e di salvezza.
Ma allora, venendo sul terreno del volontariato, della solidarietà, ciò vuol dire che nelle nuove condizioni in cui il mondo mira a impedirli, per sussistere e crescere essi devono passare dal pensiero della sussidiarietà al pensiero della sostituzione. Non basta supplire alle esigenze dell’altro, occorre mettersi al suo posto, occorre scambiarsi con gli altri, far proprie le loro sofferenze, lenirle e curarle. È quello che dice papa Francesco quando rinomina la Chiesa come ospedale da campo. Ed è anche quello che dice la filosofia contemporanea quando, a partire dall’ebreo Emmanuel Lévinas, non mette più al centro di tutto l’Essere e l’Io, che hanno portato alle derive totalitarie del XX secolo, ma mette al centro di tutto l’Altro e il suo volto, un volto da riconoscere, da accettare, da carezzare, da amare.
Questo è l’annuncio cristiano per il mondo secolarizzato. Non partire dall’io, ma partire dall’altro, non voler realizzarsi nell’autoaffermazione di sé ma nell’incontro con l’altro. La sofferenza dell’altro diventa così il criterio primario che deve spingere la mia coscienza ad agire, mi deve rendere responsabile. Come dice Giobbe “all’uomo sfinito è dovuta pietà dagli amici, anche se si fosse allontanato dal timore di Dio” (6, 14). Davanti all’uomo sfinito non c’è religione, non c’è nulla, c’è semplicemente da rendersi vicini a lui, con pietà, solidarietà, misericordia. La sofferenza per il vangelo è più di un sacramento. Come dice papa Francesco nella Evangeli Gaudium è la stessa “carne sofferente di Cristo nel popolo”.
Mettersi al posto dell’altro, partecipando alle sue sofferenze, è una risposta invincibile alla sfida. Infatti non si tratta di fare qualcosa per l’altro, ma essere l’altro. Essere il barbone che muore di freddo in via Ottaviano, essere il disoccupato che per protesta sale sul più alto traliccio, essere il profugo, il naufrago, lo straniero, essere la donna che sul barcone non può partorire perché non c’è lo spazio per allargare le gambe.
Il potere questo scambio non lo può interdire, nulla ci può fare il potere che non vuole scambiarsi con l’altro, ma scartarlo ed escluderlo.
La comunità umana, il messia che rimane
Tuttavia questo scambio con il bisogno dell’altro, perché nessuno sia abbandonato, non lo può fare ciascuno da solo. Questo lo possiamo fare unicamente tutti insieme. E questa, come diceva don Milani, è la politica. Allora la politica non può essere più la lotta di ciascuno per sé, la gara a chi vince e chi è perduto tra amico e nemico, ciò in cui sta la divisione congenita e perciò la menzogna della politica. Bisogna venire alla verità della politica. Purtroppo, da una lunga esperienza storica abbiamo appreso che il potere e la verità non viaggiano insieme, sono in conflitto ed estranei tra loro, e perciò il potere è spesso omicida. Ma il paradosso, o il dover essere, è quello che irrompe nella risposta di Gesù a Pilato: il re è colui che rende testimonianza alla verità. Chi l’avrebbe mai detto? Ma è per questo che Gesù dice “io sono re” e annuncia un mondo in cui il regno sia invece secondo verità. Ma che cos’è la verità?
Nella recente assemblea romana è stato detto, ancora da Ruggieri, che la menzogna, radice di ogni violenza, è dare un nome a partire da me, da ciò che è mio, come dice il diavolo nel vangelo di Giovanni (Giov. 8, 43-44) mentre la verità è dare un nome a partire dall’altro. Allora la politica è secondo verità se parte dagli altri, se assume la sofferenza umana a partire da quelli che nelle Beatitudini sono chiamati beati: i poveri, gli oppressi, i piangenti, gli stranieri, i perseguitati, i curvati. Ciò non si può fare tra gli osanna (i consensi, i sondaggi…). La politica invece è offrirsi in sacrificio per gli altri. Come dice René Girard, in ogni intronizzazione c’è in qualche modo la premonizione di un sacrificio. Per molti è stato così. Per Moro è stato così. Per Allende è stato così, e così è stato per Romero, per gli uccisi di tutte le Resistenze.
E qui forse sta l’incrocio tra il volontariato e la politica, qui stanno le nuove profezie del volontariato e della politica, qui sta la chiave di quel volontariato politico che sta nel programma di queste giornate.
Certo questa è una politica in cerca d’autore. Ma se andiamo fino in fondo nella nostra ipotesi o lettura messianica, forse possiamo dire che l’autore di questa politica non sarà questo o quel partito, questo o quello Stato, ma sarà la comunità umana tutta intera. Essa, costituita in comunità politica, dovrà essere il soggetto costituente del nuovo ordine mondiale, e dovrà fare dei diritti che sono oggi negati, dal diritto di migrare al diritto al lavoro, il potere costituente di una nuova comunità internazionale fondata sull’eguaglianza e la pari dignità di tutti gli esseri umani.
Sarebbe allora questa comunità umana universale a raccogliere l’eredità delle promesse messianiche, rivelandosi perciò come una comunità regale, ministeriale e profetica, secondo l’annuncio evangelico; sarebbe questa ”il messia che rimane” come il misterioso “discepolo che rimane” di cui Gesù ha detto a Pietro, nell’ultima pagina del vangelo di Giovanni: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?”. E la politica di questo nuovo soggetto universale sarebbe allora quella per cui milioni di uomini e di donne prenderanno su di sé la sofferenza di tutti e, ognuno con le sue bandiere, con i suoi compagni di strada, i suoi ciclostili e gli altri strumenti di lotta, appronteranno i rimedi a questa sofferenza, elaboreranno il pensiero della nuova società e costruiranno pietra su pietra la nuova agognata casa comune in cui abiti la giustizia e di cui sia custode la pace.
Raniero La Valle

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Io credo” è stato il programma di M. Pozza e A. Salvadore andato in onda da lunedì 17 febbraio (21.05) su TV2000 per  otto puntate.

Ospite fisso è stato papa Francesco

Il programma è stato presentato con questa riflessione.

L’evidenza è che, sotto sotto, tutti credono: sarà mai possibile immaginare un’esistenza senza un credo

Il fatto, buffo ed eccelso, è che tutto dipenderà da che cosa si crede, a chi uno decide di affidare la propria vita: non può esistere persona che non abbia una visione della propria esistenza. “Se l’uomo vive – è una delle espressioni di Tolstoj – significa che in qualcosa crede. Se non credesse che bisogna vivere per qualcosa, non vivrebbe”. 

Ereditiamo la fede, sovente, come si eredita un terreno, un casato, un titolo nobiliare, dei libri, il denaro. 

Una fede ereditaria perché diventi di proprietà, però, sarà necessario rimetterla in gioco, per poter dire un giorno di possederla. Il che è la parte più difficile, quella sempre a rischio di fallimento: basterà, certe volte, un solo minuto di speranza per oscurare ventiquattro ore di dubbi.

 “Senza fede, dunque, non si vive?”, obietterà qualcuno. 

Si può anche non credere a niente, a nessuno, ma ci sono dei momenti nella vita in cui si è disposti a pregare il dio del primo capitello che incontriamo per strada. 

Non è vero, dunque, che chi non crede in Dio crede nel suo opposto: è vero, invece, che sarà disposto a credere un po’ a tutto quello che gli diranno. Si fiderà e affiderà a tutto quello che gli si affaccerà di fronte. All’ultimo, senza tempo di rifletterci. 

L’alternativa, riflette ancora Tolstoj, è chiara: “Se (l’uomo) non vede e non capisce l’illusorietà del finito, egli crede in questo finito; se capisce l’illusorietà del finito, egli deve credere nell’infinito”. Dunque? “Senza la fede non si può vivere” è la sua conclusione. 

Oggi che il cristianesimo sta tornando ad essere minoranza, la cosa bella è l’opportunità che ne scaturisce: testimoniare una fede vissuta nella libertà, per amore; non per caso o per necessità. 

Io credo, dunque! Credo nella vita, la qual cosa è già una grande cosa: la vita è il dono che Dio ci ha fatto, il modo in cui la viviamo è il dono che noi rivolgiamo a Dio. 

E di fronte all’assurdo di certe giornate, continuo a sfidare l’assurdo per andare a snidare il senso nascosto. Diceva p. Mazzolari: “Chi crede sa che il deserto può fiorire in una notte”. Arrendersi, in quel caso, significherebbe rischiare di farlo magari un’ora prima del miracolo. 

La fede che non dubita, però, non è vera fede: il dubbio, in certi frangenti della vita, è un antidoto all’abitudine, la vera morte di ogni credo. Ed è nel punto in cui la speranza rischia di mutarsi in disperazione che nasce la fede. 

Il Credo in un’epoca distratta: “non c’è più fede!”, dice qualcuno allargando le braccia. Ma per chi l’ha avuta in dono, non si perde. Piuttosto la cosa più triste è che la fede cessi di plasmare la vita: un peso, forse, ma che ricorda la leggerezza di un dono sempre passibile d’essere ritrovato.

È passato il tempo dell’arroganza cristiana: sembra questo il lascito in diretta di un magistero come quello di Francesco.  In tempo d’incredulità, è giurare a tutti “Io credo in Dio” senza l’uso di parole, ma con la contaminazione della vita, aperti al mistero, senza scartarlo a priori.

Al programma in otto puntate e otto conversazioni hanno partecipato gli invitati:  Salvatore Natoli, Martina Colombari, Paolo Bonolis, Paolo Rumiz, Carolina Kostner, Giovanni Bachelet, Massimo Bottura e Fausto Bertinotti..

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giovedì 16 aprile 202   C’È VUOTO E VUOTO

Raniero La Valle

Questa Pasqua non potrà essere dimenticata. Insieme a molte altre emozioni, essa ci ha consegnato due immagini potenti, che sembrano simili, ma veicolano per contro significati assai diversi. Le due immagini sono la piazza e la basilica di san Pietro, entrambe vuote, pur celebrandovisi i riti.

La piazza san Pietro l’abbiamo vista deserta, sia la sera della preghiera solitaria del papa sul sagrato, il 27 marzo, sia il venerdì santo, sia quando nel pieno sole di mezzogiorno del lunedì dell’Angelo il papa si è affacciato a benedire senza parole, al solo suono delle campane. L’impatto di quella piazza vuota è stato fortissimo, e tuttavia non tale da suscitare desolazione e sgomento, non tale da sembrare (almeno a noi) incompatibile con la natura del luogo. La piazza san  Pietro è di fatto, e forse così è stata pensata, un grande palcoscenico. È la tribuna dei grandi annunci, come quelli che comunicano il “gaudium magnum” dell’elezione di un nuovo papa; è il luogo in cui il papa eletto si materializza alla vista; è lo scenario, con il suo fondale e le sue quinte, nel quale va in scena il grande spettacolo della Chiesa di Roma, dei suoi fasti, della sua presa sul mondo e anche della sua presa del mondo, con quelle grandi braccia dell’emiciclo protese a stringere tutti, a gremirsi di una folla docile e fedele, fatta spettacolo anch’essa. Un palcoscenico vuoto non fa problema,  è sempre pronto ad essere riempito, magari anche da un solo attore, da un primo attore, così come da molti protagonisti, o anche da cori e voci e presenze invisibili, come è accaduto proprio quel venerdì di marzo, quando Francesco ha esteso la vecchia e ben ponderata indulgenza a tutti quanti fossero uniti a quella piazza “anche solo col desiderio”; come pure è accaduto la sera del venerdì santo, quando la rappresentazione della Via Crucis ha trovato su quel palcoscenico la sua realizzazione perfetta, non col corredo di immagini sacre pur sempre opache al mistero, ma perché intessuta delle voci dolenti che raccontavano storie umanissime di prigionieri e guardie, assassini e vittime, colpevoli e innocenti, volontari e cappellani, preti e madri: una specie di Antologia di Spoon River, ma pasquale, non di morti ma di viventi e risorti.

Non si può dire altrettanto della visione della basilica deserta, durante la Messa del giovedì santo, durante la veglia pasquale, l’”exsultet”, la Messa senza omelia del giorno di Pasqua, il successivo tenerissimo messaggio al mondo. Questa immagine veramente era durissima a viversi. Perché le chiese si, sono fatte per riempirsi di fedeli, per fare assemblea, riunire non solo gli spiriti, ma i corpi di quanti seguono un figlio di Dio che è entrato nel mondo dicendo: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato”.

E lo sgomento cresceva al pensare che questa non sarebbe stata solo una condizione passeggera, ma sarebbe continuata a lungo, per quanto tempo ci fosse voluto a liberarsi dal virus o a conviverci, come dicono le voci sempre più preoccupate degli scienziati, che allontanano sempre più nel futuro la fine della crisi, e come dice la severa analisi di padre Gaël Giraud sulla Civiltà Cattolica (che abbiamo pubblicato sul nostro sito), con la previsione che a questa pandemia ne seguirà un’altra e per venirne fuori occorrerà un cambiamento dei modi di produzione, di consumo e di vita, delle relazioni sociali, del sistema sanitario e bancario, dei beni comuni e del rapporto con l’ambiente, e non solo.

