FOOD INC. L’INDUSTRIA DEL CIBO

FOOD INC. L’INDUSTRIA DEL CIBO

IL VELO: il sistema che sta dietro alla produzione del cibo, come tutti gli altri settori dell’economia, è una struttura estremamente complessa dotata di mille sfaccettature e motivata da interessi enormi che spingono le multinazionali coinvolte a pensare esclusivamente con la logica del profitto. Il profitto è anche la motivazione che spinge i produttori a cercare con tutti i mezzi possibili di celare al grande pubblico il modo in cui il cibo viene prodotto, perché la verità farebbe sorgere un bel po’ di domande. E queste ultime fanno male agli affari. Il cibo però è un elemento essenziale della nostra vita e tutti noi abbiamo il diritto di sapere cosa consumiamo veramente.

Film come FOOD INC. (USA, 2009 regia di Robert Kenner), ma anche i vari COWSPIRANCY, CONNECTED BY COFEE, THE HARVES, MEAT THE TRUTH ecc. si pongono l’obiettivo di sollevare il velo che si frappone tra noi consumatori e le aziende produttrici. Anche se spesso si concentrano sulla realtà del Paese in cui vengono prodotti ( USA ), la verità è che il resto del mondo si è già dovuto adeguare o dovrà farlo molto presto per restare competitivo.

L’INDUSTRIA DEL CIBO: il marketing è il modo più usato per nascondere i veri processi produttivi degli alimenti. L’immagine piuttosto ingenua del piccolo agricoltore, devoto alla propria terra che coltiva con rispetto e niente di più evoluto di un trattore, ci viene servita dalle pubblicità in tv e dalle foto piazzate sui prodotti del supermercato. Questo perché provoca un sentimento di familiarità e di simpatia che ci spinge a non indagare più di tanto. La verità è che la maggior parte del cibo viene prodotto secondo la logica del sistema industriale intensivo, sia in agricoltura sia nell’allevamento: un’organizzazione tutta improntata alla massima efficienza, alla riduzione dei costi e alla massimizzazione del profitto, a scapito della qualità del prodotto finale e senza rispetto per i lavoratori coinvolti e per l’ambiente. Un sistema che corre veloce verso le inevitabili conseguenze che questo modo di agire produrrà a lungo termine, che però non rientra negli interessi di chi vuole trarci un guadagno adesso e pensa solo a come sbaragliare la concorrenza.
Ecco quindi perché vengono impiegati mezzi come la deforestazione massiccia, l’uso di pesticidi dannosi per la terra, gli Ogm, i CAFO, allevamenti intensivi dove gli animali vivono e muoiono in condizioni spaventose, l’utilizzo di lavoratori sottopagati e in precarie condizioni di sicurezza… Tutto ciò porta a un notevole impatto negativo sull’ambiente, una massiccia perdita di biodiversità e a uno grande spreco di terra e di risorse senza neanche riuscire a sfamare tutta la popolazione mondiale: 800 milioni di persone soffrono ancora la fame. E se le cose dovessero continuare in questo modo, in futuro il numero crescerà ancora, il danno sull’ambiente sarà irreversibile e il prezzo del cibo aumenterà rendendolo meno accessibile. L’industria del cibo per come è concepita non è capace di guardare al domani e rischia di portarci a un inevitabile collasso.

I PADRONI DELL’INDUSTRIA: ma chi è che controlla veramente il settore alimentare, uno dei più grossi dell’economia e dei più redditizi? Anche qui esiste un velo: è facile andare al supermercato e vedere migliaia di marchi diversi, in apparente competizione tra di loro. La realtà è ben diversa: secondo la OXFAM, organizzazione mondiale per la lotta alla povertà, il 70% dei cibi venduti nel mondo fanno capo a una delle 10 grandi aziende del settore, gigantesche multinazionali che controllano in un modo o nell’altro tutto il mercato. Al primo posto, ovviamente, la Nestlé. Queste 10 sorelle producono, impacchettano e distribuiscono gran parte del cibo che viene consumato nel mondo, in pratica controllandone la fornitura e decidendone lo standard, la qualità e perfino il prezzo. I fast food ne comprano in gran quantità, per esempio la McDonald è uno dei più grandi compratori di carne, di patate e perfino di mele in America. In Italia la situazione è un po’ diversa, data la presenza di poche grande aziende con grandi fatturati il mercato alimentare risulta più diviso tra medie/piccole aziende, quindi senza particolari monopoli.