Dunque, per quanto tempo sarebbero durati questi vuoti? E passi per il vuoto del palcoscenico, ma come pensare i vuoti tra una persona e l’altra, tra un corpo e gli altri corpi, la solitudine impedita di essere colmata, i travisamenti non più proibiti per legge ma obbligatori, con mascherine, rivestimenti e mute, e interdetta anche l’ora d’aria, proprio quando grazie all’improvvisa caduta dell’inquinamento le farfalle sono tornate nei giardini di Londra, e le lucciole a Milano, dove Pasolini le aveva date per perse, e il clima è stato buono a godersi, come ormai non si vedeva da tempo? E come pensare il vuoto entro cui va racchiusa ogni persona, perché ciascuno resti con il suo virus? C’è il rischio che diventi sedizioso anche il gesto cristiano per eccellenza, il gesto supremo e assoluto, quello del Samaritano, che è tutto espresso in moti del corpo: gli passò accanto, lo vide, fu preso da misericordia, gli si fece vicino, fasciò le ferite, vi versò olio e vino, lo caricò sul suo giumento, lo portò a una locanda, se ne prese cura. È impensabile che questo accada? Ma se già succede con i migranti che salgono in Europa, incappati in ladroni, torturatori e trafficanti, percossi e abbandonati nel mare, e lì lasciati morire perché non c’è più nessuno che va a passare accanto a loro!

Con questi vuoti o distanziamenti tra persona e persona, non prossimi gli uni agli altri, senza mani che si stringano, voci che si fondino, bocche che si bacino,  carni che si uniscano, il mondo non era mai stato pensato, nessun creatore lo avrebbe fatto così, né così è stato fatto. Per un tempo e un altro tempo ancora questo è possibile, è necessario, anzi è meritevole

Ma per un tempo senza fine o di cui non sia avvistabile la fine non può sussistere un mondo così, non sarebbe più neanche un mondo. Perciò bisogna uscirne al più presto, e per farlo diventa un dovere imprescindibile, un compito politico necessario ed  urgente ciò che fino ad oggi è sembrato impossibile, togliere sovranità al denaro, rovesciare la divisa del capitalismo per cui “tutto ha un prezzo, niente ha valore”, uscire dall’economia che uccide, costruire ospedali e non armi, bandire le atomiche e le guerre, desistere dallo sfruttamento selvaggio del suolo, delle foreste, del mare, dei fossili, del cielo, bandire il “prima noi, il “salvarsi da soli”, rifondare il diritto, costruire una Costituzione mondiale, istituire organismi sovraordinati che la attuino e garantiscano nel pluralismo dei regimi politici e dei governi.

Questo dobbiamo fare perché questo vuoto tra le persone, che nessun web può colmare né lavoro “da remoto”, è il male da cui liberarci, la minaccia da sventare, il germe da estirpare prima che attecchisca, prima che con il suo artificio contamini la cultura, la politica, le relazioni sociali

E a dirci che questo può avvenire e avverrà è venuta la Pasqua, che unendo terra e cielo ha rinnovato l’antica promessa: ce la possiamo fare, se il Signore è risorto, non è la morte che può vincere, questo l’annuncio che è risuonato come non mai nel silenzio profondissimo in cui sono echeggiate queste parole.

*

Però c’è l’altro vuoto, quello delle chiese, che pur con tutto il suo dolore e sconcerto parla un tutt’altro linguaggio: non è solo un male a cui porre fine, ma è anche un segno potente, una pedagogia, un annuncio. Papa Francesco se ne è fatto carico, assumendolo non come il vuoto di una Chiesa dispersa, ma come la figura di chi “svuotò se stesso, scambiando la sua forma divina con la condizione umana del servo, spogliato di tutto sulla croce. 

E allora come intonare il pianto sugli inabitati spazi e i marmi di san Pietro, altre volte traboccanti di folle o di vescovi riuniti a Concilio, quando del tempio di Gerusalemme Gesù aveva detto che non sarebbe rimasta pietra su pietra

Come sfidare le autorità civili pretendendo l’apertura delle chiese, quando doveva venire il tempo, ed è questo, di adorare il Padre in spirito e verità? 

Come non uscire dai recinti sacri per raggiungere le periferie delle genti, “in ogni regione di quell’umanità a cui apparteniamo e che ci appartiene”, per farsi “annunciatori di vita in tempo di morte”, come ha detto il papa nella notte santa, raccogliendo l’invito del Risorto a precederlo in Galilea? E non a caso Francesco ha sottolineato che quella era la regione più lontana da Gerusalemme, “più distante dalla sacralità della Città santa”, popolata da genti diverse che praticavano vari culti, la «Galilea delle genti».

Davvero sembra che tutto il pontificato di Francesco sia stato una preparazione a interpretare quest’ora, dall’annuncio nuovo del Dio della misericordia, non geloso, non violento, e fedele alla Chiesa in uscita, ospedale da campo, e non servizio religioso ai combattenti, da Lampedusa a Lesbo, dal “chi sono io per giudicare” all’invito ai confessori di perdonare sempre, anche fuori della confessione sacramentale, dalla Laudato sì alla Querida Amazonia, da Abu Dhabi sulla fraternità umana alla comunione spirituale proposta ogni mattina da Santa Marta, dal concentrare tutto nel crocefisso e nel vangelo alla consolazione offerta a quanti nella Chiesa sono privi dell’Eucarestia e degli altri sacramenti, ma non per questo orfani della mano del Signore posata sopra di loro.

*

Molti si aspettavano la riforma della Chiesa nei modi da loro sempre pensati, e si lamentano perché non ne vedono abbastanza tracce, ma intanto non ci accorgiamo che la riforma di Francesco è ben più profonda e gravida di futuro dei nostri progetti anche più avanzati, è “capace di quella santa novità” che solo una Pasqua fino in fondo macinata e vissuta permette di concepire e generare.

Raniero La Valle

LE BEATITUDINI

(Mt 5, 3-10)

Per capire che cosa ci propone Gesù nelle Beatitudini, teniamo presente che del testo di Matteo possiamo fare tre traduzioni: letterale – teologica . di comprensione con il nostro linguaggio:

  1. Beati i poveri in spirito,

                   perché di essi è il regno dei cieli.

     Beati quelli che decidono di vivere poveri,

                  perché questi hanno Dio per re.

     Beati quanti scelgono di condividere tutto quello che hanno:

                  perché sanno che Dio si prende cura di loro.

2a.  Beati gli afflitti,

                  perché saranno consolati.

     Beati gli oppressi,

                  perché questi saranno liberati

     Beati gli oppressi,

                  perché terminerà la loro oppressione

3a.  Beati i miti,

                  perché questi erediteranno la terra.

      Beati i diseredati,

                  perché questi erediteranno la terra.

      Beati gli emarginati,

                  perché ritroveranno dignità.

4a.  Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,

                  perché saranno saziati.

      Beati quelli che hanno fame e sete di questa giustizia,

                  perché questi saranno saziati.

      Beati quelli che vivono per la giustizia,

                  perché questi saranno soddisfatti.

5a.   Beati i misericordiosi,

                   perché questi riceveranno misericordia.

       Beati quelli che soccorrono,

                   perché questi verranno soccorsi da Dio.

       Beati quelli che sono sempre pronti ad aiutare,

                   perché saranno sempre aiutati da Dio.

6a.   Beati i puri di cuore,

                    perché questi vedranno Dio.

       Beati i limpidi,

                    perché questi saranno intimi di Dio.

       Beati quelli che sono sinceri,

                    perché saranno sempre in presenza di Dio.

7a.    Beati i pacificatori,

                    perché questi saranno chiamati figli di Dio.

        Beati i costruttori di pace,

                     perché questi Dio li riconoscerà come figli.

        Beati quelli che lavorano per la felicità dell’uomo:

                     il Padre è con loro!

8a.    Beati i perseguitati a causa della giustizia,

                     perché di essi è il regno dei cieli.

        Beati i perseguitati per la loro fedeltà,

                     perché questi hanno Dio per re.

        Beati i perseguitati per la loro fedeltà al vangelo:

                     perché Dio si prende cura di loro!


IL VANGELO DI LUCA: BUONE NOTIZIE PER GLI ESCLUSI”

p. Alberto MAGGI

La novità che tutti gli evangelisti affermano, seppure con sfumature e angolature differenti, è quella di un Dio amore, il cui amore va accolto, non meritato.

In maniera caricaturale, Luca ci presenta due perfetti religiosi: Zaccaria e la moglie Elisabetta, perfetti nell’osservanza e nelle devozioni, ma la cui vita è completamente sterile. Perché costoro, rappresentanti tipici della religione, pensano di poter meritare l’amore di Dio.

Nei vangeli, c’è una duplice categoria che viene vista in maniera negativa: quella del merito e quella dell’esempio. Sono categorie legate fra di loro: l’amore di Dio viene meritato attraverso le preghiere e gli atteggiamenti.

San Paolo, che si vanta di essere stato un perfetto osservante di tutte le minime prescrizioni della legge e di tutte le devozioni, come Zaccaria ed Elisabetta, nella lettera ai Filippesi dice: ma quando ho incontrato Gesù e l’ho conosciuto ho considerato tutto questo come…, e usa un termine greco un po’ brutto che i traduttori si vergognano a tradurre, ma la parola in greco è “merda”. Quindi Paolo dice: quando ho conosciuto Gesù, tutto quell’atteggiamento di devozioni, di preghiere, di riverenze verso Dio per meritare il suo amore, l’ho considerato un rifiuto, l’ho considerato… un niente.

Questa è la novità dei vangeli: l’amore di Dio non va meritato, Dio non mi ama perché mi comporto bene, ma l’amore di Dio va accolto. Una volta compreso questo, la seconda categoria che è strettamente legata al concetto di merito, e cioè quella dell’esempio, va “a farsi benedire”, è il caso di dirlo.

Cerchiamo di chiarirci: quando una persona ritiene di poter essere di esempio, o ritiene di poter dare l’esempio all’altro, significa che in qualche maniera si ritiene superiore alla persona alla quale concede l’esempio. Se io ritengo di poter essere un esempio per qualcuno, significa che questa persona, a cui io do l’esempio, la considero inferiore a me. La categoria dell’esempio significa una brutta sensazione: volersi innalzare sopra gli altri. Ma quando uno si accorge che Dio non lo ama per i suoi meriti, ma perché Dio è amore e questo amore va accolto, la categoria dell’esempio dato agli altri non può esistere ed entra piuttosto la categoria del “servizio” all’altro.

*

Un brano caratteristico della linea di Luca per rappresentare tutto questo, è quello della nascita di Gesù con l’annuncio agli emarginati dell’epoca.

Tutti i vangeli annunciano lo stesso messaggio, ma lo fanno con angolature diverse. Matteo sottolinea che i primi ad essersi resi conto della nascita di Gesù, della manifestazione visibile di Dio nella umanità, sono i pagani. I pagani sono esclusi dal progetto della salvezza, per loro non ci sarà risurrezione. Dice un proverbio ebraico: schiaccia la testa al migliore dei pagani e l’avrai schiacciata al più schifoso dei serpenti.

I pagani quindi sono esclusi, e Matteo non solo inserisce un pagano, ma presenta una categoria che nell’antico testamento è vista con orrore, quella degli astrologi: i MAGI. I primi a rendersi conto che Dio è presente nell’umanità non sono i sommi sacerdoti e le persone pie di Gerusalemme, ma da lontano i pagani, addirittura degli astrologi, persone per la cui professione era prevista la pena di morte. Erano persone con le quali era proibito intrattenere qualunque tipo di rapporto. Questo ci dice il vangelo di Matteo.

Luca, al capitolo 2, ci presenta la stessa realtà, però vista all’interno del popolo d’Israele. I primi a rendersi conto dell’esistenza di Gesù, l’uomo Dio, sono i paria della società, che a quell’epoca erano i pastori. Possiamo immaginare le condizioni bestiali nelle quali i pastori vivevano. Emarginati dalle città, dai villaggi, vivevano in aperta campagna, vivevano nella sporcizia. Voi conoscete il concetto di impurità dell’ebraismo: non potevano mai aver nessun contatto con Dio proprio per la loro professione, erano considerati alla stregua di bestie selvagge e non avevano alcun diritto umano. Si legge nel Talmud: se trovi un pastore caduto in una fossa lascialo stare, è inutile tirarlo fuori, tanto per lui non c’è salvezza.

Quindi i pastori sono degli emarginati, sia dal punto di vista della società civile, che di quella religiosa. Nella tradizione ebraica si diceva che il Messia, cioè questo inviato di Dio, al momento della sua venuta avrebbe eliminato i peccatori e, al primo posto della hit parade dei peccatori, c’erano proprio i pastori. Non risuscitavano, erano nocivi, era proibito intrattenere con loro qualsiasi rapporto, per cui il Messia, alla sua venuta, li avrebbe eliminati fisicamente.

Leggiamo, invece, come il vangelo di Luca ci presenta la nascita di Gesù. Al capitolo 2,8: c’erano alcuni pastori, in quella regione, che di notte pascolavano il loro gregge ed ecco l’angelo del Signore…. Ancora una volta ritorna questa espressione che, ricordo, non si intende come una entità spirituale particolare, è una maniera per indicare l’intervento di Dio nell’umanità. Questo è bene ricordarlo, perché una delle difficoltà che incontriamo quando leggiamo il vangelo è che fin dall’inizio vediamo un gran svolazzare di ali e di altre realtà, che poi non corrispondono alla nostra esperienza. Chi di noi può affermare di aver mai visto un angelo, almeno così come ce lo rappresentano, o come ce lo immaginiamo?

Il termine “angelo, nei vangeli, non significa altro che “Dio interviene”, attraverso persone. Gli angeli a volte sono degli individui concreti, o situazioni. Nel linguaggio biblico tutte quelle persone, situazioni, momenti ed emozioni che ci hanno fatto sentire il desiderio di sviluppare, di sprigionare quell’energia vitale che è prigioniera in ognuno di noi, permettendoci di comunicare vita agli altri, vanno sotto la voce “Angeli del Signore”. Al versetto 15 si parla di Signore; prima si legge che l’angelo del Signore appare, e poi: “e il Signore gli disse”. Quindi angelo del Signore o Signore sono la stessa realtà. Continuando: “Ed ecco l’angelo del Signore si presenta a loro e…”. Accade qualcosa di inconcepibile.

Ci dobbiamo calare nella realtà culturale e religiosa dell’epoca; qui abbiamo un gruppo di persone che vivono al di fuori della Legge, immerse fino al collo nel peccato, persone che non hanno alcuna possibilità, neanche di pregare Dio, perché per pregare Dio devono essere puri e loro, per la loro condotta di vita, sono sempre impuri. Quindi, secondo una certa tradizione religiosa, una certa mentalità, dovremmo aspettarci di sentire: “e li sterminò tutti quanti”. Invece: “…e la gloria del Signore li avvolse con la sua luce!”

Lo dico come battuta: allora non c’è più religione! A questa gente che vive ai margini della società civile, esclusa dalla religione, a queste persone che vivono come delinquenti, (tra di loro furti e omicidi erano all’ordine del giorno), quando Dio compare, anziché emettere un giudizio di condanna e quindi di castigo, li avvolge con la sua luce! Cioè li avvolge con il suo amore.

Infatti vediamo la reazione dei pastori: “…e furono presi da grande paura”. Dinanzi ad una manifestazione di Dio, sapendo che quando Dio si manifesterà li sterminerà tutti, vengono presi da grande paura, sono sconvolti.

Ma l’angelo, lo stesso Signore, dice loro: “Non abbiate paura!”. Quando Dio si rivolge alla gente che vive nel peccato e che teme l’atteggiamento di un Dio vendicativo, del Dio della religione che castiga, di un Dio che è capace di castigare per tutta l’eternità, la prima parola che dice è: “non temete”. Dio non è da temere, Dio non fa paura. Dice: “non temete, anzi, vi annuncio una grande gioia”.

Scusate se sono ripetitivo, ma veramente non c’è più religione! Dio non deve castigare i malvagi, non deve punirli? Dio, quando si presenta ai peccatori, perché sono dei peccatori, obbiettivamente sono persone che vivono al di fuori della Legge, non osservano i precetti, si comportano in maniera disonesta tra di loro, (immaginatevi questi pastori, senza istruzione, erano effettivamente dei selvaggi, dei primitivi), dice loro: “non abbiate paura, io vi comunico una grande gioia.

Queste narrazioni non sono state scritte per edificarci, per il ricordo di qualcosa avvenuto 2000 anni fa, ma l’evangelista ne carica ognuna di valori teologici che sono validi per tutti, anche per noi oggi. Quindi, queste indicazioni sono valide per ognuno, sempre. A chi vive nel peccato senza possibilità di cambiare la propria esistenza, (perché questa categoria di persone – i pastori – non aveva la possibilità di cambiare, non poteva dire oggi smetto di fare il pastore e vado a fare il cittadino), a questa gente condannata a perpetuare la propria vita nel peccato, Dio non mette alcuna condizione! Non dice: se cambiate vita, vi annuncio parole di gioia, ma ora vi annuncio una grande gioia, non temete!

E questa grande gioia consiste nel fatto che è nato, nella città di Davide, un salvatore che è il Messia Signore. Ma il Messia non ci doveva ammazzare tutti quanti? Il Messia non ci doveva sterminare, non doveva eliminare questa feccia dalla società, dalla faccia della terra? Niente di tutto questo! L’annuncio è che troverete uno che è nato come voi, in mezzo alle bestie, lo troverete in una povera casa, in una mangiatoia.

Assieme al Signore tutto l’universo conferma questa grande realtà (il versetto 14 è stupendo): “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e in terra pace a tutti gli uomini oggetto del suo compiacimento”.

Notate questa traduzione, che almeno da una ventina di anni è cambiata. Ricordate come era settaria prima; lo ricordiamo tutti nel presepio, c’era l’angelo con lo striscione “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Quindi la gloria a Dio nell’alto dei cieli è assoluta! La pace in terra solo a quelli di buona volontà. Ne consegue che quelli senza buona volontà non hanno la pace.

Vedete l’importanza della traduzione per rendere appieno il significato del messaggio di Gesù. Cosa ci vuol dire Luca? Che la gloria di Dio, che sta nell’alto dei cieli (gloria significa la manifestazione visibile di quello che uno è), è la pace, che è la manifestazione visibile di quello che è Dio. Il concetto di pace, in ebraico, consiste nella felicità, nel benessere, nell’allegria, nella serenità, in tutto quello che concorre al bene dell’uomo. Ebbene la gloria di Dio, il compiacimento di Dio, la manifestazione visibile di quello che è Dio, si manifesta quando tutti gli uomini raggiungono questa condizione di pace. Ma quali uomini? Tutti!

Luca scrive letteralmente: gli uomini oggetto del suo amore. Vedete che Luca non fa che ridire con altra forma, con altre immagini, quello che abbiamo visto nel vangelo di Giovanni. Dio è amore e questo amore si comunica ad ogni uomo, che non lo deve meritare, lo deve semplicemente accogliere.

Allora qui Luca apre con queste immagini la manifestazione visibile dell’amore di Dio, è realizzata quando ogni uomo raggiunge una condizione di benessere e di felicità: ogni uomo è oggetto del suo amore.

Qui crolla uno dei pilastri della religione, che è quello della necessità della tribolazione e della sofferenza, dell’ascetismo per essere graditi a Dio. Dio non gradisce e non ama e non chiede le sofferenze e le tribolazioni dell’uomo, chiede soltanto di essere accolto con la sua manifestazione d’amore.

Quindi l’immagine che Luca ci dà è quella della pace, la felicità dell’uomo. Il progetto di Dio sull’umanità, al quale ognuno di noi è chiamato a collaborare, è che ogni uomo raggiunga la pienezza della felicità. Tutto quel bagaglio tipico della perversione religiosa fatta di mortificazioni, rinunce, sacrifici fatti per Dio, non serve a niente. Se invece sono fatti per procurare la felicità all’uomo, senz’altro!

Appena scompare questa manifestazione divina i pastori si recano a Betlemme per vedere tutto quello che Dio ha annunziato loro e quando entrano nell’abitazione dove trovano, scrive l’evangelista, Maria, Giuseppe e il Bambino, raccontano a tutti i presenti quella che è stata la loro esperienza.

E leggiamo nel versetto 18: tutti quanti erano sconvolti. Perché? Perché cambia completamente la prospettiva religiosa; tutto quel castello teologico che ci presentava un Dio che veniva a separare i buoni dai cattivi, è crollato.

Immaginiamo un dialogo del tempo:

  • Arrivano i pastori, questi delinquenti nati, quasi bestie selvatiche, e ci vengono a dire: “Ci è apparso il Signore e ci ha detto che per noi è venuta una buona notizia”.

    • Per voi? Guardate che dice così perché ora è piccolino, ma quando cresce vi elimina tutti quanti!

  • Ma no! L’angelo del Signore, ci hanno avvolti gli angeli con il loro amore!

    • Impossibile! Voi siete nella impurità completa!

    • Dio non può neanche entrare in contatto con voi!”

Tutti rimangono sconvolti da questo messaggio, tutti quanti. Però si legge che mentre tutti erano sconvolti da questo messaggio, Maria ci riflette dentro di sé, nella sua testa. Tutti, compresa Maria, vengono sconvolti, perché cambia completamente la religione, o meglio si distrugge la base della religione…; ma Maria incomincia a riflettere.

In questa figura di Maria, Luca ci presenta la primitiva comunità cristiana che non ha compreso ancora in pienezza il messaggio di Gesù, (anche se Luca è il più spinto tra gli evangelisti), ma incomincia questa riflessione.

Sono sconvolti, perché Gesù ha eliminato tutto quello che regge il castello religioso, ci ha presentato un Dio che esprime degli atteggiamenti tali che dovrebbe essere censurato, ma non viene rifiutato, vanno a vedere e felici lo accolgono.

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don Primo Mazzolari – Natale 1939

Ci sei Tu!”

pubblicato su L’Italia (24 dicembre 1939).

Il Bambino nasce. Vado a vederlo. Cosa gli dirò quest’anno?

A Natale tutti gli possono parlare: tutti gli dicono qualche cosa perché quand’Egli nasce, le povere voci create s’accostano e parlano. Volete che non gli parlino il bue, l’asino, le pecore del Presepio? E la paglia del suo giaciglio non gli dirà nulla? E gli Angeli, volete che non gli portino il desiderio delle stelle e i sospiri della notte?

Un bambino non dà soggezione. Perfino i mendicanti parlano ai bambini che incontrano per strada: perfino la gente che non sa o non osa rivolgere la parola ad anima viva, davanti a un bambino si fa coraggio. Un bambino non tradisce, un bambino non fraintende, un bambino capisce ogni lingua. Capisco adesso perché l’Onnipotente si fa bambino: perché l’onnipotenza si veste della più grande impotenza e chiede a tutti e ha bisogno di tutto, anche di una stalla abbandonata, del fiato di un asino e di un bue, di un po’ di paglia. Il Presepio è la sua casa: la scuola che confonde i savi e depone i potenti. Che strana maniera di confonderci e di deporci.

Noi ci mettiamo intorno fortezze di cemento, ci serviamo d’ordigni che vomitano morte. Vantiamo la nostra forza uccidendo. Che povera forza, una forza che uccide! Mentre il Forte si veste di povera carne, una carne che ha freddo, che ha fame. Già piange: già sanguina questa povera carne di un Dio fatto bambino!

Noi ci barrichiamo, alziamo muri, tracciamo limiti… e l’Inaccessibile, l’Inviolabile, l’Eterno, entra nel tempo, scende sulla terra, prende dimora fra gli uomini, toglie il limite tra l’infinito e il finito, tra l’umano e il divino e si mette a servizio di tutti, alla mercé di tutti…

Signore, ci hai posto in tentazione di mancarti di riguardo. Un bambino che nasce in una stalla, non può essere un personaggio di riguardo. Infatti, tutti vengono a vederlo: tutti gli vogliono parlare e nessuno si fa annunciare.

Vorrei parlargli anch’io se non m’infastidisse la gente che ha intorno; vorrei parlargli cuore a cuore.

Signore… Dovrei parlargli di me, ma ho vergogna di parlargli di me. Io possiedo ancora una casa, un focolare, una chiesa…. Non è venuto nessuno ancora a ordinarmi di sgombrare: nessun aeroplano è venuto a sganciare bombe sulla mia casa, … Di guai non mi mancano, ma son guai fabbricati da me, dal mio benestare che può prendersi il lusso di contare che gli manca questo e quello. E quando uno sta bene, non rappresenta nessuno… Non sono la voce di nessuno. E se non sono la voce di nessuno, con quale diritto voglio parlare a Uno che è tutti?

Davanti all’uomo, davanti al Presepio è qualcuno solo chi ha niente. Gli può parlare solo uno che ha niente!

Se uno fa gli affari suoi con gli strumenti di morte, non ha diritto di parlare. Se uno non ha cuore per chi non ha casa, … non ha diritto di parlare. Se uno resta indifferente davanti ai violenti, non ha diritto di parlare. Se uno non ha fame e sete di giustizia per tutti i i disperati e i depredati, per tutti gli oppressi, non ha diritto di parlare. Io non ho diritto di parlare. Il mio benessere e il mio egoismo mi oltraggiano;: le mie comodità mi diminuiscono fino a togliermi ogni diritto di parola davanti al Dio-Bambino.