LE REGOLE DEL GIOCO: queste grandi aziende, grazie al loro enorme potere e ai colossali interessi sul piatto, sono in grado di esercitare un enorme pressione sugli enti governativi che hanno la responsabilità di controllare l’industria e proteggere i consumatori, finendo spesso per influenzare le politiche e le leggi sulla fase di produzione e di controllo. Negli USA molte delle persone messe a capo di questi enti sono ex dirigenti di queste multinazionali, un conflitto d’interesse del tutto ignorato che però ha delle conseguenze; il governo infatti fornisce in modo del tutto arbitrario delle sovvenzioni sulla produzione di determinati alimenti che altrimenti risulterebbero antieconomici, ma che invece vengono coltivati in proporzioni di molto superiori alle necessità dei consumatori. È il caso del mais per esempio, la cui coltivazione in America occupa il 30% dei terreni, e la cui diffusione, grazie a queste sovvenzioni che ne tengono sempre basso il prezzo, ha raggiunto un estensione paradossale: nella quasi totalità dei prodotti trovabili nei supermercati è presente almeno un derivato ( i più comuni lo sciroppo o l’amido). Inoltre esso viene usato come alimento negli allevamenti intensivi, un cambio di dieta che ha degli effetti sulla qualità della carne e sui costi ambientali. Le grandi Sorelle vengono favorite in altri modi; per esempio la Monsanto brevettò una specie del seme di soia che nel 1996 era usata dal 2% dei coltivatori, nel 2008 dal 90%, creando di fatto un monopolio che l’azienda americana protegge con tutti i mezzi possibili e con l’aiuto del potere giudiziario, arrivando a citare in giudizio gli agricoltori che decidono di non usare quella varietà, cause che anche se non possono vincere portano questi farmers indipendenti al collasso finanziario.
Tutto il sistema di produzione è soggetto a scarsi controlli e blande regolamentazioni, rendendo le aziende intoccabili e immuni dalle conseguenze derivate dagli allevamenti intensivi, dove gli animali vengono torturati durante tutto l’arco della loro esistenza e i lavoratori, spesso irregolari, vengono sfruttati senza godere di alcun diritto. Nemmeno la qualità sembra essere una priorità: le condizioni in cui vivono gli animali e le enormi quantità di antibiotici che vengono loro somministrati hanno degli effetti sulla salute dei consumatori; sono numerosi i casi in cui alcune persone hanno perso la vita dopo aver contratto qualche virus contenuto nella carne ( per esempio l’Escherichia coli).

POCA TRASPARENZA, PUBBLICITA’ INGANNEVOLI: se è già difficile di per sé riuscire a dimostrare le responsabilità che queste aziende hanno, cambiare il loro comportamento risulta quasi utopico. I grandi produttori usano da sempre una politica di poca trasparenza, cercando in tutti i modi di nascondere al grande pubblico il sistema produttivo e tutto ciò che sta dietro al piatto che ci viene servito in tavola. Ancora una volta le leggi li vengono in aiuto, proteggendole da inchieste esterne e non fornendo alcun obbligo a divulgare informazioni che spetterebbero di diritto a chi sceglie di comprare un determinato alimento. Negli USA solo parlare male di un marchio può portare in tribunale. Ai piccoli allevatori e coltivatori che lavorano per le grande aziende è proibito per contratto di parlare o mostrare il proprio lavoro, in caso contrario penali astronomiche che li porterebbero alla rovina. E se gli scandali che ogni tanto vengono fuori si cerca di tenerli sotto basso profilo, altrettanto non si può dire del marketing : miliardi spesi in colossali campagne pubblicitarie che però non sono tenute a dire la verità, né su come viene veramente prodotto il cibo, né quali sono i reali effetti sulla salute del uomo. La trasparenza non è presente neanche sugli scaffali: molto spesso le confezioni di cibo trovabili nei supermercati contengono informazioni ingannevoli o poco chiare sull’origine del prodotto.