Voglio domandare al silenzio della notte, alla desolazione della terra martoriata, alle lagrime dei poveri, dei perseguitati, dei migranti, degli orfani, delle vedove, al lamento dei feriti, al grido degli oppressi, ai morti di tutti i cimiteri … la voce che sola ha diritto di parlare al Cristo. Sono disposto a «vendere» tutto per riavere quella comunione con l’umanità lacerata che sola può dare voce alla mia preghiera.

Finalmente la pace in un suono di campane:… Adesso ho diritto di parlarti. Signore, perché sono fratello. con tanti che sento vicini nei loro disagi in questa notte, perché hai voluto tornare tra noi ancora una volta! Non ti chiedo nulla! mi basta che tu sia fra noi!.

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lunedì 16 dicembre 2019

PER UNA SCUOLA E UNA COSTITUZIONE DELLA TERRA

RANIERO LA VALLE

Giunta anche al vertice mondiale sul clima di Madrid (peraltro fallito), Greta Thunberg ha detto che dopo un anno di campagne “per il futuro”, grandi sono stati i risultati in termini di mobilitazione popolare, ma quasi nulli i risultati in termini di decisioni dei governi.

Un robusto programma di riconversione ecologica è ora nelle intenzioni della nuova Commissione europea. Vedremo, però! I ritmi della crisi globale si fanno sempre più incalzanti, non c’è tempo per le lunghe gestazioni, e nemmeno una buona provvista di singole misure, prese qua e là dai governi, può bastare a dare una risposta complessiva ed efficace al pericolo, ormai da più parti annunciato che già a partire dal 2050 il sistema fisico della terra vada in tilt e che la storia umana che la abita  possa volgere alla fine.

Alla crisi ecologica si accompagna la crisi progressiva del vivere collettivo delle donne e degli uomini sulla Terra, l’estinguersi della politica, il perdersi della democrazia, il regresso del diritto, il bene da compiere che diventa reato, il male inflitto che diventa diritto, le armi che di nuovo coprono tutta la terra e la cinturano dal cielo, immense – per pochissimi – ricchezze e sterminate – per moltissimi – povertà, e anche il fuoco che divora le grandi foreste e brucia l’aria che ci serve per respirare: non è preterintenzionale, ma è fuoco amico appiccato da Consigli d’Amministrazione e non spento da governi sovrani.

Perciò ci vuole una risposta globale, che abbia la stessa dimensione e operatività della crisi globale. Occorre che uomini e donne, ovunque abitanti la terra, ma tutti insieme, come un nuovo soggetto politico operante nel mondo, prendano partito per la Terra e si organizzino e agiscano perché la Terra sia salva e la storia continui.

Lunedì scorso a Messina è nata una scuola per attivare un pensiero che non solo elabori e propaghi questa urgenza, cosa che in molti modi già avviene, ma additi e promuova anche lo strumento per darvi risposta.

Quale nuova risorsa mettere in campo per fermare e invertire la corsa che può portare alla fine? Questo strumento, questa risorsa, dice questa scuola, è una Costituzione della Terra.

Le Costituzioni hanno dato anima e vita agli Stati e da ultimo, quando tutto sembrava perduto per la violenza crescente e la corruzione ed ignavia del potere, hanno salvato democrazia e convivenza.

Una Costituzione della Terra può oggi salvare la Terra. Un costituzionalismo universale in embrione  già esiste, grazie all’ONU e alle grandi Carte e Convenzioni del dopoguerra, ma, argomenta Luigi Ferrajoli, senza istituti di garanzia, supporti pubblici e leggi di attuazione è rimasto inoperante, tant’è che né la cura della salute è universale, né la vita, la nuda vita, è fruibile per tutti, e la guerra può sempre travolgere tutto.

Una Costituzione – non un governo, non un Leviatano mondiale – può essere il programma inedito ma decisivo di questo prendere partito per la Terra, dice la scuola venuta alla luce lunedì scorso a Messina.

Messina è al centro del Mediterraneo, la culla da cui tutto è cominciato, anche la democrazia, le Costituzioni, prima di Ninive, prima di Babilonia, prima di Abramo.

Migliaia di anni fa il codice di Ur dei Caldei prescriveva al potere di essere sostegno del povero, della vedova, dello straniero, compensando con la sua forza la debolezza del debole, il codice di Hammurabi istituiva “la giustizia agli oppressi” e in Egitto il vizir si faceva un vanto di essere padre dell’orfano, fratello della divorziata, grembiule di chi non ha madre.

Lo scopo della scuola della Terra che ora viene proposta è di fecondare e spargere questa cultura della Terra e del diritto, una scuola in cui tutti siano docenti e discenti, una scuola diffusa, telematica e frontale, tale che ogni casa sia una scuola, il cui programma vada anche oltre il traguardo indicato da Michea e da Isaia, che volevano che le lance si trasformassero in falci e le spade in aratri.

Di più, Isaia profetava che le nazioni non avrebbero più imparato l’arte della guerra, segno che la guerra non è in natura, va preparata ed armata prima. Noi infatti l’abbiamo  imparata  e sempre più la perfezioniamo e facciamo, tutta insieme od a pezzi.

Ed ecco perciò una scuola non per imparare, ma per disimparare l’arte della guerra, e imparare invece l’arte di fare la pace e salvare la Terra.  

Prima non si poteva, non c’era un popolo della Terra che potesse fare una Costituzione della terra, stabilire un diritto senza frontiere, perché tutto era spezzato, le identità si contrapponevano come assolute, e Dio stesso era giocato come principio e causa di divisione tra i popoli, tra sovranità che si attribuivano ciascuna l’elezione divina. Ora non più.

Grazie al nuovo annunzio di Dio risuonato anche nel documento di Abu Dhabi, non c’è più un Dio geloso, un Dio nel cui nome gli uni sono eletti gli altri respinti.

Disimparare l’arte della guerra e imparare l’arte di custodire la terra e far continuare la storia è perciò una rivoluzione copernicana oggi possibile, è passare dalla dialettica degli opposti all’armonia delle differenze, come l’ha invocata papa Francesco insieme a musulmani ed ebrei in nome della fraternità nella fede.  

L’iniziativa della scuola e della Costituzione della Terra sarà resa pubblica nei prossimi giorni dal Comitato che l’ha promossa, con un appello rivolto a raccogliere intorno ad essa iscrizioni, adesioni e  consensi. Ve ne daremo notizia.

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Papa Francescodicembre 06, 2019 21:04

Udienza ai Redattori e ai Collaboratori della Rivista “Aggiornamenti Sociali”

Discorso a braccio del Santo Padre

C’è preparato un discorso di otto pagine… Dopo la terza pagina saranno pochi coloro che ascolteranno! Lo consegno e vorrei parlare un po’ a braccio di alcune cose che sento.

Grazie della visita e grazie, padre Bartolomeo [Sorge, S.J.], di essere venuto. Con il padre Bartolomeo abbiamo fatto la 32.ma congregazione generale [dei Gesuiti] nel ’74, si ricorda? Quelle lotte interne, quei problemi…. È stato un pioniere in questo e lo ringrazio…. Non perdete il coraggio, perché poco tempo fa ho letto qualcosa di una chiarezza che ha fatto tremare, non dico la politica italiana, ma sicuramente almeno la Chiesa italiana! Grazie, grazie a tutti voi.

Una cosa che ha detto padre Costa [Direttore della rivista]: ASCOLTARE. Mai si può dare un orientamento, una strada, un suggerimento senza l’ascolto. L’ascolto è proprio l’atteggiamento fondamentale di ogni persona che vuole fare qualcosa per gli altri. Ascoltare le situazioni, ascoltare i problemi, apertamente, senza pregiudizi. “Tu hai detto quella cosa…”. No, senza pregiudizi! Perché c’è un modo di ascoltare che è “Sì, sì, ho capito, sì, sì…”, e lo riduco, un riduzionismo alle mie categorie. E questo non va.

Ascoltare è lasciarsi colpire dalla realtà. E a volte le proprie categorie cadono o si risistemano. L’ascolto dev’essere il primo passo, ma bisogna farlo con la mente e il cuore aperti, senza pregiudizi! Il mondo dei pregiudizi, delle “scuole di pensiero”, delle posizioni prese, fa tanto male…

Oggi, per esempio, in Europa stiamo vivendo il pregiudizio dei populismi, i Paesi si chiudono e tornano le ideologie. Ma non soltanto nuove ideologie – qualcuna c’è – ma tornano le vecchie, le vecchie ideologie che hanno fatto la seconda guerra mondiale. Perché? Perché non si ascolta la realtà com’è. C’è una proiezione di quello che io voglio che si faccia, che io voglio che si pensi, che ci sia…

E’ un complesso che ci fa sostituire a Dio creatore: noi prendiamo in mano la situazione e operiamo: la realtà è quello che io voglio che sia. Poniamo dei filtri…. Ma la realtà è un’altra cosa. La realtà è sovrana. Piaccia o non piaccia, ma è sovrana. E io devo dialogare con la realtà.

Secondo passo. ASCOLTARE E DIALOGARE, non imporre strade di sviluppo, o di soluzione ai problemi. Se io devo ascoltare, devo accettare la realtà come è, per vedere quale dev’essere la mia risposta. E qui andiamo al nocciolo del problema. La risposta di un cristiano qual è? Fare un dialogo con quella realtà partendo dai valori del Vangelo, dalle cose che Gesù ci ha insegnato, senza imporle dogmaticamente, ma con il dialogo e il discernimento.

Un gesuita in Tailandia, che lavora con i rifugiati, mi ha fatto questa domanda quando sono stato lì: “Qual è oggi la strada per il nostro lavoro con i rifugiati?”. E la risposta è: non c’è una strada, ci sono piccoli sentieri che ognuno di noi deve cercare di fare guardando la realtà, ricorrendo alla preghiera e facendo discernimento. Realtà, preghiera e discernimento. E così si va avanti nella vita, anche con i problemi sociali, culturali… Ma se voi partite da preconcetti o posizioni precostituite, da pre-decisioni dogmatiche, mai, mai arriverete a dare un messaggio. Il messaggio deve venire dal Signore, tramite noi. Siamo cristiani e il Signore ci parla con la realtà, nella preghiera e con il discernimento. È questo che io vorrei dirvi per la vostra Rivista. Mai, mai coprire la realtà. Dire sempre: “E’ così”. Mai coprirla con quella rassegnazione del “vedremo…, forse dopo cambierà…”. Mai coprirla: la realtà così com’è.

Poi, cercare di capirla nella sua autonomia interpretativa, perché anche la realtà ha un modo di interpretare sé stessa. Si deve capirla. E poi il dialogo con il Vangelo, con il messaggio cristiano; la preghiera, il discernimento, e così fare dei piccoli sentieri per andare avanti. Oggi non ci sono “autostrade” per l’evangelizzazione, non ce ne sono. Soltanto sentieri umili, umili, che ci porteranno avanti.

Io vorrei incoraggiarvi su questo, e forse qualcuno dirà: “Ma, padre, i problemi sono tanti e abbiamo paura di scivolare e sbagliare e cadere”. Ma, grazie a Dio! Se tu cadi, ringrazia Dio perché avrai la possibilità di alzarti e andare avanti e di tornare a camminare… Ma uno che non si muove per paura di cadere o scivolare o sbagliare, mai, mai sarà fecondo nella vita!

Andate avanti, coraggiosamente! E se la critica è buona vi farà crescere. Vi farà vedere dove sono stati gli sbagli. E se la critica viene da un cuore cattivo, vi farà “ballare” un po’, con l’accanimento che succede in questi casi… Ma mantenete sempre la libertà interiore, e la libertà interiore ce l’ha solo chi prega, chi si mette davanti a Dio, chi prende il Vangelo, questa è la libertà interiore. Questo non è pietismo, no, è autenticità.

Con le mani al lavoro, e con il cuore a sentire cosa succede nella gente. Ascoltare. La tua parola [di p. Costa] ha generato tutto questo dentro di me. Lo offro spontaneamente, e poi “accademicamente” il discorso che dovevo dire, di otto pagine!

Pregate per me, io pregherò per voi, e andate avanti, sempre avanti!

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RIPUDIO DELLA DIALETTICA

RANIERO LA VALLE – 15.11.19

C’è di nuovo un furioso attacco al Papa accusato ora da “cento studiosi” di idolatria a causa della liturgia che ha ospitato i segni della devozione india durante il Sinodo per l’Amazzonia. Questo nuovo attacco al Papa non è che la continuazione dell’offensiva cominciata nell’estate del 2016 con una lettera accusatoria indirizzata ai cardinali e patriarchi della Chiesa cattolica orientale, ripresa il 16 luglio 2017 con la cosiddetta “Correctio filialis” e proseguita con la lettera ai vescovi e alla Chiesa del 30 aprile 2019, cose di cui si può trovare notizia nel sito chiesadituttichiesadeipoveri.it sotto il titolo: “La santa eresia di cui è accusato Francesco” e nella newsletter dell’11 maggio 2019: “Mirabile eresia”.

Si tratta di una campagna che non sembra godere di molta vitalità e accusa ormai la sua usura dato che a condurla sono sempre gli stessi e dicono le stesse cose, anche se in un’escalation che passa dalla “correzione filiale” alla denuncia di eresia, alla richiesta di dimissioni, all’anatema per idolatria. Dunque non vale tanto la pena fermarsi su quest’ultima aggressione, quanto chiedersi qual è la vera contrapposizione che spinge una minoranza ecclesiale a rifiutare il magistero e la pastorale di papa Francesco.

Ci sembra che essa consista nel fatto che si vuole ripristinare una “Chiesa contro”, rovesciando il modello della “Chiesa per”, che è poi il modello dell’“essere per gli altri” del Vangelo, irreversibilmente adottato da papa Francesco. E diciamo “irreversibilmente” perché volere una “Chiesa contro”, quale la rivendicano i cattolici e gli atei devoti della destra americana e non solo, significa non volere nessuna Chiesa, perché una Chiesa contro gli Indios, contro gli immigrati, contro i poveri, contro le donne, contro i divorziati, contro i “comunisti”, contro i protestanti, contro i musulmani, contro i maledetti dagli uomini e benedetti da Dio non sarebbe più possibile, finirebbe in una setta irrisoria. Che magari avrebbe ancora con sé “i cento studiosi” schierati oggi contro papa Francesco, ma non più il popolo di Dio.

Allora forse vale la pena capire meglio la novità di Bergoglio e perché essa è così crocefissa e difficile, tanto che egli non smette di chiedere di pregare per lui.

Bergoglio, gesuita, come risulta dalla preziosa sua “biografia intellettuale” scritta da Massimo Borghesi (perché ci sono studiosi e studiosi!), viene dalla dialettica, cioè da una lettura “dialettica degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola”,  e in genere di tutta la spiritualità ignaziana, appresa alla scuola del gesuita francese Gaston Fessard.  Una dialettica certo non hegeliana, bensì risolta nella Trascendenza e nella Chiesa.

Ma tutta la storia umana, da Eraclito fino a Hitler, è dominata dalla dialettica. Per il filosofo greco il gene della guerra, “pόlemos”, era “il padre e principio di tutte le cose, di tutte re”, gli uni svelando come dei, gli altri come uomini, gli uni facendo schiavi, gli altri liberi; e questa dialettica conflittuale, dominando tutto il corso storico, è giunta ultimamente, ai nostri giorni, a preconizzare la fine, perfino fisica, del mondo.

Ed ecco che il gesuita divenuto papa Francesco porta la Chiesa fuori della dialettica, la fa non signora ma serva (lava i piedi a tutti, all’Europa, alle donne, ai musulmani), la fa sorella delle altre Chiese e altre fedi, la fa madre della fraternità umana, nunzia dell’ “armonia delle diversità”, non solo di colore, di razza, di sesso, di lingua, ma anche di religione, tutte frutto “di una sapiente volontà divina con la quale Dio ha creato gli esseri umani”, come dice il documento cristiano-islamico di Abu Dhabi, e la fa testimone dello scambio, e non della contraddizione, tra grazia e libertà.

Ma ancora di più con la sua incessante tessitura dell’unità umana, papa Francesco spinge il mondo ad uscire dalla legge ferina della dialettica (amico-nemico, sommersi e salvati, uomini e donne, cittadini e stranieri, identità collettive e minoranze, “prima noi” e “fuori loro”) per assumere la veste nuziale dell’accoglienza, dell’inclusione, dell’eguaglianza e dell’amore.

Che sia questo ripudio della dialettica, strumento del potere, altare dei contrari, assieme al ripudio della guerra che già abbiamo costituzionalizzato, il cambiamento d’epoca che abbiamo intravisto e stiamo aspettando?

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21 aprile 2019 – PASQUA di RESURREZIONE

J.M. CASTILLO

    1. Nel racconto dell’ultimo dei vangeli, quello di Giovanni, la Passione e la Risurrezione costituiscono un’unità fin dal principio. Il racconto della passione non è mai stato trasmesso senza quello della Pasqua e viceversa (J. Zumstein). Il ricordo di Gesù unisce inseparabilmente sofferenza e gloria, fallimento e pienezza. Nella fede cristiana si uniscono e si fondono l’aspetto più doloroso e quello più felice. L’equilibrio della vita è l’equilibrio di queste due realtà, pilastri della nostra esistenza.

    2. La domenica della Pasqua di Risurrezione è il giorno più importante dell’anno per noi cristiani, perché in questo giorno ricordiamo l’avvenimento determinante della nostra esistenza. La Risurrezione è l’offerta di senso più decisiva nelle nostre vite, perché il Risorto ci dice che la morte, il fallimento, la distruzione, nulla di questo, sebbene ne facciamo esperienza palpabile come cosa evidente e negativa, ha l’ultima parola nella totalità di quanto esiste o possa esistere. Malgrado tutto, ci sono la forza della vita, la pienezza della vita, la speranza di un’esistenza che saziano tutti i nostri aneliti, gioie e desideri di felicità.

    3. Come è logico, nulla di ciò è evidente. Tutto ciò si sa, si attende e diventa possibile grazie alla fede. Poiché crediamo nel Signore della vita, per questo crediamo nel fatto che la morte non è la fine. Al contrario, la morte è l’inizio. Perché il momento della morte è il momento della trasformazione di una modalità di esistenza, sempre limitata e carica di sofferenze, ad un’altra modalità di esistenza, che soddisfa ogni possibile desiderio e ogni gioia, per quanto immaginaria ci possa sembrare.

  1. Dato per assodato quanto detto, possiamo (e dobbiamo) affermare che per noi cristiani la Domenica della Pasqua di Risurrezione è la festa centrale, fondamentale e decisiva di tutto l’anno, perché è il giorno della speranza, il giorno che ci spalanca le porte del futuro. Vediamo con pessimismo questo mondo, la piega che vanno prendendo le cose, il futuro che ci attende. Ebbene, la cosa più di grande di questo giorno è che sta a significare questo: il nostro futuro è la pienezza della felicità.

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11 APRILE 2019

Ritiro Spirituale per le Autorità Civili ed Ecclesiastiche del Sud Sudan – Discorso del Santo Padre:

Non mi stancherò mai di ripetere che la pace è possibile!

Alle ore 17, presso la Domus Sanctae Marthae in Vaticano, ha avuto luogo il momento conclusivo del Ritiro Spirituale con la partecipazione delle Autorità Civili ed Ecclesiastiche del Sud Sudan, organizzato di comune accordo tra la Segreteria di Stato e l’Ufficio dell’Arcivescovo di Canterbury Sua Grazia Justin Welby.

Saluto iniziale

  1. Rivolgo il mio saluto cordiale a ciascuno di voi qui presenti, al Signor Presidente della Repubblica, alla Signora e ai Signori Vicepresidenti della futura Presidenza della Repubblica, che ai sensi del Revitalised Agreement on the Resolution of Conflict in South Sudan assumeranno alti incarichi di responsabilità nazionali il 12 maggio prossimo.

Saluto fraternamente i membri del Consiglio delle Chiese del Sud Sudan, i quali spiritualmente accompagnano il cammino del gregge affidato loro nelle rispettive comunità. Vi ringrazio per la buona volontà e il cuore aperto con cui avete accolto il mio invito a partecipare a questo ritiro in Vaticano.

Un saluto del tutto particolare vorrei indirizzare all’Arcivescovo di Canterbury, Sua Grazia Justin Welby, ideatore di questa iniziativa – è un fratello che va sempre avanti nella riconciliazione –, come pure al già Moderatore della Chiesa Presbiteriana di Scozia, Rev. John Chalmers.

Insieme a voi rendo lode a Dio, con cuore riconoscente ed esultante, perché ci ha reso possibile vivere insieme questi due giorni di grazia alla sua santa presenza per invocare e ricevere la sua pace.

  1. La pace è il primo dono

Desidero indirizzarmi a voi tutti con le parole del Signore risorto: «Pace a voi!» (Gv 20,19)…. È quanto mai importante per noi ricordare che proprio “pace” è stata la prima parola che la voce del Signore ha pronunciato, il primo dono offerto agli Apostoli dopo la sua dolorosa passione e dopo aver vinto la morte.

Anch’io rivolgo lo stesso saluto a voi, che siete venuti da un contesto di grande tribolazione per voi e per il vostro popolo, un popolo molto provato per le conseguenze dei conflitti. Che tali parole risuonino nel cenacolo di questa Casa come quelle del Maestro, in modo che tutti e ciascuno possano ricevere nuova forza per portare avanti il desiderato progresso della vostra giovane Nazione e, come il fuoco della Pentecoste per la giovane comunità dei cristiani, si possa accendere una nuova luce di speranza per tutto il popolo sud sudanese. È pertanto con tutto questo nel mio cuore che vi dico: «Pace a voi!».

La pace è il primo dono che il Signore ci ha portato ed è il primo compito che i capi delle Nazioni devono perseguire: essa è la condizione fondamentale per il rispetto dei diritti di ogni uomo nonché per lo sviluppo integrale dell’intero popolo.

Gesù Cristo, che Dio Padre ha inviato nel mondo quale Principe della Pace, ci ha dato il modello da seguire. Egli, passando attraverso il sacrificio e l’obbedienza, ha donato la sua pace al mondo…. Che gioia se tutti i membri del popolo sud sudanese potessero elevare a una sola voce il canto che riecheggia quello angelico: «O Dio, noi ti preghiamo e ti glorifichiamo per la tua grazia in favore del Sud Sudan, Terra di grande abbondanza; sostienici uniti e in armonia» (Prima strofa dell’Inno nazionale del Sud Sudan). E come desidererei che le voci di tutta la famiglia umana potessero associarsi a questo coro celeste per proclamare gloria a Dio e promuovere la pace tra gli uomini!

  1. Sguardo di Dio

Questo nuovo spazio di esperienza è caratterizzato dal raccoglimento interiore, dalla preghiera fiduciosa, dalla riflessione ponderata e dagli incontri riconcilianti,… Lo scopo di questo ritiro è quello di stare insieme davanti a Dio e discernere la sua volontà; è riflettere sulla propria vita e sulla comune missione che ci affida; è rendersi consapevoli dell’enorme corresponsabilità per il presente e per il futuro del popolo sud sudanese; è impegnarsi, rinvigoriti e riconciliati, per la costruzione della vostra Nazione….

Il gemito dei poveri che hanno fame e sete di giustizia ci obbliga in coscienza e ci impegna nel nostro servizio. Essi sono piccoli agli occhi del mondo, ma sono preziosi agli occhi di Dio. Quando uso questa espressione “gli occhi di Dio”, penso allo sguardo del Signore Gesù…., l’Unico in grado di vedere in noi la verità e di condurci pienamente ad essa. La Parola di Dio ci dona un bell’esempio di come l’incontro con lo sguardo di Gesù può segnare i momenti più importanti della vita di un suo discepolo. Si tratta dei tre sguardi del Signore sull’apostolo Pietro, che qui vorrei ricordare:

Il primo sguardo di Gesù su Pietro quando suo fratello Andrea lo aveva portato da Lui, indicandoglielo come Messia: Gesù fissa il suo sguardo su Simone e gli dice che d’ora in poi si chiamerà Pietro (cfr Gv 1,41-42). Successivamente gli annuncerà che su questa “pietra” edificherà la sua Chiesa, mostrandogli così di contare su di lui per realizzare il piano di salvezza per il suo popolo. Il primo sguardo, dunque, è lo sguardo dell’elezione che ha suscitato l’entusiasmo per una missione speciale.

Il secondo sguardo avviene nella tarda notte del giovedì santo. Pietro ha rinnegato il suo Signore per la terza volta. Gesù, portato via a forza dalle guardie, fissa lo sguardo su di lui, suscitando questa volta in lui un doloroso ma salutare pentimento. L’apostolo scappò via e «pianse amaramente» (Mt 26,75) per aver tradito la vocazione, la fiducia e l’amicizia del Maestro….

Infine, dopo la risurrezione, sulla riva del lago di Tiberiade, Gesù ha fissato ancora il suo sguardo su Pietro, chiedendogli di dichiarare il suo amore per tre volte e affidandogli di nuovo la missione di pastore del suo gregge, indicandogli anche come questa sua missione sarebbe culminata nel sacrificio della vita (cfr Gv 21,15-19)….