SCEGLIAMO DAVVERO COSA MANGIARE?: la domanda sorge spontanea dopo aver capito un poco come funziona l’industria alimentare e cosa la muove veramente. Abbiamo già visto come determinati prodotti vengono sovvenzionati e quindi perché essi siano più presenti sulle nostre tavole rispetto ad altri; le conseguenze sono che per noi consumatori mangiare cibi di scandente qualità dannosi per la nostra salute è più conveniente che farlo in modo sano ed equilibrato. Al supermercato costa meno comprare un pacchetto di patatine che un la maggior parte della verdura. È più economico comprare un menù in un fast food che cucinare un intero pasto a casa. Eppure non dovrebbe essere così, in teoria. Ma non solo. Nel 1955 l’allora presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower subì un attacco di cuore, attirando ancora di più l’attenzione sulle già diffusissime malattie cardiovascolari. Ci fu una corsa tra gli scienziati per spiegare le cause di questo aumento esponenziale di casi. Il dibattito era tra zucchero e grassi: la gara fu vinta dal fisiologo americano Ancel Keys, che attraverso diversi studi condotti nel mondo, dimostrò che i grassi e il colesterolo favorissero l’insorgere di malattie al cuore. Peccato che questi studi furono condotti sulla base di statistiche condizionate dallo cherry picking ( scegliere solo i campioni più favorevoli alla conferma della propria teoria di partenza). Tutte le sue ricerche erano improntate a dimostrare la sua tesi, che la scienza contemporanea ha smentito più volte, pur di ottenere la fama derivata, distogliendo l’attenzione dall’altra possibile causa, lo zucchero, arrivando al punto di discreditare in ogni modo possibile lo scienziato inglese John Yudkin che contemporaneamente stava sviluppando una teoria opposta. Keys ebbe molto successo e fece passare passare Yudkin per un ciarlatano, aiutato anche da massicce campagne pubblicitarie finanziate dalle grandi aziende coinvolte nel business dello zucchero, che foraggiavano segretamente anche gran parte degli studi condotti sull’alimentazione in quell’epoca ( numerosi documenti emersi solo recentemente lo attestano). Il risultato è che il governo americano e l’AHA (american heart association) pubblicarono una linea guida sulla dieta che rappresentava i grassi e il colesterolo come nemici evitando però di menzionare lo zucchero. Da allora una dieta non basata su fatti scientifici ha condizionato le abitudini alimentari di buona parte del mondo, favorendo la diffusione incontrollata dello zucchero, ormai presente in grandi quantità in quasi tutti gli alimenti ( l’80% dei cibi sugli scaffali contiene più della dose giornaliera raccomandata). Le aziende hanno perfino individuato un data quantità, il bliss point, che una volta aggiunta a un alimento lo rende più apprezzabile e crea dipendenza.