Cari fratelli e sorelle, lo sguardo di Gesù si posa anche adesso, qui ed ora, su ciascuno di noi. È molto importante incrociarlo con i nostri occhi interiori, domandandoci: Qual è oggi lo sguardo di Gesù su di me? … Qual è la mia missione e il compito che Dio mi affida per il bene del suo popolo? Il popolo infatti è suo, non appartiene a noi, … Siamo sicuri che il suo sguardo ci conosce a fondo, ci ama e ci trasforma, ci riconcilia e ci unisce. Il suo sguardo benevolo e misericordioso ci incoraggia a rinunciare alla strada che porta al peccato e alla morte e ci sostiene nel proseguire il cammino della pace e del bene….

3 lo sguardo del popolo

Un altro sguardo è posto su di voi: lo sguardo del nostro popolo, ed è uno sguardo che esprime il desiderio ardente di giustizia, di riconciliazione e di pace. In questo momento desidero assicurare la mia vicinanza spirituale a tutti i vostri connazionali, in particolare ai rifugiati e ai malati, rimasti nel Paese con grandi aspettative e con il fiato sospeso, in attesa dell’esito di questo giorno storico.

I miei pensieri vanno innanzitutto alle persone che hanno perso i loro cari e le loro case, alle famiglie che si sono separate e mai più ritrovate, a tutti i bambini e agli anziani, alle donne e agli uomini che soffrono terribilmente a causa dei conflitti e delle violenze che hanno seminato morte, fame, dolore e pianto. Questo grido dei poveri e dei bisognosi lo abbiamo sentito fortemente, esso penetra i cieli fino al cuore di Dio Padre che vuole dar loro giustizia e donare loro la pace.

A queste anime sofferenti penso spesso e imploro che il fuoco della guerra si spenga una volta per sempre, che possano tornare nelle loro case e vivere in serenità….

  1. La pace è possibile

Cari fratelli e sorelle, la pace è possibile! Non mi stancherò mai di ripetere che la pace è possibile! Ma questo grande dono di Dio è allo stesso tempo anche un forte impegno degli uomini responsabili verso il popolo.

Noi cristiani crediamo e sappiamo che la pace è possibile perché Cristo è risorto e ha vinto il male con il bene, ha assicurato ai suoi discepoli la vittoria della pace su quei complici della guerra che sono la superbia, l’avarizia, la brama di potere, l’interesse egoistico, la menzogna e l’ipocrisia.

Auspico per tutti noi che sappiamo accogliere l’altissima vocazione di essere artigiani di pace!… Vi esorto pertanto a cercare ciò che vi unisce, a partire dall’appartenenza allo stesso popolo, e superare tutto ciò che vi divide.

La gente è stanca ed esausta ormai per le guerre passate: …Auspico di cuore che definitivamente cessino le ostilità, che l’armistizio sia rispettato!, che le divisioni politiche ed etniche siano superate e che la pace sia duratura, per il bene comune di tutti i cittadini che sognano di cominciare a costruire la Nazione….

Che l’abbondanza della grazia e della benedizione di Dio Misericordioso raggiunga il cuore di ogni uomo e di ogni donna in Sud Sudan e porti frutti di pace duratura e rigogliosa, nella stessa maniera come le acque del fiume Nilo, che attraversano il vostro Paese, fanno crescere e fiorire la vita….

  1. Preghiera finale

Padre santo, Dio di infinita bontà, Tu ci chiami a rinnovarci nel tuo Spirito e manifesti la tua onnipotenza soprattutto nella grazia del perdono. Riconosciamo il tuo amore di Padre quando pieghi la durezza dell’uomo e in un mondo lacerato da lotte e discordie lo rendi disponibile alla riconciliazione.

Molte volte gli uomini hanno infranto la tua alleanza e Tu, invece di abbandonarli, hai stretto con loro un vincolo nuovo per mezzo di Gesù, tuo Figlio e nostro redentore: un vincolo così saldo che nulla potrà mai spezzarlo.

Ti preghiamo di agire, con la forza dello Spirito, nell’intimo dei cuori, perché i nemici si aprano al dialogo, gli avversari si stringano la mano e i popoli si incontrino nella concordia.

Per tuo dono, Padre, la ricerca sincera della pace estingua le contese, l’amore vinca l’odio e la vendetta sia disarmata dal perdono, perché, affidandoci unicamente alla tua misericordia ritroviamo la via del ritorno a Te, e aprendoci all’azione dello Spirito Santo viviamo in Cristo la vita nuova, nella lode perenne del tuo nome e nel servizio dei fratelli….

Cari fratelli e sorelle, a voi tre, che avete firmato l’Accordo di pace, chiedo, come fratello: rimanete nella pace! Ve lo chiedo con il cuore. Andiamo avanti! Ci saranno tanti problemi, ma non spaventatevi!… risolvete i problemi! Voi avete avviato un processo: che finisca bene!

Ci saranno lotte fra voi due, sì. Anche queste avvengano dentro l’ufficio, ma davanti al popolo, rimanete con le mani unite. Così, da semplici cittadini diventerete Padri della Nazione. Permettetemi di chiederlo con il cuore.

PAPA FRANCESCO

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QUARESIMA

Per comprendere il significato di questo periodo occorre esaminare la diversa liturgia pre e post-conciliare. Prima della riforma liturgica, l’imposizione delle ceneri era accompagnata dalle parole “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”, secondo la maledizione del Signore all’uomo peccatore contenuta nel Libro della Genesi (Gen 3,19). E con questo lugubre monito iniziava un periodo caratterizzato dalle penitenze, dai sacrifici e dalle mortificazioni.

Oggi l’imposizione delle ceneri è accompagnata dall’invito evangelico “Convertiti e credi al vangelo”, secondo le prime parole pronunciate da Gesù nel Vangelo di Marco (Mc 1,15). Un invito al cambiamento di vita, orientando la propria esistenza al bene dell’altro e a dare adesione alla buona notizia di Gesù.

L’uomo non è polvere e non tornerà polvere, ma è figlio di Dio, e per questo ha una vita di una qualità tale che è eterna, cioè indistruttibile, e per questo capace di superare la morte. In queste due diverse impostazioni teologiche sta il significato della quaresima.

Mai Gesù nel suo insegnamento ha invitato a fare penitenza, a mortificarsi, e tanto meno a fare sacrifici. Anzi, ha detto il contrario: “Misericordia io voglio e non sacrifici (Mt 12,7). I sacrifici centrano l’uomo su se stesso, sulla propria perfezione spirituale, la misericordia orienta l’uomo al bene del fratello.

Sacrifici, penitenze, mortificazioni non fanno che centrare l’uomo su se stesso, e nulla può essere più pericoloso e letale di questo atteggiamento. Paolo di Tarso, in quanto fanatico fariseo, era un convinto assertore di queste pratiche. Una volta conosciuto Gesù, arriverà a scrivere nella Lettera ai Colossesi:

Nessuno dunque vi condanni in fatto di cibo o di bevanda, o per feste, noviluni e sabati… Se con Cristo siete morti agli elementi del mondo, perché …lasciarvi imporre precetti quali: non prendere, non gustare, non toccare? Sono tutte cose destinate a scomparire, sono prescrizioni e insegnamenti umani, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne” (Col 2,16.20-23).

Paolo aveva compreso molto bene che queste pratiche centrano l’uomo su se stesso, nel miraggio di una impossibile perfezione spirituale, tanto lontana e irraggiungibile quanto grande è la propria ambizione. Per questo Gesù invita invece al dono di sé, immediato e concreto, tanto quanto è grande la propria capacità di amare.

La quaresima è orientata alla Pasqua di risurrezione. Per questo non è tempo di mortificazioni, ma di vivificazioni. Si tratta di scoprire forme nuove, originali, inedite, di perdono, di generosità e di servizio, che innalzano la qualità del proprio amore per metterlo in sintonia con quello del Vivente, e così sperimentare la Pasqua come pienezza della vita del Cristo e propria.

L’imposizione delle ceneri è la pratica che si rifà all’uso agricolo dei contadini che conservavano tutto l’inverno le ceneri del camino, per poi, verso la fine dell’inverno, spargerle sul terreno, come fattore vitalizzante per dare nuova energia alla terra. Ed è questo il significato delle ceneri: l’accoglienza della buona notizia di Gesù (“Convertiti e credi al vangelo”), è l’elemento vitale che vivifica la nostra esistenza, fa scoprire forme nuove originali di amore, e fa fiorire tutte quelle capacità di dono che sono latenti e che attendevano solo il momento propizio per emergere.

Alberto Maggi

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LA NOTTE VIGILE DEI POVERI

di Pedro Casaldáliga e José María Vigil

Sappiamo già che la solidarietà è in crisi. Parlare di crisi della solidarietà potrà sembrare un luogo comune, ma si tratta di una verità forte che, da un lato o dall’altro, colpisce tutti noi: quelli che dovrebbero esprimere solidarietà e quelli che hanno bisogno di riceverla. O, meglio, tutti noi che abbiamo bisogno di riceverla e di darla, perché la solidarietà è un mistero di reciprocità fraterna ineludibile.

Segni di questa crisi non mancano certo. Ci riferiamo soprattutto alla solidarietà con l’America Latina. Delle migliaia di comitati di solidarietà che si sono avuti, in tutto il mondo, con il Nicaragua, per esempio, la maggior parte è scomparsa. Ed è curioso osservare che, nel caso concreto della Spagna, sono scomparsi i cosiddetti comitati “politici”, mentre rimangono quelli “cristiani”. Per rispetto della verità è giusto riconoscere, riguardo ai primi, che alcuni si sono uniti ad altri organismi più universali di solidarietà.

Tuttavia, resta valida l’osservazione di Enrique Dussel: forse in certi momenti di disillusione storica, quando la speranza “scientifica” è stata sconfitta dai fatti, permane, nella notte della fede, più in là delle certezze scientifiche, la speranza contro ogni speranza che è propria dei cristiani. Il che non significa che tale crisi non colpisca profondamente anche i cristiani e le cristiane, soprattutto quando anch’essi attribuiscono il giusto valore alla storia e alla scienza….

La solidarietà è una forma piena della carità di sempre, ma con un’esperienza critica, storica, politica, geopolitica, di spiritualità integrale. La solidarietà è la carità potenziata dall’opzione per i poveri. La stessa crisi che l’opzione per i poveri sta attraversando nel cuore di tanti e in tanti settori della Chiesa.

L’opzione per i poveri è entrata nella sua notte oscura. Molti si stanno domandando “cosa resti dell’opzione per i poveri”. Intesa come opzione per le Cause dei poveri, e non solamente per le loro sofferenze o la loro emarginazione.

I motivi di questa maggiore crisi sono molti, clamorosi, totali.

– Il crac dell’Est europeo e la caduta del socialismo reale e il presunto trionfo del nuovo impero del liberismo e l’egemonia totale del mercato.

– Il fatto che non si “veda” un progetto storico dei poveri, alternativo, che sia praticabile in questo periodo globalizzato della politica e dell’economia. L’opzione per i poveri deve essere fatta più controcorrente, senza l’appoggio sensibile di un organigramma, senza la forza manovrabile di una speranza meccanicista che le dia una credibilità in termini di fattibilità storica prossima…. La nostra “speranza contro ogni speranza” è una speranza contro ogni apparenza, la fede contro ogni evidenza, l’amore contro ogni impossibilità….

Non bisogna pretendere l’impossibile. Ci lasciamo spesso abbattere perché esageriamo il negativo e pretendiamo l’impossibile in questo periodo della caduta “del socialismo” e dell’euforia neoliberista. Anche noi possiamo finire per riconoscere, più o meno avventatamente, che “la storia non va più oltre”.

La fede è quella luce che brilla in un luogo di tenebre, come diceva l’apostolo Pietro (cfr 2 Pt 1,19). E bisogna usarla per illuminare criticamente le tenebre della storia, la menzogna del potere e la fascinazione degli idoli.

  • Si impone una migliore analisi di “quanto è avvenuto”, sia nel socialismo reale dell’Est che nelle nostre rivoluzioni latinoamericane e nel “trionfo” del neoliberismo. Molte persone, anche tra quelle che poco tempo fa erano critiche nei confronti del progetto capitalista e della dominazione imperialista, ora – introiettando la visione dell’oppressore – accettano la versione che il capitale e l’impero danno di “quanto è avvenuto”: quanto è avvenuto, pensano, è che il progetto dei poveri – quale che sia il suo nome o la sua modalità – è collassato da sé, internamente; perché era, è e sarà sempre un progetto impraticabile. Nella storia emerge solo il progetto dei ricchi.

  • La guerra fredda e, nel nostro caso, la guerra di bassa intensità, condotta dalla potenza più aggressiva della terra; le condanne internazionali, anche da parte della Corte dell’Aia; la violazione dei diritti dei Popoli che hanno rappresentato le invasioni della Repubblica Dominicana, di Grenada, di Panamá; il crescente debito estero che ci rende impossibile la normalità, tutto questo o non è esistito, a quanto pare, o non esiste più. È stato tutto semplicemente il collasso interno dell’“impossibile” progetto dei poveri.

  • Si impone anche un rifiuto critico del presunto “trionfo” del capitalismo neoliberista. Perché, noi perlomeno, non vediamo da nessuna parte questo trionfo, se ci riferiamo all’immensa maggioranza dell’umanità…..

  • Bisogna saper rifiutare le false certezze che introiettiamo quasi inconsciamente con l’egemonia del potere dominante. Per esso, infatti, il nostro “decennio perduto”, per esempio, è stato il decennio di migliori guadagni. Wall Street dispone di dati convincenti: questo è stato il decennio di più alti profitti costanti per la Banca Mondiale.

  • Non possiamo perdere mai neppure la memoria storica, fondamento dell’identità di un popolo e autocoscienza della sua praticabilità futura. I trionfi e le cadute degli imperi che si succedono costituiscono la ruota della storia dell’umanità. Oggi stiamo vivendo semplicemente un nuovo momento di un nuovo impero, nient’altro…..

  • Non è vero che “qualunque passato è stato migliore”. Né il passato remoto, né il passato immediato. … Noi cristiani, soprattutto, dobbiamo vivere sempre il presente di Dio nel nostro presente umano….

  • La prepotenza del male appare più facilmente di quanto faccia la forza nascosta dei semi del bene. C’è molta più vitalità alternativa di quella che appare, a livello di società e di Chiesa, nel nostro Terzo Mondo e anche nel Primo. Sono molte le voci e le forze che si stanno unendo, in contestazione, in profezia, in solidarietà. Il fatto che ci sentiamo immersi nella notte non significa che non ci siano molte stelle e un nuovo sole alla porta dell’alba…

Il mistero dell’Incarnazione è l’espressione massima, storica, sottomessa alle nostre vicissitudini, della solidarietà di Dio con l’umanità. Gesù è la solidarietà di Dio fatta carne e sangue, vita e morte, passione e risurrezione. In Lui e attraverso di Lui sappiamo che Dio è amore solidale.

Non abbiamo molti comandamenti. Ne abbiamo solo uno: “amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”. Il comandamento nuovo dell’amore nuovo si traduce nella pratica quotidiana e nella vita sociale e nell’organizzazione politica ed economica della società, attraverso la solidarietà effettiva: disinteressata ed efficace. Con tutti, ma più specificamente, e prima di tutto e sempre, con questi fratelli e sorelle “più piccoli”.

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Abbattiamo i muri, costruiamo una fraternità universale

Tavola della pace  30/01/2019, 13:47

Il 9 novembre 1989 cadeva il Muro di Berlino. E fu una grande festa. Era la fine della Guerra Fredda, della divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi contrapposti. L’inizio di una nuova storia.

Trent’anni dopo, molti altri muri minacciano i nostri diritti, i beni comuni, la nostra voglia di libertà e di giustizia. Molti sono stati innalzati negli ultimi anni. Altri sono ancora in costruzione nei nostri paesi, in Europa e nel mondo. Non servono per proteggere ma per respingere, chiudere, rinchiudere, oscurare, dividere.

Alcuni sono muri di cemento armato e filo spinato. Altri sono invisibili ma ancora più estesi e devastanti. Sono i muri dell’indifferenza, dell’antagonismo infinito, della competizione selvaggia, dell’ingiustizia, delle disuguaglianze, della miseria, della paura, del pregiudizio, dell’intolleranza, dell’odio. Sono i muri mediatici che alimentano paure, conflitti, ignoranza, individualismo e incomprensioni. Sono muri che ci mettono gli uni contro gli altri, che lacerano la vita di persone, famiglie, comunità, popoli e paesi. E che minacciano di distruggere la nostra stessa Europa.

Contro tutti questi muri che ci stanno togliendo la libertà, distruggendo la nostra umanità, la pace e il sogno di una vita e di un mondo migliori, noi vogliamo insorgere reagire.

Invece dei muri noi vogliamo costruire fraternità, una fraternità universale: un modo realmente nuovo, moderno, di vedere, intendere e organizzare le relazioni tra le persone e i popoli, i rapporti con la natura, la società, l’economia. È tempo di unire le nostre mani per affrontare insieme, con la nonviolenza, le sfide aperte, prenderci cura gli uni degli altri, non lasciare nessuno indietro, curare assieme la casa comune.

Abbattendo i muri, visibili e invisibili, noi vogliamo contrastare le divisioni, l’individualismo, le disuguaglianze, le ingiustizie, la solitudine, le persecuzioni, le violenze, le guerre, la corsa al riarmo. Vogliamo riunire la famiglia umana, costruire la casa comune europea, l’onu dei popoli (non delle Istituzioni!), un ordine mondiale più giusto, solidale e democratico e una nuova società dove a tutti gli esseri umani vengano effettivamente riconosciuti la stessa dignità e gli stessi diritti fondamentali. La cittadinanza universale, plurale e inclusiva, deve prevalere sulla cittadinanza nazionale. Siamo tanti e diversi in un mondo di risorse finite che dobbiamo salvare e condividere: dobbiamo imparare ad agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

La costruzione del Muro di Berlino segnò un’epoca molto buia e drammatica dell’Europa e del mondo. Per lungo tempo, quel muro sembrò inamovibile. Ma poi, sotto la pressione di milioni di persone, venne abbattuto. Nel nome della libertà e dei diritti umani.

TAVOLA DELLA PACE”,

gruppo di persone, 200 associazioni diverse tra loro, laiche e confessionali, impegnate nei campi più diversi, che sente il dovere di impegnarsi per difendere e costruire la pace.

Da molti anni organizziamo la Marcia PerugiAssisi, sosteniamo il Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace e i diritti umani.. Crediamo nella pace. Anche quando molti altri smettono di farlo. E siccome ci crediamo, ci lavoriamo. Mettendoci tutto l’impegno, la passione e la creatività che abbiamo.

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Amare i poveri

La nostra grande colpa come cristiani non è che dopo duemila anni ci siano ancora dei poveri, ma che sia umiliante e vergognoso fare il povero in terra cristiana, e che qualche forma della nostra carità ne abbia ribadito la vergogna.

Metterli davanti, ai primi posti, una volta tanto: potrebbe anche essere una messa in scena. Mi pare che ci fosse un giorno dell’anno in cui gli stessi schiavi venivano serviti a tavola dai padroni. Ma il giorno appresso si era da capo. Gesù li mette davanti; ma c’è anche lui coi poveri, povero come tutti e dì più. Egli non è uno spettatore che fa il povero, egli è il Povero.

E l’onore e la dignità gliel’ha confermata al povero in questa maniera: non genericamente, alla povertà, ma a ciascuno, poiché egli è in ciascuno che ha fame e sete, che è senza casa e senza vestito, malato e prigioniero… come in un ostensorio. L’ostensorio viene portato dal sacerdote più in alto in gerarchia. Il povero che porta l’ostensorio di Cristo non è più l’ultimo, ma il primo; e allora lo si mette a tavola e si è felici di servirlo, perché da questo servizio dipende la nostra salvezza.

“Se ci vuol tanto bene, a noi poveri, perché non ci fa tutti ricchi?”. Ricchi! E diciamo questa magica parola, come se dicessimo: felici! Se la ricchezza fosse sinonimo di felicità, avremmo ragione di dire a Cristo: “Che ne facciamo di un onore e di una dignità che non rendono?”. Ma non è così. E dell’illusione che ci manca, ci compensa col metterci al primo posto ovunque, in chiesa e in paradiso.

E “perché non veniamo meno lungo la via”, dice agli altri, che si sono fatti padroni dei beni di tutti, che non li possono tenere o che li possono tenere solo al patto che siano di tutti e che li amministrino come fa la mamma, che prima serve i figliuoli e, se n’avanza, quel poco che sopravanza, se lo tiene. Il di più è per i figliuoli, lo dà ai figliuoli.

Non so se questo è il significato comune della parola del Signore: “Il di più datelo ai poveri”. So però che quando nel nostro cuore entra un grande amore, l’ultimo posto è il nostro, e la misura “non misurata, scossa, sovrabbondante” va a finire dove pure il nostro cuore riposa. Gesù, con noi poveri, ha fatto così: i santi hanno fatto così. Chi ama Cristo nei poveri non conosce certe difficoltà esegetiche, che sono piuttosto del cuore che del linguaggio. Quando il cuore non vuole capire, allora ci si fa precedere dalla ragione, che assai di rado capisce le ragioni che solo il cuore può capire.

Primo Mazzolari, Il compagno cristo [1945], Edizioni Dehoniane, Bologna 1977

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Il presepe vivente.
Una norma cattiva e parole al vento.

Marco Tarquinio

Tratto da AVVENIRE di sabato 1 dicembre 2018

Il presepe di cui qui si parla è vivente.

Loro sono giovanissimi: Giuseppe (Yousuf), Fede (Faith) e la loro creatura. Che è già nata, è una bimba e ha appena cinque mesi. Giuseppe viene dal Ghana, Fede è nigeriana, entrambi godono – è questo il verbo tecnico – della «protezione umanitaria» accordata dalla Repubblica Italiana. Ora ne stanno godendo… in mezzo a una strada. Una strada che comincia appena fuori di un Cara calabrese e che, senza passare da nessuna casa, porta dritto sino al Natale. Il Natale di Gesù: Uno che se ne intende di povertà e grandezza, di folle adoranti e masse furenti, di ascolto e di rifiuto, del “sì” che tutto accoglie e tutti salva e dei “no” che si fanno porte sbattute in faccia e poi chiodi di croce.

Giuseppe e Fede solo stati abbandonati, con la loro creatura, sulla strada che porta al Natale e, poi, non si sa dove. Sono parte di un nuovo popolo di “scartati”, che sta andando a cercare riparo ai bordi delle vie e delle piazze, delle città e dell’ordine costituito, ingrossando le file dei senza niente. Sono i senza più niente.

Avevano trovato timbri ufficiali e un “luogo” che si chiama Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) su cui contare per essere inclusi legalmente nella società italiana, apprendendo la nostra lingua, valorizzando le proprie competenze, studiando per imparare cose nuove e utili a se stessi e al Paese che li stava accogliendo. Adesso quel luogo non li riguarda più. I “rifugiati” sì, i “protetti” no. E a loro non resta che la strada, una strada senza libertà vera, e gli incontri che la strada sempre offre e qualche volta impone: persone perbene e persone permale, mani tese a dare e a carezzare e mani tese a prendere e a picchiare, indifferenza o solidarietà.

Si può essere certi che il ministro dell’Interno, come i parlamentari che hanno votato e convertito in legge il suo decreto su Sicurezza e Immigrazione, non ce l’avesse con Giuseppe, Fede e la loro bimba di cinque mesi. Ma è un fatto: tutti insieme se la sono presa anche con loro tre, e con tutti gli altri che il Sistema sta scaricando fuori dalla porta. Viene voglia di chiamarla “la Legge della strada”. Che come si sa è dura, persino feroce, non sopporta i deboli e, darwinianamente, li elimina. È un fatto: la nuova “Legge della strada” già comanda sulla vita di centinaia di persone che diverranno migliaia e poi decine di migliaia. Proprio come avevamo avvertito che sarebbe accaduto.

Eccolo, allora, davanti ai nostri occhi il presepe vivente del Natale 2018. Allestito in una fabbrica dell’illegalità costruita a suon di norme e di commi. Campane senza gioia, fatte suonare per persone e famiglie, alle quali resta per tetto e per letto un misero foglio di carta, che ironicamente – e ormai vuotamente – le definisce meritevoli di «protezione umanitaria». Ma quelle campane tristi suonano anche per noi !

P.S. Per favore, chi ha votato la “Legge della strada” ci risparmi almeno parole al vento e ai social sullo spirito del Natale, sul presepe e sul nome di Gesù. Prima di nominarlo, Lui, bisogna riconoscerlo.


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Una riflessione di p. Ernesto Balducci.

Quando riflettiamo sulla Croce, è difficile comprendere come essa sia una forza di distruzione di tutto ciò che appartiene ai poteri di questo mondo, ivi compresa la legge fatta di prescrizioni e di decreti.

Gesù sulla Croce ha distrutto in sé l’inimicizia, ha abolito gli steccati che separano gli uomini ed ha abolito ogni pretesa degli uomini di dominare le coscienze – per quanto apparentemente legittima. Egli ha realizzato in sé le condizioni vere per la pace.

Come possiamo continuare a ripetere il Vangelo mettendo fra parentesi la provocazione che nasce dai fatti?

Dobbiamo rendere conto del perché questo annuncio di pace, segnato dal suo sangue, è stato così sterile. Siamo in un mondo di guerra, come si era nel passato, e non sembra che i cristiani siano capaci di abolire la logica della guerra; ci stanno dentro, la legittimano, ne traggono perfino vantaggi!