IL COSTO NASCOSTO: in una lattina da 33ml di coca cola ci sono 35 grammi di zucchero. Produrla e comprarla costa poco. Ciò che non vediamo però è il costo nascosto del cibo, ovvero le conseguenze che una dieta errata produce non solo sulla vita delle singole persone ma sull’intera collettività. Le abitudini alimentari hanno un enorme impatto sulla salute, forse il più importante; ogni anno nel mondo la spesa pubblica sostenuta a causa di questo problema si aggira intorno ai 1.3 trilioni di dollari. Un lunga serie di malattie sono provocate da un alimentazione sbagliata. Nel 2017 un rapporto del OMS ha stabilito che 1,9 miliardi di persone nel mondo sono in sovrappeso, di cui 600 milioni obesi ( il 13% della popolazione adulta) . Sempre nello stesso hanno 4,7 milioni di morte premature sono riconducibili all’obesità. Dal 2010 un bambino su 3 che nasce in America probabilmente svilupperà il diabete già prima di diventare adulto. E la lista potrebbe continuare. La produzione di cibo non ha effetti solo sulla salute delle persone: l’impatto che ha sull’ambiente è devastante, essendo responsabile di gran parte dell’inquinamento ( ¼ delle emissioni di gas sono causate da agricoltura e allevamenti), anche indirettamente, per esempio pensiamo alle vaste distese di terra deforestate per l’uso, o la caccia intensiva nei mari. C’è da considerare anche la conseguenza che il mercato internazionale ha sull’economia di singoli Paesi, specialmente quelli più poveri. Quando si compra un determinato alimento al supermercato il prezzo è immediatamente evidente, e ci si ferma pensando che sia tutto là, il costo della produzione più il trasporto e il guadagno dei rivenditori. Ma non è così, il vero prezzo è determinato anche dei costi impliciti, tutte le conseguenze che la catena ha prodotto vengono pagate dai soldi pubblici e quindi da noi: le spese sanitarie, gli interventi umanitari, le enormi spese per l’ambiente… tutto ciò sta portando a delle pesanti ripercussioni nel lungo termine che pagheremo a grande prezzo.

LE SOLUZIONI: è evidente che la produzione di cibo, soprattutto quella industriale, deve essere ripensata. Ma devono essere tenuti in considerazione anche altri fattori, come la costante crescita demografica globale, che impone la necessità di sfamare sempre più persone, senza contare quelle che già adesso non hanno accesso a una sufficiente quantità o qualità di cibo. Per soddisfare le esigenze della popolazione in modo sostenibile si deve intervenire prima di tutto a livello di governance internazionale, cercando di favorire la crescita dei piccoli proprietari nelle aree povere e rurali del mondo, sia con politiche che rendano migliore il loro accesso al mercato sia fornendo mezzi tecnologici e un’adeguata istruzione che aumentino l’efficienza. Le politiche coinvolte dovrebbero essere anche indirette, cercando di favorire lo sviluppo economico delle aree più povere, che sono anche quelle dove il tasso di crescita della popolazione è maggiore. Nella catena che porta il cibo alla tavola bisognerebbe ridurre al minimo gli sprechi ( secondo la FAO 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, un terzo dell’intera produzione mondiale, viene buttato ogni anno, per un valore complessivo pari a 1000 miliardi di dollari). Il commercio di cibo dovrebbe essere favorito attraverso la riduzione di tasse dogali e il miglioramento delle infrastrutture. Nell’insieme queste soluzioni porterebbero a una riduzione del prezzo del cibo, rendendolo più accessibile e abbordabile a una fascia più ampia di popolazione, soprattutto quella a rischio, obiettivo che si può raggiungere anche attraverso la ricerca scientifica mirata ai cibi più sani e nutrienti e la diversificazione della produzione per aumentare la produzione di cibi poco diffusi e quindi diminuirne il prezzo. Le politiche ambientali per la sostenibilità, infine, devono diventare centrali negli obiettivi di ogni governo.
Anche noi singoli consumatori possiamo influenzare il mercato alimentare, possiamo far sentire la nostra voce; come ci ricorda il finale di FOOD INC. “noi votiamo 3 volte al giorno” attraverso le scelte che facciamo. La scelta è comprare cibo di produzione locale o dal mercato equosolidale o solo da aziende etiche che rispettano i lavoratori, gli animali e l’ambiente. Si possono fare pressioni sul governo per controllare meglio il sistema e renderlo più trasparente. Le battaglie svolte in passato contro l’industria del tabacco sono un perfetto esempio di come sia possibile spezzare un monopolio di poche potenti aziende.
Informarsi e cambiare il proprio modo di mangiare è solo il primo, ma importante passo.

A cura di Davide Candotto, servizio civile ACCRI 2020-2021

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