. Eppure Gesù sulla Croce «distrugge l’inimicizia»?

Quando si volesse dare del peccato originale una comprensione pertinente (tema rimasto imprigionato da spiegazioni estranee alla nostra esigenza morale), credo che si potrebbe chiamare peccato originale la tendenza indomita, inestirpabile dall’uomo, a costruirsi nella vita e nei rapporti con gli altri, cioè a seguire la linea della volontà di potenza. […]

La volontà di potenza ha dei luoghi di manifestazione, che sono poi i luoghi in cui sempre la riconosciamo: il primo luogo, quello più specifico, è il livello del potere, soprattutto nelle istituzioni: nelle istituzioni si concretizza la volontà di potenza. Ivi sono i falsi pastori, i quali ritengono – magari in nome di Dio – di avere il diritto di dispensare le coscienze dalla loro autonomia, dalla loro responsabilità, e si assumono il diritto di dare disposizioni e ordini in nome di Dio, senza premurarsi che le loro parole passino attraverso l’accoglimento libero delle coscienze. Questo modo di governare – lo dice Gesù – è proprio dei pagani. Gesù dice: chi vuol comandare deve servire, le coscienze innanzitutto.

I falsi pastori non sono quelli che portano scritta la falsità sulla fronte. Ma sono falsi pastori quanti utilizzano il gregge secondo obiettivi che non hanno niente a che fare con la liberazione delle coscienze. Sono i pastori che un giorno ci dicono che i nemici sono ad Occidente, un giorno che sono ad Oriente, un giorno ci dicono che la proprietà è sacra, un giorno ci dicono che è bene comune… danno disposizioni contando sulla nostra cieca obbedienza. E nei momenti in cui dovrebbero parlare, non parlano…. Non sono guide delle coscienze. Per essere guida occorre tanta umiltà per ascoltare le coscienze, perché esse sono i luoghi in cui si manifesta la volontà di Dio. Dobbiamo rifiutare ogni soggezione della coscienza al potere….

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Via Crucis presieduta dal Santo Padre Francesco

venerdì, 30 marzo 2018

Preghiera del Santo Padre

Riportiamo di seguito la preghiera composta dal Santo Padre, che Egli ha recitato al termine della Via Crucis:

Signore Gesù, il nostro sguardo è rivolto a te, pieno di vergogna, di pentimento e di speranza. Dinanzi al tuo supremo amore ci pervada la vergogna per averti lasciato solo a soffrire per i nostri peccati:

la vergogna per essere scappati dinanzi alla prova pur avendoti detto migliaia di volte: “anche se tutti ti lasciano, io non ti lascerò mai”; la vergogna di aver scelto Barabba e non te, il potere e non te, l’apparenza e non te, il dio denaro e non te, la mondanità e non l’eternità; la vergogna per averti tentato con la bocca e con il cuore, ogni volta che ci siamo trovati davanti a una prova, dicendoti: “se tu sei il messia, salvati e noi crederemo!”;
la vergogna perché tante persone, e perfino alcuni tuoi ministri, si sono lasciati ingannare dall’ambizione e dalla vana gloria perdendo la loro dignità e il loro primo amore; la vergogna perché le nostre generazioni stanno lasciando ai giovani un mondo fratturato dalle divisioni e dalle guerre; un mondo divorato dall’egoismo ove i giovani, i piccoli, i malati, gli anziani sono emarginati; la vergogna di aver perso la vergogna! SIGNORE GESÙ, DACCI SEMPRE LA GRAZIA DELLA SANTA VERGOGNA!

Il nostro sguardo è pieno anche di un pentimento che, dinanzi al tuo silenzio eloquente, supplica la tua misericordia: il pentimento che germoglia dalla certezza che solo tu puoi salvarci dal male, solo tu puoi guarirci dalla nostra lebbra di odio, di egoismo, di superbia, di avidità, di vendetta, di cupidigia, di idolatria, solo tu puoi riabbracciarci ridonandoci la dignità filiale e gioire per il nostro rientro a casa, alla vita;

il pentimento che sboccia dal sentire la nostra piccolezza, il nostro nulla, la nostra vanità e che si lascia accarezzare dal tuo invito soave e potente alla conversione; il pentimento di Davide che dall’abisso della sua miseria ritrova in te la sua unica forza; il pentimento che nasce dalla nostra vergogna, che nasce dalla certezza che il nostro cuore resterà sempre inquieto finché non trovi te e in te la sua unica fonte di pienezza e di quiete; il pentimento di Pietro che incontrando il tuo sguardo pianse amaramente per averti negato dinanzi agli uomini. SIGNORE GESÙ, DACCI SEMPRE LA GRAZIA DEL SANTO PENTIMENTO!

Dinanzi alla tua suprema maestà si accende, nella tenebrosità della nostra disperazione, la scintilla della speranza perché sappiamo che la tua unica misura di amarci è quella di amarci senza misura; la speranza perché il tuo messaggio continua a ispirare, ancora oggi, tante persone e popoli e che solo il bene può sconfiggere il male e la cattiveria, solo il perdono può abbattere il rancore e la vendetta, solo l’abbraccio fraterno può disperdere l’ostilità e la paura dell’altro; la speranza perché il tuo sacrificio continua, ancora oggi, a emanare il profumo dell’amore divino che accarezza i cuori di tanti giovani che continuano a consacrarti le loro vite divenendo esempi vivi di carità e di gratuità in questo nostro mondo divorato dalla logica del profitto e del facile guadagno;

la speranza perché tanti missionari e missionarie continuano, ancora oggi, a sfidare l’addormentata coscienza dell’umanità rischiando la vita per servire te nei poveri, negli scartati, negli immigrati, negli invisibili, negli sfruttati, negli affamati e nei carcerati; la speranza perché la tua Chiesa, santa e fatta da peccatori, continua, ancora oggi, nonostante tutti i tentativi di screditarla, a essere una luce che illumina, incoraggia, solleva e testimonia il tuo amore illimitato per l’umanità, un modello di altruismo, un’arca di salvezza e una fonte di certezza e di verità; la speranza perché dalla tua croce, frutto dell’avidità e codardia di tanti dottori della Legge e ipocriti, è scaturita la Risurrezione trasformando le tenebre della tomba nel fulgore dell’alba della Domenica senza tramonto, insegnandoci che il tuo amore è la nostra speranza. SIGNORE GESÙ, DACCI SEMPRE LA GRAZIA DELLA SANTA SPERANZA!

Aiutaci, Figlio dell’uomo, a spogliarci dall’arroganza del ladrone posto alla tua sinistra e dei miopi e dei corrotti, che hanno visto in te un’opportunità da sfruttare, un condannato da criticare, uno sconfitto da deridere, un’altra occasione per addossare sugli altri, e perfino su Dio, le proprie colpe. Ti chiediamo invece, Figlio di Dio, di immedesimarci col buon ladrone che ti ha guardato con occhi pieni di vergogna, di pentimento e di speranza, che, con gli occhi della fede, ha visto nella tua apparente sconfitta la divina vittoria e così si è inginocchiato dinanzi alla tua misericordia E CON ONESTÀ HA DERUBATO IL PARADISO! Amen!

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MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO

PER LA QUARESIMA 2018

«Per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti»

(Mt 24,12)

Cari fratelli e sorelle,

anche quest’anno, con il presente messaggio, desidero aiutare tutta la Chiesa a vivere con gioia e verità in questo tempo di grazia; e lo faccio lasciandomi ispirare da un’espressione di Gesù nel Vangelo di Matteo:

«Per il dilagare dell’iniquità l’amore di molti si raffredderà» (24,12).

Questa frase si trova nel discorso che riguarda la fine dei tempi e che è ambientato a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, proprio dove avrà inizio la passione del Signore. Rispondendo a una domanda dei discepoli, Gesù annuncia una grande tribolazione e descrive la situazione in cui potrebbe trovarsi la comunità dei credenti: di fronte ad eventi dolorosi, alcuni falsi profeti inganneranno molti, tanto da minacciare di spegnere nei cuori la carità che è il centro di tutto il Vangelo.

I FALSI PROFETI

Ascoltiamo questo brano e chiediamoci: quali forme assumono i falsi profeti?

Essi sono come “incantatori di serpenti”, ossia approfittano delle emozioni umane per rendere schiave le persone e portarle dove vogliono loro. Quanti figli di Dio sono suggestionati dalle lusinghe del piacere di pochi istanti, che viene scambiato per felicità! Quanti uomini e donne vivono come incantati dall’illusione del denaro, che li rende in realtà schiavi del profitto o di interessi meschini! Quanti vivono pensando di bastare a sé stessi e cadono preda della solitudine!

Altri falsi profeti sono quei “ciarlatani” che offrono soluzioni semplici e immediate alle sofferenze, rimedi che si rivelano però completamente inefficaci: a quanti giovani è offerto il falso rimedio della droga, di relazioni “usa e getta”, di guadagni facili ma disonesti! Quanti ancora sono irretiti in una vita completamente virtuale, in cui i rapporti sembrano più semplici e veloci per rivelarsi poi drammaticamente privi di senso!

Questi truffatori, che offrono cose senza valore, tolgono invece ciò che è più prezioso come la dignità, la libertà e la capacità di amare. E’ l’inganno della vanità, che ci porta a fare la figura dei pavoni… per cadere poi nel ridicolo; e dal ridicolo non si torna indietro. Non fa meraviglia: da sempre il demonio, che è «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44), presenta il male come bene e il falso come vero, per confondere il cuore dell’uomo.

Ognuno di noi, perciò, è chiamato a discernere nel suo cuore ed esaminare se è minacciato dalle menzogne di questi falsi profeti. Occorre imparare a non fermarsi a livello immediato, superficiale, ma riconoscere ciò che lascia dentro di noi un’impronta buona e più duratura, perché viene da Dio e vale veramente per il nostro bene…..

2° parte:

Un cuore freddo

Dante Alighieri, nella sua descrizione dell’inferno, immagina il diavolo seduto su un trono di ghiaccio; egli abita nel gelo dell’amore soffocato. Chiediamoci allora: come si raffredda in noi la carità? Quali sono i segnali che ci indicano che in noi l’amore rischia di spegnersi?

Ciò che spegne la carità è anzitutto l’avidità per il denaro, «radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10); ad essa segue il rifiuto di Dio e dunque di trovare consolazione in Lui, preferendo la nostra desolazione al conforto della sua Parola e dei Sacramenti.

Tutto ciò si tramuta in violenza che si volge contro coloro che sono ritenuti una minaccia alle nostre “certezze”: il bambino non ancora nato, l’anziano malato, l’ospite di passaggio, lo straniero, ma anche il prossimo che non corrisponde alle nostre attese.

Anche il creato è testimone silenzioso di questo raffreddamento della carità:

  • la terra è avvelenata da rifiuti gettati per incuria e interesse;

  • i mari, anch’essi inquinati, devono purtroppo ricoprire i resti di tanti naufraghi delle migrazioni forzate;

  • i cieli – che nel disegno di Dio cantano la sua gloria – sono solcati da macchine che fanno piovere strumenti di morte.

L’amore si raffredda anche nelle nostre comunità: nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium ho cercato di descrivere i segni più evidenti di questa mancanza di amore. Essi sono:

l’accidia egoista, il pessimismo sterile, la tentazione di isolarsi e di impegnarsi in continue guerre fratricide, la mentalità mondana che induce ad occuparsi solo di ciò che è apparente, riducendo in tal modo l’ardore missionario.

Cosa fare?

Se vediamo nel nostro intimo e attorno a noi i segnali appena descritti, ecco che la Chiesa, nostra madre e maestra, assieme alla medicina, a volte amara, della verità, ci offre in questo tempo di Quaresima il dolce rimedio della preghiera, dell’elemosina e del digiuno.

  • Dedicando più tempo alla preghiera, permettiamo al nostro cuore di scoprire le menzogne segrete con le quali inganniamo noi stessi per cercare finalmente la consolazione in Dio. Egli è nostro Padre e vuole per noi la vita.

  • L’esercizio dell’elemosina ci libera dall’avidità e ci aiuta a scoprire che l’altro è mio fratello: ciò che ho non è mai solo mio. Come vorrei che l’elemosina si tramutasse per tutti in un vero e proprio stile di vita! …

  • Il digiuno, infine, toglie forza alla nostra violenza, ci disarma, e costituisce un’importante occasione di crescita….

Vorrei che la mia voce giungesse al di là dei confini della Chiesa Cattolica, per raggiungere tutti voi, uomini e donne di buona volontà, aperti all’ascolto di Dio.

Se come noi siete afflitti dal dilagare dell’iniquità nel mondo, se vi preoccupa il gelo che paralizza i cuori e le azioni, se vedete venire meno il senso di comune umanità, unitevi a noi per invocare insieme Dio, per digiunare insieme e insieme a noi donare quanto potete per aiutare i fratelli!

                                                                                     Francesco

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